Oggi è una giornata caldissima, di quelle che metteresti la testa dentro il frigo per trovare un po’ di sollievo.
L’aria è ferma, l’umidità ti si appiccica addosso come una seconda pelle e sembra che manchi il respiro sia in casa che fuori.
Anche il letto è bollente, come se qualcuno avesse acceso un falò sotto il materasso ed il lenzuolo ad ogni movimento, sembra che ceda il suo calore alla schiena, rendendo la pausa pomeridiana un vero inferno.
Alla radio stanno trasmettendo una vecchia canzone, tanto in voga quando ero bambino e avevo una sola cosa in testa, giocare con i miei amici. Pensavo solamente a quello.
Mi svegliavo con quel pensiero e la cosa che facevo subito era uscire per cercarli, così la giornata aveva inizio e così finiva, dopo che il sole era tramontato.
Chissà, forse se non avessi avuto tutta quella voglia di giocare che mi divorava, la mia vita avrebbe preso una piega diversa.
Forse.
O forse no.
Non potrò mai sapere cosa sarebbe successo se quel maledetto mattino non fossi andato a giocare nei pressi della cava.
Magari adesso avrei la vita che hanno tutti e non dovrei dipendere da nessuno.
Potrei salire su un’auto e andare a fare un giro da qualche parte, invece di stare steso su questo letto fatto di carboni accesi, oppure potrei prendere un aereo e volare dall’altra parte della terra.
Potrei, potrei, ma perché sto usando questo verbo con così tanta insistenza?
E perché oggi ho deciso di farmi del male in questo modo?
Se potessi tornare indietro, so che cancellerei quella giornata straziante dal calendario e rimarrei chiuso in casa ad aspettare il giorno seguente.
Ma come mi era venuto in mente quel mattino di andare a giocare proprio in quel posto, e perché quando l’attenzione di tutti noi bambini era stata catturata da quella cosa che luccicava, non avevamo pensato di dirlo a casa, prima di avvicinarci e toccarla. Invece no, la curiosità era stata più forte e questo ci aveva resi dei veri incoscienti, così ognuno di noi aveva pagato il prezzo per quel segreto che volevamo venisse svelato ad ogni costo.
Il residuo bellico era scoppiato improvvisamente investendo tutti. Il risultato era stato come un bollettino di guerra, due morti e quattro feriti gravi.
Io da quel momento ero entrato nelle tenebre più profonde e a nulla erano valse le cure tempestive che avevo ricevuto. Non mi rammarico di aver perso una mano, mi distrugge l’idea di non poter mai più vedere i colori della vita, ormai l’unico colore che conosco è il nero che mi sta accompagnando già da cinquanta anni. Quel mattino d’estate faceva caldo esattamente come oggi, l’aria fuori era rovente, stavamo litigando sul gioco fare, eravamo quasi sempre in disaccordo perché essendo in sei, era sempre difficile trovare un’intesa.
Ero stato proprio io a proporre di trovarci alla cava, e dopo qualche battuta di disappunto da parte di due di noi, alla fine si era deciso di andare.
Una decisione poco azzeccata, valutandola col senno di poi, ma a quell’età come era possibile prevedere una tragedia simile, avevo solamente sei anni e la mia priorità era giocare, giocare e niente altro.
Quando non giocavo, stavo a guardare mia madre mentre faceva le faccende domestiche, ad esempio mi piaceva tanto osservarla quando impastava il pane, lo preparava sempre di lunedì, così avevamo la scorta per tutta la settimana.
Le sue mani si contorcevano intorno a quella palla di pasta e i suoi movimenti erano così perfetti che sembrava avesse fatto un corso apposta per fare quel pane così buono.
Il lunedì era sempre un giorno di festa per noi perché avanzava sempre un po’ di pasta e con quella, lei faceva la pizza che messa nel forno a legna, aveva un sapore completamente diverso da quella che sono costretto a mangiare adesso.
Tutto era diverso allora, non soltanto i sapori, anche i rapporti con le persone erano più genuini, non c’era il distacco e l’indifferenza dei giorni nostri.
Era facile ritrovarsi, gli uomini per una partita a carte, le donne per un lavoro a maglia.
La magia e la semplicità di allora sono invidiabili, al solo pensiero le mie emozioni mi mandano in estasi. Se penso a quando ero bambino mi assale una nostalgia fortissima che mi fa stare quasi male, ma provo allo stesso tempo una sensazione di leggerezza e di gioia per quelle giornate passate in spiaggia a fare i tuffi in mezzo alle onde quando il mare era agitato, o per quelle corse fatte nei prati, dove io vincevo quasi sempre, sembrava che avessi le ali ai piedi.
Come posso dimenticare tutto questo, adesso che sono qui in questo letto, con una sigaretta accesa, ad aspettare che venga qualcuno a prendermi per portarmi fuori.
Quando sono più depresso del solito mi rifugio nei miei ricordi e mi lascio cullare dalle suggestioni che sanno regalarmi.
Sono i ricordi l’unica cosa a colori dopo essere sprofondato nel buio, attraverso questi flasback riesco a vedere l’azzurro del mare, il verde dei prati, il rosso dei frutti maturi, il giallo dorato degli agrumi.
Quando poi riemergo, questi, cominciano lentamente a tingersi di nero e tutto quel buio intorno a volte sembra quasi che mi soffochi.
Spesso sento lo sguardo di mia madre addosso, lo percepisco, dal suo respiro riesco ad intuire i suoi pensieri e provo una pena immensa per lei che è costretta a vedere questo figlio tanto amato, senza alcuna autonomia.
Provo più dispiacere per lei che per me. Mi rammarico per averle dato questo peso così grande da portare e per questo motivo, le mie notti sono insonni, braccato dentro la morsa dei sensi di colpa, ingigantiti dalla vita che la obbligo a fare e dalla pena che prova ogni volta che mi guarda e mi parla.
Ho l’abitudine di ascoltare la radio durante la giornata e qualche volta la domenica mi sintonizzo sulla Santa Messa, non so perché lo faccio, è come se volessi aggrapparmi a qualcosa, poi una voce dentro mi dice di lasciar perdere, non è il mio Dio quello a cui si rivolgono gli altri, è il loro.
Il mio è un Dio di seconda scelta, distratto, incapace, assente e che condanna con facilità su questa terra anche chi di peccati non ne ha ancora.
Ho provato qualche volta a parlarGli, ma non ho avuto risultati, d’altra parte cosa potevo aspettarmi da un’Entità minore, solo bassa qualità e di conseguenza scarsi esiti.
Preferisco recitare una poesia piuttosto che dire una preghiera, ma di questo non ne parlo mai con nessuno, rischierei di apparire patetico e irriverente allo stesso tempo. Proprio ieri ho sentito mio padre che stava pulendo il fucile da caccia, mi sono avvicinato a lui e quando alle narici mi è arrivato l’odore della terra umida rimasta attaccata ai suoi scarponi, sono stato assalito dai ricordi dei nostri momenti passati insieme nei boschi a parlare e inseguire prede.
Avevo solo cinque anni e lo seguivo sempre orgoglioso del fatto che mi volesse con sè, questo significava una cosa soltanto, che desiderava lasciarmi in eredità quella sua grande passione.
Faceva di tutto perché condividessi con lui l’amore smisurato per quello sport che praticava con gioia e forse anche con troppa assiduità. Il fatto che desse priorità alla caccia creava spesso dissapori con mia madre, ma non per questo si lasciava scoraggiare, il mattino seguente era già pronto per partire col fucile in spalla, nonostante la mamma borbottasse come una pentola sul fuoco.
Una volta mi aveva fatto imbracciare il fucile e così avevo sparato ad una lepre.
L’avevo colpita, ricordo che ci eravamo abbracciati urlando di gioia, ma non avevamo potuto dividerla con nessuno a casa, così quello era diventato il nostro segreto.
I miei fratelli invece, un volta diventati adulti avevano preso le distanze dalla caccia, a loro piaceva fare altro, come giocare al pallone o aiutare mio padre quando seminava qualcosa nei campi.
A volte quando sto in silenzio ad ascoltare le loro voci, provo ad immaginare i loro volti, quelli delle loro mogli, dei loro figli e mi appaiono tutti come ombre, simili a fantasmi che si aggirano per casa, conosciuti e graditi, ma sempre comunque fantasmi.
In base al timbro della voce li catalogo, posso dare loro una connotazione appigliandomi al modo di parlare e di porsi, poi sulla base di questi elementi determino istintivamente le mie simpatie e antipatie.
L’affetto che ho per i miei fratelli è innegabile, ma quello che provo per i loro figli è amore, un amore grande che mi inonda il cuore di tenerezza.
Mi sono accorto qualche tempo fa che mi sarebbe piaciuto tanto avere un figlio, un bambino tutto mio da stringere e coccolare, un bambino in cui rivedermi, al quale lasciare in eredità le mie passioni, le mie idee, i miei insegnamenti e col quale condividere da adulto una partita di calcio allo stadio o un giro in moto, per sentire insieme il vento sulla faccia, mentre si viaggia a tutta velocità.
Avrei voluto tutte queste cose che non si possono comprare, ma che ti vengono date dalla vita, se lei decide di dartele.
Mi sono chiesto spesso perché fosse toccata proprio a me questa sorte e sulla base di quale criterio era stata fatta questa scelta.
Da cinquanta anni queste domande mi fanno compagnia, come amiche fidate che affiancandomi, giurano fedeltà e presenza costante, ed io, incapace di dare loro una risposta, non faccio altro che avallare e consolidare il loro patto di lealtà.
Ricordo che quando avevo quattro anni un’onda, un giorno d’estate in cui il mare era agitato, mi aveva prima coperto e poi risucchiato, abbracciandomi con tutta la sua irruenza. C’era voluta tutta la forza di mio padre per riuscire a riemergere.
Da quel momento le persone presenti in spiaggia avevano giurato che non avrei più messo piede in acqua, invece il giorno dopo ero di nuovo lì a giocare.
Adesso che il caldo mi sta soffocando, se potessi scegliere dove stare, più che in spiaggia, vorrei trovarmi tra le cime di una montagna, a passeggiare a piedi nudi su di un prato per assaporare la sensazione di freschezza che mi darebbe l’erba inumidita dalla rugiada mattutina.
Quando penso alla bellezza del creato, ai suoi colori che ancora sono chiari nella mia memoria, ai suoi odori che solleticano le mie narici come quello dei funghi appena colti, della terra bagnata dalle prime gocce di pioggia, il profumo delle violette fresche o quello della ginestra, mi viene da chiedere a Colui che ha creato tutto questo: “come farò ad abbandonare questa vita senza poter vedere un’ultima volta le vette innevate delle montagne, il verde dei prati, il rosso di un tramonto.”
A questo Dio che non mi appartiene, chiedo una cosa soltanto: la luce della misericordia, prima di congedarmi per sempre da questa vita affichè possa finalmente dire: «questo, è anche il mio Dio.»
Cara Stellina, ho trovato questo racconto molto bello, ricco di sentimenti e con ricordi a periodi lontani in cui parole come, solidarietà, vicinanza, amicizia, affetto, erano valori n o r m a l i e a portata del quotidiano.
Non so se hai raccontato una storia reale o se ti ha aiutata la fantasia, comunque sia, le tue capacità sono notevoli eh…, a proposito…, le maestrine che vorrebbero insegnare qualcosa, dovrebbero andare a lezione prima loro, ma di umiltà.
Grazie per scrivere.
Sandra
Mi colpisce l’umanità del tuo raccontare.
Sembra che tu stia parlando di un caso estremo, eppure non è così.
Ci sono sacche di persone di cui non si parla mai, di cui non si racconta, di cui preferiamo tacere.
I miei complimenti, Cara Amica, non solo per come sai trattare “certi” argomenti, ma anche per il modo in cui lo fai spingendoci a riflettere su quella cosa preziosa e fragile che è la vita.
Ciao
anna
Grazie Sandra, le tue parole riescono sempre a sorprendermi piacevolmente e darmi serenità. Il fatto raccontato è vero purtroppo, il modo di raccontarlo è frutto della mia immaginazione. Grazie ancora, ti abbraccio forte.