“Interessante come decidi di non funzionare a dovere proprio quando mi serviresti di più” dissi al mio cervello un sabato mattina di un mese che non vi interessa davvero sapere quale fosse, di cui non ho intenzione di dirvi il tempo atmosferico in quanto non aggiungerebbe nulla alla mia narrazione.

“Guarda che sei tu a ragionare male, o meglio a tenermi a riposo.”
“Ammetto di non capire le tue parole. Sei tu che pensi, io agisco di conseguenza, cervello mio!”
“Ti faccio un esempio, capirai meglio. Adesso stai dialogando con me, che sono il tuo cervello. Ammesso che questo abbia senso, per quale motivo lo fai parlando a voce alta? Credi che io abbia le orecchie?”
“No, ma se lo desideri puoi provare le mie, funzionano fin troppo bene” risposi, rischiando di divagare per vantarmi delle prodezze del mio udito, in effetti quasi prodigioso.

Bene, adesso che ho accluso queste informazioni così poco essenziali posso anche dirvelo. Era marzo, le nuvole erano talmente rarefatte da non ingannare la fantasia con la benchè vaga somiglianza, la pioggia così inconsistente da non bagnare. I miei capelli la sentivano lo stesso e si increspavano fino a diventare assassini di pettini di legno e di plastica, mentre le bionde chiome delle ungheresi, sprezzanti nel loro camminare senza ombrelli o coperture di sorta, mantenevano una piega perfetta. Contenti? Ora posso deliziarvi con un approfondimento: le mie orecchie hanno una sensibilità superiore alla media. Sento tutti i telefoni del mio condominio e dei due palazzi adiacenti, fatico a distinguere il mio campanello da quelli altrui, che sento anche a casa dei miei genitori in Italia, nonostante sia una villetta indipendente.

“Scusami cara, credo tu abbia bisogno di un ripasso di anatomia, i cervelli non hanno le orecchie, si limitano a gestire il collegamento tra le parti, in modo che tu possa sentire. Quindi è inutile che mi fai una pantomima sulle tue prodezze uditive: se ci senti bene è merito mio.”
“Ti sento ben orgoglioso, ma il tuo ragionamento fa una piega. Te la dico, così me la stiri!”
“Prometto di continuare a volerti bene anche se smetterai di usare delle metafore.”
“Mi sembrava carina e poi, mi è uscita spontanea! Colpa della scuola! Lo sai anche tu che la letteratura italiana è imbottita di metafore come…”.
“Ti prego! Lo so che vuoi dire: <come una trapunta di piume o un panino al lampredotto di… lampredotto>”.
“Geniale, ora mi tocca spiegare che il lampredotto è uno degli stomaci dei bovini, cucinato con una speciale salsa in toscana per riempire panini indimenticabili. Sai, per i lettori stranieri, quelli che non sono mai stati dal trippaio, il fenomenale cuoco di panini al lampredotto dei furgoncini di Firenze e dintorni.”.
“Potresti esportarlo in Ungheria, visto che ora vivi qui.”
“Ottimo, vedi che quando vuoi funzioni?”
“Ci stiamo perdendo, che pieghe faceva il mio ragionamento di poco fa?”
“Presto detto. Accetto che tu non abbia le orecchie, anche se mi stai ascoltando, mi risulta comunque difficile capire come fai ad avere la bocca!”. In fondo il mio cervello mi stava parlando!

“Sorvolo sulla tua scarsa intelligenza, devi ancora fare colazione e daremo la colpa a questo. Inoltre offenderla equivale a darmi dello sciocco da solo. Quelli che senti, sono solo i tuoi pensieri. Noi siamo la stessa creatura, solo distribuita in punti diversi del corpo.”
Risi, poi mi bloccai, atterrita. “Scusa ancora, ma allora io… dove sono?”
“Sei ancora fuori strada! Tu sei me e, anche il resto. Avvicinati all’armadio, specchiati. Eccoti lì!”
“Capisco e osservo sempre con piacere la mia immagine, ma io dove sono? Tu sei dentro la testa, la testa sopra al collo, il busto a seguire. Io dove sono, cosa sono?”
“Pretendi che risponda alle sette di mattina di sabato a un dubbio che assilla l’umanità intera almeno dai tempi del primo filosofo di cui si hanno tracce e sicuramente da ancora prima?”
“No. Se rispondi ti faccio un regalo!”
“Che genere di regalo?”
“Cosa vorresti di più?”
“Un caffè. Dammi del caffè e io ti risponderò.”

Quella settimana non avevo bevuto caffè, dimostrando di non essere dipendente come credevo. Avevo fatto una scommessa e mi ero attenuta con scrupolo. Quel giorno, ne bevvi sei. Ancora non sapevo se fossi nelle mie mani, nelle gambe, nella parte superiore del mio busto, quella che sporgeva e riscuoteva tanto successo, nella bocca o nei gomiti.
Almeno, però, avevo imparato che il mio cervello era (ed è) infingardo. Infingardo è colui che pur sapendo fare una cosa finge il contrario, per non farla. O per bere la sua bevanda preferita.

Mancava un mese a Pasqua. Per quel giorno ce l’avrei fatta a riprendere sonno, altrimenti sarei andata a sentire la funzione e quella avrebbe fatto il suo effetto soporifero, meglio di mille camomille. Mille camomille, dovrebbero intitolarci una canzone.

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