– Ho sognato di te – ha detto.
Sono morta. Gli occhi negli occhi di lei e sono morta.
Il taxi è impastato nel traffico dell’ora di punta. Al mio fianco, sul sedile posteriore, una donna di ottant’anni, forse ottantuno, non ricordo. La mia mente convulsamente cerca le parole. I rumori son diventati insopportabili. Provo a convincerla che è tutto a posto, che andrà tutto bene. – Raccontami una delle tue storie, nonna. – Guardo le sue labbra muoversi. Dolci e morbide. Vanno su e giù regolari e parlano di passato. Una donna fuori di senno ha ucciso un gatto. Ecco che mi perdo ancora. Se riesco a resistere non si accorgerà che non posso ascoltare. Provo a infarcire il mio silenzio con “E poi?”, “Davvero?”, “Fantastico!”, eccetera eccetera eccetera. Il taxi si muove lento attraverso una gelatina di automobili rumoranti. Si, rumoranti. E’ un suono affine a doloranti. Sembra si stiano lamentando. La nonna continua a parlare. Non seguo. Non ricordo. Il tassista sembra aver capito. Tace comprensivo e partecipe. A volte lei interrompe il racconto per essere rassicurata. Sono sull’orlo del black-out. L’ingresso del policlinico ha due rampe. Scendono e risalgono. Sembrano piste da sci o da che? Una è per le ambulanze. L’altra è per noi. Il taxi infila la rampa numero due e scende e risale. Le ampie vetrate dell’ingresso si aprono su pigiami e vestaglie di flanella color pastello. Aiuto la nonna a scendere dall’auto gialla, forse bianca. Non ricordo. Lei ha bisogno di essere spinta con forza per scendere da un’automobile. Oltrepassato l’ingresso l’unico colore è il bianco. Come per i ciechi di Saramago. Son diventata cieca. Vedo solo bianco. Avvolta da una spuma densa non mi dibatto. Forse mi sciolgo. Adesso non c’è più spazio per raccontare. La richiesta di rassicurazioni da parte della nonna è divenuta incessante. In fondo al corridoio gli ascensori. Sono di due ordini: quelli per i malati e quelli per i sani. Sano è il contrario di rotto. Sano lo puoi ancora utilizzare. Rotto, se è cosa grave, lo butti. Non si ripara. Le porte si aprono e si richiudono. I grossi numeri digitali che indicano i piani appaiono e scompaiono. Un susseguirsi di numeri. Lei tace. La solitudine è assoluta. Per entrambe. Cosa ci siamo dette l’ultima volta? Rallento il passo per cercare qualcosa dentro di me. Da qualche parte sarà rimasta qualcosa. Un pezzo di un che… non è rimasto niente. Vuoto assoluto e bianco. Adesso voci di parenti, voci di chi non so. Voci indistinte e preoccupate. La nonna scompare. Non sta più camminando al mio fianco. Sono sola nel corridoio del reparto. Rallento ancora. Il bianco è abbagliante. Doloroso. Non ho avuto il tempo di lavarmi i capelli, penso. Odio tenerli legati. Eppure adesso porto una coda. Una maglietta vecchia. Jeans marrone. Scarpe da ginnastica. Non ricordo più se sono una donna o una bambina mentre rallento perché il corridoio possa durare all’infinito. Intravedo una sagoma nel bianco. Capelli scuri, pelle chiara, statura media. Una bella donna. Ha l’aria affranta. E’ mia madre. Forse un miraggio. Per un attimo posso credere che lei metterà tutto a posto. Lei, che è in grado di riparare ogni cosa. Le vado incontro. Lei può tutto. Riparerà ciò che si è rotto. Tutti saneranno al suo tocco. Inavvertitamente accelero e lascio andare la morsa delle mandibole. Sembra che il gesto abbia effetto sui miei occhi. Strane macchine noi umani, che per non perdere liquidi dagli occhi serriamo le mandibole. Inavvertitamente piango. Mentre le lacrime scorrono il passo si fa più spedito. Mamma mi guarda e i suoi occhi verde-giallo son due pistole. – Vattene. Io non posso. – Che senso ha mi domando mentre arresto il passo. Rimango come appesa. Anche le lacrime si fermano a metà strada. Se lei non può chi mai potrà più? Dunque si tratta di una rottura definitiva. Nulla è più riparabile. Dietro la porta con la maniglia gigante non c’è più niente da fare. Lo sanno già tutti. Ecco perché l’aria è così bianca e affilata. Ecco il motivo per la presenza di parenti noti e sconosciuti che affollano le sale d’aspetto del policlinico. La porta della camera diventa grandissima. E’ un confine. Se lo valico non potrò tornare indietro. Mai più. Mi fermo sulla soglia. La porta è socchiusa. L’argento del maniglione è opaco. L’odore di ineluttabile mi dà la nausea. L’ho fatto. Ho varcato il confine. La piccola mano bianca poggiava accanto al corpo disteso. Posso guardare una cosa per volta. Adesso c’è solo una mano. Le unghie curate. L’aspetto è più che buono. Se non sposto lo sguardo potrò pensare che questa mano è il tutto e a giudicare dal suo aspetto quel tutto sta bene. Poi la mano si muove e va verso il viso. Sono costretta a seguirla. Cerca di strappare una mascherina da ossigeno. Gli elastici bianchi sulla maschera trasparente oppongono resistenza e qualcuno interviene. Se mi concentro solo sulla maschera non vedrò gli occhi. Ma la maschera trasparente è andata via e i suoi occhi mi hanno puntata. Sto morendo. E’ questo che sta succedendo. Lo leggo negli occhi che mi attraversano e già non sono qui. Quando due esseri umani acquisiscono la rara facoltà di scambiarsi vita solo attraverso gli occhi state certi che potranno anche morire nel medesimo istante. Sta capitando proprio a me. – Ho sognato di te. – ha detto e io ho blaterato una risposta informe e inopportuna. – Venivi a salutarmi. – Eccomi qui a salutare. Rewind. Esco e faccio come se non fossi mai entrata. Sono fuori. Il corridoio è più corto. Mi chiedono di chiamare qualcuno. Chi? Dov’è il telefono? Cosa sono questi geroglifici? Mi ripeto numeri in testa ma non corrispondono ad alcun segno. Sono solo rumori. Non so più leggere. Qualcuno ribadisce che devo farlo. Infilo la porta di una saletta privata. E’ deserta: i barbari da capezzale non l’hanno trovata. Mi conficco le unghie nella pelle del collo lasciando quattro lunghe strisce rosse che domani saranno blu. Poi la mano va sulla tastiera e compone. Dico solo – Venite subito. – Che ne è stato della mia forza? E della roccia che ero? La mia carne di budino cade e scivola. Non sono io. Questo sta capitando a qualcun altro. Mi sto sciogliendo. Sono diventata liquida. Continuo ad ascoltare le frasi di sottofondo. Ordini e richiami al dovere della roccia. Ma oramai sono liquida. Alle 23.00 sarà tutto finito. Una giornata di maggio. Luce accecante. Nel pomeriggio raccolgo gli ordini. Raggiungere casa e preparare gli abiti. Il mio cervello registra senza che io intervenga. La nonna si raccomanda di prendere il foulard di seta. E le calze. Docile come un agnello d’acqua obbedisco. Sono seduta sul sedile del passeggero di un’automobile rossa. Il colore del cielo è offensivo. L’aria è tiepida e il bianco non accenna a diminuire. Non c’è più molto traffico. Continuo a liquefarmi. Si arriva presto. L’ascensore mi porta all’ottavo piano. La casa nella quale abbiamo trascorso gli ultimi mesi porta segni di lotta. Un calcio alla porta della camera. Sono stata io, mi ricordo. E’ successo dopo che i paramedici l’hanno portata via qualche giorno fa. Non si lamentava ma era evidente che le stavano facendo male. Apro l’armadio nel quale sono i suoi abiti. Non li vedo. Solo spuma bianca. Come farò ad eseguire gli ordini della nonna? Non posso distinguere né forme né colori. Il ragazzo che mi accompagna con la sua auto rossa sta per lasciarmi, ma è ancora qui oggi, con i suoi modi delicati. Mi aiuta. Descrivo le forme e i colori e lui me li indica. Come un cane guida mi dirige le mani verso gli abiti giusti, il foulard di seta, le calze. Calze di nylon nero, autoreggenti. Me le ha regalate lei lo scorso Natale. Profumano di sapone di marsiglia. Di nuovo la vetrata dei pigiami e delle vestaglie di flanella. Di nuovo i corridoi bianchi e gli ascensori per sani. Di nuovo la scia troppo breve del reparto e la porta con il maniglione di argento opaco. Consegno l’ordine a qualcuno. Non ricordo. Sono stata brava. Ho preso tutto, ma ho sbagliato foulard. Non importa, mi rassicurano. Andrà bene così. E’ arrivato il momento di arrendersi. Lascio scivolare il mio corpo liquido giù per le scale del policlinico. Parenti di ogni grado protestano per le mie lacrime. Vietato piangere. Chi si occuperà di noi se tu perdi tempo a liquefarti per le scale, pensano. E’ un processo irreversibile. Invece smetterò di essere liquida tra qualche tempo. Il mio corpo d’acqua diverrà pietra e smetterà di vibrare. Risuona ancora la mia voce che legge i salmi per lei. – Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. – Sono costretta a crederlo. Ma come faccio a non mancare di nulla se manchi tu? Per compiacerla simulavo una fede incrollabile. Io lo chiamo amore. E’ la facoltà di simulare per rendere felice l’amato. Non fa male. Il gioco vale la candela. L’aria è sempre più tesa e tagliente. Le scene di disperazione si moltiplicano. Qualcuno ha urgente bisogno d’acqua. Non è lei. E’ la nonna. Devo intervenire perché l’ordine sia eseguito. Sono furiosa con la suora-caposala che nega l’acqua agli assetati. Mi portano via di peso mentre sbraito e minaccio. Oramai ho perso lucidità ed efficacia. Nessuno si fiderà più di me. Alle 23.00 è tutto finito. La porteranno giù. Il lettino sfila per il corridoio che è divenuto troppo corto. Il pubblico osserva compito. A metà percorso l’infermiera le tira il lenzuolo bianco sul viso. La mettono sull’ascensore dei malati. Solo perché non esiste un ascensore per i morti. Al funerale leggerò il nostro salmo. Per compiacerla fingerò di credere che il Signore-pastore possa colmare tutti i miei vuoti. Anche il vuoto di lei. Il Signore è il mio pastore, ma manco di te.