Tirava vento e faceva freddo quella mattina, nonostante la tersa lucentezza dell’aria bastava a se stessa. Era la condizione perfetta: la purezza rivelata nell’impenetrabilità del suo sguardo impaziente e commosso.
La ragazza giaceva nel letto come una Madonna in ansia. Si chiamava Anna.
Era la nostra stanza privata, in quella clinica dispersa nel verde della collina.
Appoggiata su due cuscini e attorniata da peluche, eccelleva di un’avvenenza straordinaria.
Capelli biondi simili a luminescenti filamenti le incorniciavano il viso a forma di cuore, la pelle evocava l’odore di perla polverizzata. Gli occhi di un celeste atmosferico, lo sguardo sbarazzino e le labbra di fattezze tali, che lo stesso Rubens avrebbe potuto attribuire alla sua modella preferita.
Era stata accompagnata da un’amica e mi aveva colpito per la sua gentile bellezza: le gambe sottili, e ben formate, lo sguardo fiero e tagliente come gocce di cristallo, la voce ingenua, ma che, nelle poche parole scambiate, mi aveva rivelato un carattere ben più adulto e maturo, rispetto alla sua età.
Sapevo perché era lì e tale consapevolezza m’intimoriva un poco; infondo era solo una ragazzina, probabilmente ancora vergine e pertanto gli uomini, con tutta la loro illogicità, le avrebbero negato l’uso della ragione.
O forse mi sbagliavo, me ne accorsi, quando entrò il dottore…
Lui non avrebbe mai pensato di ritrovarla lì, in quella casa di cura, una sera in cui il vento sembrava brandire a folate la remota campagna e agitava le ultime foglie secche dei salici quasi decapitati.
“Voglio che mi visiti tu”, disse con un impercettibile cenno d’emozione e di disagio.
La preghiera lambiva la stanza con un sussurro languido e suadente.
Era molto più donna di quanto potevo fantasticare e mi sentii ritmare nel petto, mentre il paravento veniva sistemato tra i nostri letti.
La mia compostezza si dileguò in un attimo, mi sentivo prossima madrina di una bella romanza d’amore.
Non ebbero bisogno di chiudere la porta a chiave.
In realtà Anna voleva solo che le mani che l’avevano toccata e curata in passato, tornassero a posarsi su di lei, ma non con il fare di un medico, ma come può essere un uomo, colui che le aveva dedicato la sua passione mai sopita.
Si sfilò la camiciola e le braccia caddero sui fianchi. S’intuiva, aveva poca dimestichezza con la propria pelle.
Ansimava, sussurrava frasi che non potevo ben ascoltare.
Il calore aumentava ad ogni secondo, fu come la precipitosa caduta di una sfera di fuoco.
Mi affascinò il duro lavorio dei suoi capezzoli, due grandi cerchi viola con le areole rivolte verso di lui.
Anna prese la mano del suo maestro e se la mise prima sul ventre poi tra le gambe.
Con l’altra si succhiava avidamente il dito.
Lui non poté trattenersi dal guardare quel boschetto aperto e appena bagnato, spiegato davanti a lui ben divaricato.
Mi rimpicciolì piccola nel lettino in religioso silenzio, mentre i suoi occhi blu diamante si puntarono su di un bestiale attrezzo, un autentico strumento per infliggere dolore.
Lui la consolava, le cercava la bocca.
Si scambiavano baci interminabili, umidi, sonori e lei tirò fuori una vocina flebile per pregarlo di continuare, di avvicinarsi di più.
Avvenne tutto in un tempo interminabile, lui si raddrizzò sopra il busto e cominciò a succhiarle la carne dall’inguine.
A lei piaceva e si vedeva; si contorceva come un’anguilla, s’inarcava nel letto e con la lingua lo cercava.
Stavano facendo quello che Dio aveva ordinato: unirsi le membra, svegliarsi la carne, finché crollarono ansimando, lei col volto coperto da quella ragnatela che era la gabbia del loro tormento.
Allora lui fece il suo sporco lavoro con una professionalità esemplare, voleva che quel fiore potesse ripresentarsi alla vita con una veste di verginità apparente, per seguire la strada canonica per la quale lei era lì, il coronamento della sacra famiglia.
Aveva studiato per essere una specie di taumaturgo, un ricostruttore di debolezze e fragilità distrutte.
Manovrò, inghiottì, trangugiò e infine si lasciò andare in un ruggito esasperante e poi una serie di maledizioni prive di pause.
Con la mano appoggiata sulle sue cosce, Anna ascoltava, aprendosi in un malinconico sorriso.
Lo splendore e la ferocia della sua bellezza inducevano al desiderio e assorbivano tutta la disperazione.
L’ansia insorse di nuovo in lui come un demone invasato dal livore: fantasie sfrenate si ridestarono e si dibatterono, urlando tutto insieme.
Avrebbe dato la vita per poterla avere, la sua stessa anima per poter morire steso contro il suo grembo: un sentimento infinitamente tenero, stravolto in feroce pazzia dalle circostanze, degenerato in una passione incatenata ad una cruenta realtà.
Desiderava ardentemente stendersi al suo fianco se poteva essere possibile, o ancor annientarla, fustigarla fino a farla svenire e aspirarle l’utero con i baci, accarezzare e dilaniare la sua bellezza; alleviarle e accrescerle le sofferenze; sentire il suo piede sulle spalle, cingere la gola e ferirla con i denti; sottometterla anima e corpo e appagare in lei ogni capriccio disperato del suo desiderio incommensurabile.
Imprecava inflazioni e minuziose torture a membra troppo tenere da abbracciare, da coccolare e risucchiare le lacrime dalle palpebre gonfie, morbide e virtuose.
Durante la breve visita io ebbi altre visioni di cose verosimili, il proliferare e il placarsi dei sensi.
Trovandosi a corpo a corpo due creature splendide e innamorate, avevano uno sguardo di supplica risoluta e d’implorazione spavalda, si sorridevano con gli stessi occhi privati in ondate di connivenza.
Il medico uscì dalla stanza e Anna si lasciò sfuggire dalla gola un profondo spasimo, volgendo lo sguardo verso di me.
Nella sua solitudine così intimamente violata, quel dolore tenero non avrebbe sgualcito i tratti innocenti, donandole un fascino e una grazia troppo bella da sostenere.
C’era un forte odore di buono in quell’angolo del suo letto.
Mi accovacciai su quel lenzuolo fradicio e allungai la mano.
Era un campo magnetico esercitato da fulmini d’oro.
Quel dolce tuono scuoteva le antiche mura del palazzo e sbatteva gli scuri delle finestre, fino a farle spalancare, nella luce bianca di un pallore arcano.
Il guscio vuoto dell’apparenza la stava aspettando, ma io sorridevo.
Sapevo che fuori, ci sarebbe stato lui ad aspettarla.