Mi trovavo in una fase molto delicata della mia vita: i miei genitori si erano separati da poco, e mia sorella più grande era andata in Germania, a vivere con il suo nuovo ragazzo. Quella mattina stavo andando in un paese vicino al mio a trovare un’amica. Non era proprio un’amica: non sapeva niente di me, non sapeva quale fosse il mio colore preferito, che cosa mi piacesse mangiare appena sveglia, non aveva mai visto una foto di me bambina, non mi aveva nemmeno chiesto se avessi mai fatto qualche cosa veramente stupida nella mia vita. Un amico dovrebbe saperle certe cose. Un amico dovrebbe sapere solo queste cose. Che importa poi se ti chiede dove sei nata o che lavoro faccia tuo padre, o se tu abbia intenzione di sposarti. Chiedimi se mi sono mai svegliata presto solo per vedere l’alba, amico. Semplicemente andavamo a fare i compiti insieme, ogni tanto, diciamo uno scambio di favori. L’aiutavo in matematica, e lei faceva la carina con me. Già, proprio ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Della sana ipocrisia.

Ricordo benissimo quella giornata.

Mi svegliai alle 7.30. Feci colazione. Salutai da lontano mia madre, stesa sul divano della cucina, esattamente come la trovavo ogni santa mattina in cui mi svegliavo in quella casa. Distesa sul divano, tra le lacrime. Avevo indossato di fretta uno dei pochi abiti che mi rimanevano. Il resto era già in qualche scatolone, nella nostra nuova casa. Già. Era un abitino nero a stampe floreali. Indossai le mie converse e uscii di casa, correndo. Non che fosse tardi. Anzi avevo l’abitudine di svegliarmi sempre presto. Il pullman era alle 8.30. Ma mi piaceva correre. Perché così non sentivo gli occhi della gente addosso a me, o meglio li sentivo ma come tante indistinte lanterne nella notte, che non danno alcuna luce. E poi perché mi metteva allegria. Ed era l’unica cosa che mi mettesse davvero allegria, perché sapevo che se mi fossi fermata, se avessi smesso di correre, avrei pianto, dalla troppa falsità che mi circondava. Così preferivo correre e fingere che i miei fossero ancora insieme, che la mia amica mi volesse davvero bene. Corri, il mondo continua a girare e va tutto bene. Aspettai alla fermata del bus una decina di minuti. Faceva caldo, quel tepore tipico di maggio, piacevole. Stranamente c’erano poche persone: fui la terza a salire, prima di me una signora anziana con un bambino sui sette anni, che continuò a strillare per tutto il breve tragitto.

Presi posto esattamente nel centro dell’autobus, affianco ad un ragazzo vestito con dei pantaloni strappati esattamente sull’orlo, una maglietta nera con una specie di teschio disegnato sulla manica. Teneva la mano appoggiata sul sedile affianco, e guardava fuori dal finestrino appena appoggiato con il gomito contro il vetro. Aveva i capelli biondi, quasi castani, un biondo cenere ecco. E un paio di occhiali scuri, da sole. La prima cosa che pensai fu: “Che strano tipo”. Vi è mai capitato di non riuscire a staccare gli occhi da qualcuno o da qualcosa? Vi è mai capitato che qualcosa vi abbia attrattati da lontano, tra la folla, o peggio che questa qualcosa, dapprincipio vaga, insulsa anche, si sia rivelata per voi una vera ossessione, o ad ogni modo una strana curiosità. Così non riuscivo a staccare gli occhi da quel ragazzo, e in realtà non è come accade di solito che non riesci a staccare gli occhi da un bel ragazzo e allora inizi a sperare che questo ti rivolga la parola, che poi la cosa continui fino a trasformarsi in un invito, un appuntamento, qualcosa di più… Speravo solo che questo ragazzo aprisse la bocca, per un qualsiasi banale motivo. Volevo sentire la sua voce. Non sapevo nemmeno io perché, a dire il vero. In quel periodo ero piena di idee strane, e di sogni strani, di progetti, che sono la cosa che rimpiango di più al momento. Come abbia potuto adattarmi al conformismo di questa società, proprio non ho idea. Ma l’ho fatto. Così, come accade spesso quando speri al punto che questa cosa accade, lui si girò verso di me e con un largo sorriso mi chiese: “Non c’è molta gente, perché non vieni a sederti qui?”. “Perché non vieni tu, sei ci tieni tanto?”. E in un attimo, fu vicino a me. Posò ai piedi il suo zainetto rosso, e per un po’ rimanemmo in silenzio. Così pensai che almeno non era uno di quelli che ti riempiono di domande stupide.

“La gente non sa apprezzare il silenzio. Immagini se per un secondo tutte le persone del mondo stessero in silenzio, e si fermasse tutto il rumore, arriveremo a sentire ciò che accade nell’universo”. “Idea strana, ma originale.” “ No, in realtà è di un mio amico. E’ morto qualche mese fa e ogni tanto mi viene in mente una delle sue strane idee..” Senti questa… E iniziò a parlare di non so quale filosofo. Da come parlava, doveva avere qualche anno più di me. Forse venti o ventuno anni. Si esprimeva in maniera così garbata e forbita, che lo avrei visto benissimo vestito in giacca e cravatta e mocassini. Forse troppo. Solo giacca e cravatta. Non era il tipo da jeans strappati e maglia nera con teschio. Già. Ma quante cose non si addicono a noi. Perfino il mio nome, Margherita, suonava come un nome estraneo a me. Così davo agli altri sempre un nome falso. “Non mi hai detto come ti chiami”. “Si lo so… ma che importa dei nomi, sono solo stupide etichettature. Io sono io e tu sei tu. Non ti basta?”. Indicai fuori dal finestrino.”Mi dispiace, devo andare. Sono arrivata”. “Dove?” ”Da una mia amica… amica, si diciamo così. Ma che t’importa?”. “Niente. Non so nulla di te, ma per quanto riesco a capire dalla tua espressione tu non sei arrivata. Non sei arrivata dove davvero volevi arrivare. Non sei felice di andare da questa tua pseudoamica. Giusto?” E mi esaminava, come se dovesse trapelare da qualche parte questa mia “controvoglia”. “Già, ma che farci?” e stavo per alzarmi. “No, aspetta, vieni con me”.

E allora non mi restò che seguire quell’onda. Che scelta avventata! Se ci penso ora. Ma allora non avevo il senno di una donna di quaranta cinque anni. Non pensai nemmeno che potesse essere un poco di buono, di dice così vero? Si, uno dei quelli che violentano le ragazze, quelli che uccidono le ragazze. Non ero nemmeno ingenua. Ma avevo una grande voglia di vivere, che sconfinava nell’irresponsabilità. Una grande voglia di libertà, che avevo colto nei suoi discorsi e nel modo in cui, lui come me, sembrava estraniarsi da questo mondo. Mi prese per mano, appena scesi e incominciò a camminare. La folla mi offriva in qualche modo protezione, quando ne può dare uno scudo di cartone: mille occhi indifferenti, mille mani non pronte ai aiutarti, mille bocche che forse non chiederanno aiuto. E lui che mi stringeva la mano sempre più forte, e ogni tanto si girava a guardarmi, e sorrideva di un sorriso così ingenuo e vero, un sorriso che sapeva di buono.

“Dove stiamo andando” finalmente osai chiederglielo. “Non stavo andando da nessuna parte precisa, a dire il vero. Oggi è il mio giorno libero, e di solito faccio così…” ”A, fermi le ragazze sugli autobus..” “No -rise- vivo la mia giornata senza meta, vedendo cosa la vita mi riserva quando non cerco in tutti i modi di incastrarla in progetti e schemi. Solo un giorno alla settimana. E mi vesto così, come vedi”. “Capisco, e non fornisci il tuo nome, ti crei una nuova identità…” ”No, è proprio questo. Ora sono davvero me stesso… Se mi vedessero i miei colleghi non mi riconoscerebbero, o forse si, ma non mi saluterebbero nemmeno… Ok, ora facciamo a turno. Cosa ti piace fare di più in assoluto?”. Gli risposi a caso, ridere. E riderai, disse lui. Mi portò in un sorta di campetto dove avevano allestito un luna-park. E provammo tutte le attrazioni, che poi erano solamente dieci. Era da molto che non mi divertivo in questo modo: solo io e questo ragazzo, che non conosco nemmeno ma che mi fa stare così bene. Forse perché non lo conosco… e lui non conosce me, e non può pensare né bene né male di me. E’ come se fosse tutto da scoprire…” Ora tocca a me”. E mi portò a mangiare in una pizzeria fatta tutta di legno, gli sgabelli, i tavoli, le pareti, le scale, e una magnifica vista sul mare. Immenso e così semplice allo stesso tempo.

Parole. Non sapevo di avere così tante cose da dire ad un estraneo- “per favore non parlarmi così… anzi, facciamo così, ti dirò il mio nome la prossima volta che usciremo”- e non sapevo che ci si potesse trovare così bene con una persona senza sentirsi in debito per qualcosa ricevuta. Non c’era nessun vincolo né legame, a parte quella mano, che cercava la mia, tra la folla. Ed erano parole mai gridate, che portavano così piene l’essenza di noi, parole sussurrate, parole piene di significato, a cercare anche la più piccola sfumatura, per capire lui… E il bacio che mi diede, furtivo, al parco… fu come non avessi mai baciato. Fu tutto così semplice e nuovo quella giornata, e così strano. Più le cose erano fuori dalla norma, più mi piacevano. Ci sedemmo sotto un grande salice, e incominciò a guardarmi, e mi guardava così intensamente e a lungo che io appoggiai le sue labbra sulle mie… E ne seguì un altro, e un  altro ancora. E fu come averlo amato da sempre, fin da quando lo vidi seduto, immerso nei suoi pensieri. Perché, chi decide quando è amore? Chi non crede ai colpi di fulmine, dovrebbe ricredersi. O almeno dovrebbe ricredersi che possiamo innamorarci oltre le apparenze, oltre le convenzioni, di quello che la persona ci dà, ci dimostra, e non conta il modo, o l’incarto, o come avviene tutto ciò. E mi chiese di uscire di nuovo insieme. E furono solo risate quel giorno, baci teneri, furtivi, che sembravano quasi illeciti di fronte alla folla spettatrice anonima, baci forse rubati a un pomeriggio che sarebbe stato come tanti altri, immerso nella monotonia di una ruota che girando fa sempre lo stesso rumore. Piccoli segreti, gesti di vita quotidiana, parole per raccontarsi davvero. Dimenticai perfino di chiamare la mia amica. Mia madre. La mia esistenza si interruppe, ed era come se ora vivessi una vita che non aveva nulla a che fare con la mia, una vita estranea, ma così comoda, e a duo modo così vera. Così arrivò la sera. ”Devo tornare“. “Ti accompagno fino a casa tua, e poi io tornerò indietro e tornerò alla mia vita. Ma ci rivedremo, domani, e allora sarà come iniziare una vita diversa”. Parlava come un bambino, si accendeva nel rievocare sogni di tempi sconosciuti, progetti che non avrebbe mai messo in atto. ”Vado a prenderti una cosa, torno subito”. “Cosa?” Iniziò a correre verso la pasticceria sull’angolo, ormai prossima alla chiusura. “Una cosa buonissima da mangia…”. Solo un tonfo secco. Come un masso che pesante rotola sul fondo della montagna. Era la realtà che mi richiamava alla realtà. Non potevo continuare a vivere in quel bellissimo sogno, non ancora. Ora che le cose stavano andando sempre peggio. Ora che i miei si erano separati, mia sorella se ne era andata per non vedere più mia madre in quello stato, ora che stavo per cambiare paese, per andare a vivere in uno dove avrei visto solo monti, e poi monti… ora che credevo di essere felice… Un automobilista, al cellulare, si era andato a scontrare contro quel ragazzo, di cui sapevo solo che amava andare a pescare, aveva un fratellino di undici anni, che si alzava presto solo per vedere l’alba, di cui non conoscevo il nome, ma che già amavo… Così importante quella chiamata, da spezzare quella vita, e la mia… Inizia a urlare contro quell’uomo che per la sua sconsideratezza aveva rovinato tutto… Mi chiamò: “Ehi, piccola, vieni qui”… Stava arrivando l’ambulanza “Chiama la tua amica e dille che dormirai a casa sua” ”Perché?” “Perché si” “No, io vengo con te, all’ospedale, io verrò ovunque tu andrai” “No, non puoi… Non lo capisci, sto morendo”. NO, non può essere. Tu sei giovane, forte, tu sei divertente, sei solo un ragazzo. “Tienimi la mano, finché non mi portano via e raccontami qualcosa di divertente, perché quando la morte arriva io voglio fregarla, voglio che mi trovi con il sorriso in bocca. E iniziai a raccontargli di quando, a scuola i miei compagni mi avevano nascosto la merenda, ma non riuscivo a ridere, e le lacrime rendevano tutto appannato, perfino il suo volto così calmo… ”Continua”… E continuai finché le lacrime divennero sempre più abbondanti, tanto da coprire tutta quella miseria, quel dolore così acuto, mentre la sua mano perdeva sempre più forza e le parole uscivano a fatica. Per questo dicono che il modo migliore per amare una persona è pensare che potresti perderla… Finché ancora avevo abbastanza voce da fregare la vita, il dolore, la sorte, il destino avverso “Ti amo.” Sorrise, mi strinse forte la mano e mi accarezzò la testa… ”Anche io, piccola… fin dal primo istante in cui ti ho visto salire sull’autobus”…

 

6 commenti su “Paradiso e Inferno”
  1. Bella, triste, amara e sfortunata. Mi é piaciuta anche la malinconia che mi é rimasta dopo.
    Ciao. sandra

  2. Bello e commovente..le storie tristi sono sempre le piú belle.

  3. certe cose lasciano il segno… questa è una di esse… Senza parole..

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