Veronica dice che ogni città è un suono. Il suono di Roma è quello dell’acqua. Perché ad ogni passo incontriamo una fontana. E tutte le fontane della città danno acqua. Raro è incontrarne una secca. I chioschi dei fiorai restano aperti tutta la notte accanto alle fontanelle, con i grossi secchi di plastica blu a strabordare. Per tutta la notte.
     Lei è arrivata con il suo accento da spagnola di Madrid e dintorni pochi mesi fa. Ho l’impressione che sia già trascorso un secolo dal giorno in cui ci siamo conosciute. Forse ci conosciamo da sempre. A volte, confonde le lingue parlando quello che noi ironicamente definiamo l’itagnolo, una lingua ibrida che sarà quella parlata dalla popolazione del nostro paese ideale: l’Itagna. Il confine tra i rispettivi idiomi sarà annullato dall’affinità elettiva che ci lega. Coniamo termini che nell’Itagna dei balocchi serviranno a descrivere ogni cosa. Mi pongo nervosa, ho ambre, hasta dopo, tengo un diavolo per pelo e via dicendo. Il quartier generale, nonché sede del governo centrale, sarà l’appartamento che condividiamo in viale Marconi. Non sarà facile ottenere un passaporto itagnolo. Occorrerà dimostrare di avere pari affezione per le due lingue e per entrambi i paesi che, fondendosi, daranno origine alla nuova nazione. L’Itagna non sarà un’entità fisica, ma un luogo dell’incontro. In ogni posto potremo piantare una bandiera itagnola. La costituzione è in via di sviluppo.
     Il luglio romano è già troppo caldo. La pelle di vinavil e il tentativo di non soccombere alla calura ci assorbono quasi completamente. Il cane sbuffa sotto al tavolo di cucina. Le macchie bianche e nere del manto peloso si alzano e abbassano veloci: un mantice canino. Il respiro affannoso e la lingua lunga e viscida fuori del piccolo muso di levriero meticcio. Ciondoliamo, noi tre, da una camera all’altra del piccolo appartamento, cercando inutilmente un angolo di refrigerio. Siamo in sintonia sull’uso del condizionatore. Ci dà il mal di testa. Lo evitiamo fin quando è possibile. A volte andiamo oltre il possibile e giungiamo ad una quasi totale liquefazione prima di arrenderci all’ausilio delle moderne tecnologie. Oggi no, non capitoleremo. Potremmo, piuttosto, andare a fare un giro, magari mettere la testa sotto l’acqua delle fontane romane, mangiare gelato e immergerci nella Fontana di Trevi rischiando l’arresto o che so io delle pene previste per bagno non autorizzato in fontana pubblica. La Ekberg l’hanno presa o se l’è cavata a buon mercato? Non ricordo. Incontreremo il Marcello dei nostri sogni e proseguiremo alla scoperta di fontane inviolate.
     Mi accorgo che sto sproloquiando, distesa sul pavimento di camera di Veronica. Il finto levriero imita la mia postura poco lontano da me. Veronica mi ascolta distrattamente seduta alla postazione computer-studio, perfettamente ordinata e simmetrica. Non mi ascolti? Dico. Non si può più soffocare qua dentro. Andiamo. Usciamo. Tu farai nuove scoperte sulla caput mundi e io prenderò appunti per il mio prossimo racconto. Parleremo della costituzione itagnola. Mangeremo gelato e ci immergeremo nelle fontane e conosceremo gente… insomma, suderemo per un motivo migliore. Dai, usciamo, porfa (diminutivo di por favor). Troppo caldo? Ma no, è più caldo dentro che fuori. Usciamo, usciamo, usciamo… Martellamento psicologico. Si arrende. Turno doccia e capelli bagnati si esce. Has visto la hora? Sono le quattro del pomeriggio, lo so. Il telegiornale raccomanda di non uscire da casa nelle ore più calde. Il cane arranca con la lingua penzoloni, maledicendo, credo, il giorno del nostro primo incontro. Una desolazione da deserto dei tartari ci avvolge. Camminiamo in direzione Stazione di Trastevere senza emettere suono. Ci accompagna il respiro affannoso del malcapitato canino. In pochi minuti la pelle è nuovamente vinavil e i capelli sono asciutti. Arriviamo al bar d’angolo e prendiamo acqua, biglietti e caramelle. Caramelle latte e miele. Acqua liscia. All’uscita un paio di ragazzi ubriachi ci apostrofano in modo irripetibile. Conseguente ringhio assassino. Una zingara ci domanda di leggerci la mano. No, grazie. Porto tanta fortuna tu amore grande trovare. No, grazie, per carità. Altro ringhio assassino e, finalmente ci dirigiamo alla fermata del tram N°8 in circonvallazione Gianicolense. Il calore è insopportabile. La fermata stranamente deserta.
     Sono trascorsi pochi minuti e il tram si è fermato di fronte a noi, aprendo le porte. Nessuno scende. Saliamo e ci accorgiamo che nessuno è neanche salito. Tram N°8 deserto. Possiamo scegliere il posto che preferiamo. Niente aria condizionata. Finestrini chiusi. Percorriamo tutta la vettura e ci fermiamo in fondo su tre sedili allineati l’uno accanto all’altro. Non stiamo ancora parlando. Prendo il taccuino che mi segue ovunque e il mozzicone di matita che uso fino al momento in cui sarà impossibile tenerlo stretto tra l’indice e il pollice della mano destra. Veronica scova la macchina fotografica (che lei chiama camara) in fondo alla sua inseparabile borsa di tessuto con impresso il viso di Chaplin. Lei scatta foto in digitale. Io scrivo. Il cane ansima, sdraiato ai miei piedi. Le fermate si susseguono. Nessuno sale e noi non scendiamo. Incrociamo Via Pascarella; oltrepassiamo Piazza Ippolito Nievo, fronteggiamo il Ministero della Pubblica Istruzione, oltrepassiamo Piazza Mastai, Piazza Sidney Sonnino, Ponte Garibaldi… il fiume scorre lento e grigio, uccelli nell’aria, resti di bancarelle e festa lungo gli argini, ombrelloni a strisce colorate, nessuno cammina per la città; imbocchiamo via Arenula. Fermata, porta che scorre in apertura, il cane dà uno strattone e corre via, inspiegabilmente, portandosi dietro pettorina e guinzaglio. Con uno scatto riusciamo a fermare la porta che sta scorrendo in chiusura e corriamo dietro alla bestia impazzita. Cosa gli sarà passato per quella minuscola testolina da finto levriero, mi domando mentre il cuore impazzisce per la corsa a temperatura rovente e Veronica ansima in prossimità del mio orecchio. Ci infiliamo da via dei Giubbonari verso Campo dei Fiori scivolando nell’aria pesante. Nessuna traccia del canino. E’ scomparso quasi subito alla nostra vista. Ci fermiamo incapaci ormai di respirare. Ci accasciamo entrambe sulle pietre arroventate del selciato. Mi accorgo che se non dovessi ritrovarlo potrei morirne. Veronica mi guarda sconsolata. Que hacemos? No se che faremo. Dobbiamo correre. E’ tutto quello che mi viene in mente. Non riesco a sollevarmi. Sono incollata al suolo. Abbaia, ti prego, seguirò il suono e ci ritroveremo. Ti porterò in braccio, nonostante i tuoi venticinque chili. Lascerò pendere le tue lunghe zampe magre dalla mia stretta e correrò verso casa. Abbaia solo un attimo e io ci sarò. Veronica è confusa. Ripete frasi sconnesse nel nostro itagnolo. Riprovo a sollevarmi. Respiro a fatica. Il calore dell’aria mi opprime i polmoni. Non posso continuare ripete la mia amica itagnola. Devi, dico io. La sollevo di peso e la costringo a camminare. Dividiamoci, propongo. Accetta a malincuore. Non conosce abbastanza bene la città. Ha paura che ci perderemo per sempre. Sorrido e le passo una mappa formato turistico. Le ricordo il mio numero di telefono cellulare e la lascio a fissare la piccola mappa. Se ne farà una ragione. Dopo qualche passo mi giro ed è ancora là, nella medesima posizione. Va, le urlo. Trovala. Segui la direzione opposta alla mia e vedrai che andrà tutto bene. Va, Veronica. Aiutami.
     Finalmente ha abbandonato la postazione e i suoi passi risuonano in lontananza. Seguo una scia di profumo finché non sento più niente attorno a me se non il rumore delle mie scarpe, che percorrono ancora via dei Giubbonari, oltrepassano via dei Balestrari ed entrano in Campo dei Fiori. Deserto. Nessuna traccia del mio cane. Nessuna traccia di vita. Ma le vinerie e i bar e i ristoranti della piazza sono aperti. I tavoli apparecchiati. Le tovagliette gialle o a quadretti bianchi e rossi ordinatamente sovrapposte ai tavolini di legno o metallo. Nessuna traccia di clienti, né di personale addetto all’accoglienza. Resti di frutta e verdura sul terreno. Come quando qui c’era ancora il mercato. Non c’è più?
     Inciampando nei pezzi di melanzana andata a male mi dirigo verso la vineria ad angolo. Entro. Le panche di legno profumano di uva pestata. Cerco qualcuno. Chiederò informazioni. Perché la città è deserta? L’aria calda ha ricacciato tutti nei locali climatizzati? Nessuno al bancone. Nessuno sulle panche a sorseggiare qualcosa. Nessun cameriere o cameriera a chiedere cosa desidero. Potrebbero verificarsi episodi di sciacallaggio, penso. E’ assurdo. Voglio solo ritrovare il mio cane. Entro nel locale sul retro, quello adibito ad uso esclusivo del personale. Nessuno. Incredibile. Che si sia diffuso un virus sconosciuto al quale noi tre siamo magicamente immuni? Ancora più assurdo. Siamo vittime di una guerra chimica? Impossibile. Un odore forte di zenzero, curry e cannella mi investe mentre sto uscendo dal locale. Lo seguo.
     Ho ispezionato tutti gli esercizi della piazza, seguendo l’odore pungente di spezie. Niente. Tutto in ordine. Locali pronti per accogliere la clientela delle sere d’estate. Pronti per trasformarsi nel caos vociante di bicchieri di vino rosso, calici di birra e bottiglie sotto braccio ai turisti americani, tedeschi, agli studenti di lettere, agli artisti di strada. Cerone pronto per essere spalmato sul viso di un mimo mediocre e sciogliersi in gocce bianco latte. Nessuno. Solo quell’odore persistente. Cado per la seconda volta, attonita, sotto la statua di Giordano Bruno. Penso a quanti appuntamenti ha visto quell’uomo di pietra. Comitive o coppie pronte a inaugurare roventi serate a suon di aperitivi e musica. Ci vediamo sotto la statua di Giordano Bruno, beviamo qualcosa e poi si vedrà. Magiche serate della mia nuova vita. La vita romana di una che viene da molto lontano. Qui mi sentivo a casa. Fin dal primo giorno. E adesso che accade? Mi hanno portato via gli attori, lasciando una scenografia inutile senza compagnia. Perché?
     Rispondo al cellulare. Veronica si è persa. Piange. Mi racconta di una città deserta, come morta. La consolo. Le ordino di calmarsi e di consultare la mappa. Ritroverà la strada. Non sente ragioni. Io rimango qui, mi dice. Ti aspetto. Qui? Dove sei? Non posso venire. Devo trovare il mio cane. Abbaia, amore mio. Ti prego abbaia ed io verrò a salvarti da questo deserto. Veronica non sente ragioni. Yo me quedo aquì. Bien. Ci risentiamo. Rimani pure dove sei. Farò da sola. Assurdo. Mi ritrovo a consolare lei per aver perso il mio cane in una città da day after. Impossibile. Mi pizzico il braccio. Un segno rosso appare sulla pelle abbronzata, ma non mi sveglio. Non è un brutto sogno. Chedate pure dove ti pare Veronica, che io continuo a cercare. Comprimo la rabbia e sudo e provo ad alzarmi. Con fatica mi incammino verso Corso Vittorio Emanuele III. Lì sicuramente appariranno gli umani. Macchè. La città di Roma, capitale d’Italia, o, forse, il mondo intero sono stati oggetto di una inspiegabile epidemia che ha sterminato la popolazione. Uniche superstiti due giovani donne di origine itagnola. Nessuno dovrà domandarsi dove si troverà mai l’Itagna. Ci siamo solo noi. E se fossero tutti morti dove sono finiti i cadaveri? Non c’è puzza di morte. Solo quell’odore persistente di spezie che non riesco a capire da dove provenga. Oramai l’aria è invasa dal curry, dallo zenzero, dalla cannella. Di fronte alla chiesa di Sant’Andrea della Valle ricordo una notte bianca di poco tempo fa. Era piovuto d’improvviso su un gruppo di acrobati che si esibivano, ma erano talmente bravi che abbiamo deciso di sfidare le intemperie e dar loro l’occasione di deliziarci rischiando di scivolare sul pavimento zuppo del piccolo palco allestito per loro. Hanno proseguito finché la cosa non è divenuta impossibile. La pioggia aumentava e i rischi erano troppi. Accompagnati da applausi bagnati e ombrelli colorati hanno ringraziato e sono spariti come per magia. Fino alle otto del mattino abbiamo girato per la città ascoltando musica jazz e sfidando l’acqua. Una notte memorabile. Con l’odore della pioggia d’estate che si mescolava alle improvvisazioni dei musicisti e alla fragranza dei cornetti appena sfornati, delle bombe delle sei che non fanno male.
     Sto piangendo raggomitolata sugli scalini della chiesa. Non tornerà più il mio cane strano, non ci saranno le sere sudate sul ciglio del Tevere e le piccole orchestre, gli amici piombati qui da tutto il mondo, il brusio del traffico il lunedì mattina, il maxischermo nelle ville e nei giardini, la sigaretta tra le labbra del vicino durante la proiezione. Prenderemo il sole Veronica ed io, solo noi, sul piccolo lembo di prato che fronteggia l’isola tiberina. Forse neanche Veronica esisterà più tra un po’. Probabilmente è già scomparsa nel nulla come tutti gli altri, come il cane. Rimarrò sola. Niente avrà più sapore. Mi lascerò morire? Morire in una capitale deserta, in un luglio rovente. Non sarebbe un fatto strano. Ma a Roma d’estate no, non si può morire da soli. La gente ti avvolge. I suoni ti accompagnano. La grattachecca con lo sciroppo e la frutta ti rinfresca. Non posso morire da sola durante un luglio romano. Mi ribello. Mentre gli abiti hanno formato una pellicola sottile e vischiosa che mi avvolge fastidiosamente il corpo, mi alzo di scatto. Grido con tutto il fiato che mi è rimasto in gola. Cane, gente, c’è nessuno? Dove siete? C’è nessunooooooooo? Silenzio.
     Alle 23.45 me la ritrovo di fronte. Sporca, sudata, disperata. Non ci diciamo niente. Rimaniamo sedute sul bordo della fontana in Piazza Navona con il rumore della città, quello d’acqua che scorre, a fare da sottofondo alla nostra solitudine. L’odore persistente di spezie non ci abbandona. Forse Dio è un cuoco e ha deciso di fare un gran piatto di tutta l’umanità. Poco male. Abbiamo percorso chilometri di città. Lungotevere e strade lastricate di pietra. Niente. Non cani, non umani. Fisso la chiesa di fronte. Una statua si copre il volto in segno di protesta e di orrore. L’acqua continua a scorrere. Veronica è assente oramai da troppo tempo. Devo richiamarla alla vita. Dobbiamo cercare ancora. Trovare Cane, la gente, tutte le ragioni di vivere che ci hanno portate qua a boccheggiare nel caldo di questa magia di città d’acqua e vestigia e smog e spettacoli e gente piombata da ogni angolo del mondo. Non possiamo arrenderci.
     A mezzanotte un rintocco di campane, poi due, poi altri fino ad arrivare a dodici rintocchi. Non dalla chiesa di fronte. Non so da dove. Poi un attimo di silenzio assoluto. Qualcuno mi tocca lievemente una spalla. L’odore di spezie di un’ipotetica cucina divina si è dissolto. Mi volto in direzione di Veronica, istintivamente, anche se il tocco non viene da lì. La mano si è poggiata sulla spalla opposta. La mia amica itagnola, infatti, è ancora puntata verso la chiesa, immobile, assente. Ruoto la testa dal lato opposto e una voce calda mi domanda: qualcosa che non va, ragazze? Ho perso il mio cane, la gente si è dissolta, Dio è un cuoco cattivo, non avrò mai più grattachecca fragola e cocco, il gelataio è morto… L’uomo m’interrompe con un: dovreste seguirmi. Finalmente metto a fuoco la sua figura. Indossa una divisa blu con qualche mostrina dorata o simile appuntata alla spallina. Un collega lo accompagna. Di fronte alla chiesa una macchina blu con la dicitura carabinieri impressa sulla fiancata. Documenti, per favore. Qualunque cosa abbiate fatto non è il caso che due ragazze vadano in giro di notte da sole a fare chissacchè, magari drogarsi e perché? Ma che dice? Io volevo solo fare una passeggiata. Prendere un gelato. Magari fare un bagno nella Fontana di Trevi. Lo so che è proibito. Era solo uno scherzo. Un modo di divertirci tra noi itagnole. Non siamo pericolose. Un sassofono suona. Un anziano signore ritrae una donna giapponese obbedientemente seduta sullo sgabellino di legno e stoffa. Un clown cavalca un monociclo. Il vociare della gente seduta ai tavoli della piazza mi raggiunge come la musica più bella che a orecchio umano non sia mai stato dato di ascoltare. Ci sono coppie con le facce immerse in enormi coni gelato, bambini che passeggiano fuori orario, turisti a scattare foto e ridere. La chiesa è illuminata e ci osserva serena. Ci guardiamo, Veronica ed io. Con uno scatto felino stiamo già correndo giù per Via della Cuccagna, Piazza San Pantaleo fino a Corso Vittorio Emanuele III. Ci perdiamo tra la gente. Tanta, troppa meravigliosa gente. Abbastanza da confonderci e sparire, ingoiate dal calore di quest’estate romana.
     Stremate, ci siamo lasciate cadere di fronte alla gran libreria di L.go Argentina. Come barbone che cercano riparo per la notte. Le dita magre del mio piede spuntano dai vecchi sandali di cuoio marrone. Una lunga lingua viscida le lecca. Sale alla caviglia. Arriva al ginocchio. Avido del contatto perso da qualche ora il mio finto levriero è tornato. Andiamo a casa ha detto Veronica. Volver in Itagna.
     Tre strane figure camminavano lente in un’alba di un luglio romano. Due giovani donne e una cane dalle zampe troppo lunghe e magre. Prima di rientrare hanno comprato cornetti e bombe con la crema. Anche il cane ne ha mangiata una nonostante la sua dieta lo proibisse categoricamente.

 

2 pensiero su “Un’estate itagnola”
  1. be, mi hai levato tante idee della mia penna..
    devo dire che ho scelto di leggere questo racconto per l’affinità con la spagna, che anke io vivo, quest’anno in modo particolare, ma ormai da quasi 6 anni hambre, joder, que pasa y muchas otras palavras para mi sono il pane quotidiano. Por eso muchas gracias y mucha suerte…
    roberto

  2. Mi sa che l’Itagna è molto piu grande di quanto si pensi 😉

    Sono estremamente incuriosito dalla “grattachecca” 😀

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