Nel periodo che per la prima volta vidi Amarcord, grande film di Federico Fellini, Natalino era in galera.
Non potei fare a meno di pensare a lui, durante la proiezione. Troppe le analogie con certi personaggi caratteristici del film anche se, nel suo genere, lui è stato e sarà unico.
Buonissimo, ma tutti lo temevano perché ladro.
Non era per i suoi furtarelli che era temuto ma per il semplice motivo che passava metà della sua vita inseguito dai Carabinieri e questo costituiva, già di per sé, motivo di emarginazione.
Perfino il quartiere dove abitava era chiamato, in suo onore, Borgo Ladro. E lo è tutt’ora.
Quando usciva di prigione il pover’uomo girava per il paese malvestito e malfermo sulle gambe, affamato come sempre e cagionevole di salute.
Occhiaie, pallore del viso, capelli spettinati, dentatura traballante e con il viso sempre tumefatto.
Un occhio oggi, un labbro domani e così via. Forse gli avevano rotto anche il naso che, da filiforme qual era, un bel giorno risultò appiattito e sghembo.
Piccolo, vestito in maniera occasionale che lo faceva somigliare ad un clown, sempre senza un quattrino, Natalino era considerato, a torto, il delinquente per antonomasia di tutta la Valverde.

Ero un ragazzo di dieci anni quando lo incontrai per la prima volta, ed il suo sguardo mi rimase negli occhi.
Credo sia morto da almeno vent’anni, eppure quei suoi occhi grandi che guardavano intorno a sé quasi vedesse il mondo per la prima volta, non posso dimenticarli.
Fate conto di vedere uno che ogni mattina si sorprende della vita e la guarda ammirato e un po’ spaventato. La testa di un bambino nel corpo di un vecchio.
Io, fortunato ragazzo di una famiglia agiata, sempre ben vestito e viziato da mille cose superflue, quando lo incontravo era come se mi specchiassi nell’ingiustizia della ricchezza della mia famiglia e provavo per lui una solidarietà che non potevo esprimergli, vuoi per la grande differenza d’età vuoi per la difficoltà di comunicare, con un emarginato come lui.
Pochi lo avvicinavano e lui era molto schivo e taciturno. Triste, sotto un certo aspetto, anche se aveva sempre un sorrisetto sulle labbra che dava però l’impressione di essere vagamente forzato, sarcastico, se così si può dire.
Certe volte indossava una giacca cortissima ed un paio di pantaloni grandi e lunghi che aveva rimediato chissà dove.
Per poter rubare una bicicletta o un motorino che gli arrivavano a tiro, per sfuggire ai Carabinieri che lo inseguivano era costretto a stringere i calzoni con una corda in vita e con lacci elastici alle caviglie.
Doveva evitare che i calzoni troppo larghi gli entrassero nella catena, mentre pedalava, ed allora aveva inventato quell’espediente.
A chi lo prendeva in giro rispondeva con un sorriso disarmante e scanzonato. In quei momenti, non fosse stato per i denti mancanti, poteva dirsi anche un bell’uomo.
I capelli arruffati ma di un bel castano chiaro, ricci e forti, gli davano anche a cinquant’anni l’aspetto dell’eterno ragazzino.
A me facevano paura, i suoi occhi. Ma non una paura fisica, non il timore di riceverne del male; piuttosto la consapevolezza che in quei grigi occhi tristi si poteva leggere una vita di stenti e di sofferenze. In poche parole, la galera. Ed io temevo di leggerla, quella sua povera vita, perché accusavo il timore di essere preso da un senso di colpa, essendo più fortunato.

Un giorno di una fredda primavera, nel primo pomeriggio, ebbi modo di dimostrargli quanto fossi dispiaciuto per la sua condizione e allo stesso tempo tentai di evidenziare la mia solidarietà umana, con un piccolo gesto. Un’azione istintiva, come solo un eroe alla rovescia poteva pensare di mettere in atto.
L’episodio si verificò davanti a casa. Io avevo poco più di dodici anni.
Quel giorno lo fermarono in centro al paese due carabinieri che io, a quell’età, vidi, o immaginai, giganteschi.
Natalino, pur vecchiotto e malandato, si ribellò all’arresto buttandosi per terra. Allora, visto che il soggetto era piccolo e minuto, forse più di me che ero un ragazzino, lo sollevarono di peso dopo averlo ammanettato.
Lo tenevano per le ascelle mentre lui muoveva istericamente le gambe, scalciando come un bambino capriccioso e intonando un lamentoso grido. Dava proprio l’impressione di essere disperato mentre lo conducevano alla camionetta parcheggiata lì vicino, nella piazza del comune.
Quando il terzetto passò sotto la tenda della panetteria Arici, di fronte a casa mia, Natalino si aggrappò con un balzo all’asta di ferro che sorreggeva la tenda del negozio.
Fu un gesto anche atletico, che letteralmente mi scioccò. Come la reazione di un animale ferito e catturato, il canto del cigno, l’ultima spiaggia del condannato.
La paura della prigione la potevi cogliere in ogni muscolo del suo corpo che si ribellava all’ennesimo arresto.
Poiché i carabinieri lo strattonavano e lui stava perdendo la presa, allora si attaccò ai bordi delle stessa tenda con la bocca, serrandola stretta fra i denti.
Le mani unite dalle manette e chiuse a tenaglia sulla sbarra e i denti che stringevano la stoffa come se fosse un grosso panino. Il tutto eseguito con una smorfia di dolore e di rabbia, mista al pianto.
Al primo deciso strattone dei Carabinieri il povero ladro di polli, che aveva una certa età ed i denti mal messi, perse un incisivo mentre l’altro rimase traballante fra le gengive sanguinanti.
La mobilità di quel dente dava il senso della precarietà della vita del pover’uomo.
Ciò nonostante resisteva con disperazione e con la bocca serrata stava strappando dei lembi di tessuto, rischiando di perdere anche altri denti.
Istintivamente attraversai di corsa la strada gridando verso i gendarmi e con l’intento di fermarli, per dare modo a Natalino di staccarsi, senza altri traumi, da quella posizione pericolosa nella quale si era venuto a trovare, spinto dalla paura e dalla disperazione.
Si capiva dai suoi occhi stanchi e scavati che la prigione lo aveva già fatto soffrire parecchio.
Ricordo ancora il suo sguardo che mi fissava con triste angoscia mentre tiravo testardamente la divisa di quei tutori dell’ordine che lo stavano arrestando. Colsi una specie di ringraziamento, o forse un’amara implorazione, in quegli occhi.
Lo obbligarono a staccarsi con pugni in testa e schiaffi pesanti sulla faccia che era ormai una specie di maschera mentre io, convinto delle mie ragioni umane, trattenevo per i calzoni quello più grosso, che lo tirava con maggior forza.
Di tutta quella vicenda ricordo la spinta che gli diedero per buttarlo dentro il cellulare ed il suo pianto, una specie di lamento, un singhiozzo di paura mista a disperazione. Il ceffone violento che presi io non ebbe conseguenza alcuna su di me, né fisica né morale. La piccola folla che si era radunata mi guardava in maniera compassionevole, stupita anche, forse pensando a quel che avevo fatto.

Da quel giorno non lo vidi più, per almeno dieci anni. Poi, un bel giorno, mentre tornavo dall’università e scendevo dalla corriera, me lo trovai davanti.
Credevo non mi riconoscesse, cresciuto com’ero. Invece accadde una cosa strana, che ancor oggi non so spiegarmi.
Mi sorrise amaramente e, mentre si allontanava camminando indietro in maniera incerta, alzò le mani e cominciò ad applaudire, dapprima piano e poi sempre più forte.
Nessuno capì, anzi qualcuno inveì contro di lui, come per difendermi. Sembrava una presa in giro, la sua.
Io invece mi commossi e lo salutai con un furtivo ma deciso gesto della mano, come a sancire una specie di complicità che fra di noi si era creata.
E lui, dopo aver smesso di battere le mani, disse ad alta voce, per farsi sentire da tutti:
– Ciao, eroe..; poi mi salutò con lo stesso mio gesto e con quel sorriso bello ma triste e malinconico, come era stata tutta la sua vita.

7 pensiero su “Un eroe piccolo piccolo”
  1. …ladri di polli…

    Un bel racconto di vita. Un bel “carpire” con gli occhi e l’anima, un pezzo di vita. Quello scorcio che molti non hanno saputo vedere, “oltre” la via, il giorno, il tempo.
    Me ne compiaccio. Bravo.
    Sandra

  2. Jack sei molto bravo, nel descrivere questo racconto realistico.
    Mi sono quasi immedesimato che mi sono venute le lacrime agli occhi.
    Si c’è gente così sfortunata che non può ricevere nemmeno un aiuto come lo hai ben descritto. Certo che sei stato un eroe affrontando i Gendarmi. Tuttavia ti ricordo che sei stato pure molto bravo a vincermi una partita a scacchi, quel tuo cavallo mi ha messo veramente in difficoltà.
    Io gioco “soloa5minuti” oppure “giocoa5minuti”
    Dammi la rivincita.
    Un saluto carissimo da Stefano

  3. Un grazie grande a Sandra e Stefano perchè oltre ad avere apprezzato il mio racconto per come è scritto (quello è un fatto tecnico che a me importa poco) hanno centrato in pieno il significato di questo spaccato di vita che ormai ha cinquant’anni di storia alle spalle. E pensare che mi è tornato alla mente solo in seguito ad un concorso il cui tema era: Un eroe per un giorno… di colpo mi è affiorata alla mente tutta la storia.
    Credo vi faccia piacere sapere che quel concorso l’ho vinto. Grazie ancora per i vostri commenti… fanno venir voglia di scrivere.
    P.S. per Stefano… fammi capire quella partita di scacchi… credo di averla dimenticata. ciaociao

  4. Bel racconto commovente, uno spaccato di vita di povera gente, che spesso perchè diversa ci fa paura, forse come il protagonista della storia abbiamo dei sensi di colpa, forse di non essere capaci a dare una mano al bisognoso.
    Ci vorrebbero molti più “piccoli eroi” GRAZIE!!!
    Molto bravo, un caro saluto a 5 stelle
    EMA

  5. Caro jack la partita a scacchi è avvenuta circa una quindicina di giorni fa su scacchisti.it sono stato invitato a giocare da un nik “COLOJACK” almeno credo che sei tu. Detto questo mi piace ritornare sul tuo racconto, pensando che Natalino sia uno di quei ragazzi che nel dopo guerra si siano mantenuti da soli perche orfani di guerra. Fino agli anni sessanta ne esistevano molti e molti sono finiti nelle apposite case di rieducazione per minorenni, uscendone in età maggiorenni più emarginati di prima.
    Un caro saluto da Stefano

  6. Un racconto avvincente, ricco di sentimento e con una morale che inneggia alla pietà e alla compassione. Questi due atteggiamenti sono ormai spesso trascurati e relegati in una piega dell’anima, persi alla vita di tutti i giorni, come fuori moda.
    Questo pensavo quando l’eroe negativo della scorsa settimana in fuga, veniva rinchiuso nelle patrie galere dopo che telecamere e reporter immortalavano il ritorno del fuggiasco senza pietà alcuna.
    C’è un pudore dei sentimenti che ormai si è perso e questo racconto, letto solo oggi e me ne scuso, mi ha riportato alla mente le opere di carità cristiana di cui non si sente più parlare: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, curare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti.
    É così tanto tempo che non me le ripeto che credo di aver dimenticato qualcosa.
    Ormai siamo portati ad alleggerirci la coscienza inviando un sms…
    Grazie , Jack , perchè hai restituito, non so se scientemente, un po’ di senso anche al mio scrivere.
    anna

  7. Un grazie ad Ema, stefano e Anna… è un racconto autobiografico di quasi cinquant’anni fa… o meglio scritto recentemente per partecipare ad un concorso ma la storia è di quando ero bambino… anni sessanta.
    Che dire… questa è un’edizione ridotta per i limiti del concorso (6000 battute) ma in origine il mio sentirmi in colpa per appartenere ad una famiglia agiata era ancor più evidente.
    Anna, credo tu abbia ragione sul discorso della pietà… la provai anche con un altro episodio, il “prelievo” forzato di un così detto matto che abitava vicino a casa mia per essere portato in manicomio. Mi è tornato alla mente ora… devo mettermi a scrivere un brano su quell’episodio. ciaociao a tutti.

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