Novantadue anni lei, sessantaquattro io.
Ce ne andiamo, in questa gelida domenica di fine febbraio, a votare nella scuola di fronte a casa dove io ho frequentato le elementari.
Un rito civico a cui siamo abituate e a cui negli anni non abbiamo mai mancato.
Nevica e la mia apprensione è grande, non si puó parcheggiare nei pressi dell’edificio scolastico e così siamo costrette a percorere a piedi il breve tratto tra casa e scuola, non più di trecento metri, ma girando al largo per attraversare al semaforo, tutto uno slalom tra pozzanghere e passanti .
Avanza spedita, per quanto puó, appoggiandosi con la destra al bastone che le è necessario da quando è caduta e si è fratturata un femore, ma si è ripresa mirabilmente; con la sinistra regge l’ombrello.
Cammina davanti a me e me ne rendo conto per la prima volta di quanto ormai è avanti negli anni, pur se curata nell’aspetto, col suo bel cappellino in capo, gli stivali, il caldo piumino che la protegge dal freddo, solo un pochino claudicante, fiera nei suoi anni e conscia che sta celebrando un rituale civico a cui assolutamente non vuole mancare.
Io, dopo tanti anni, l’accompagno, ma non lo avrei fatto se non facesse freddo, non nevicasse, se non avessi paura che in quei trecento metri uno spintone o uno scivolone possano essere per lei un dramma.
L’accompagno, come quando lei per la prima volta nei miei freschi ventuno anni, allora era così, mi accompagnó dopo la Messa a votare per la mia prima volta: una bella sensazione per me, perchè ero finalmente maggiorenne, votavo, ero una cittadina a tutti gli effetti, padrona di esprimere un parere, di tracciare quella famosa croce che rappresentava una presa di posizione civica e mi poneva nel gruppo degli adulti.
So bene cosa votai quella volta, non saprei dire quanto lei mi influenzó, di certo molto, e mi ricordo bene quel giorno di sole, come camminavamo sottobraccio, io ormai appena un poco più alta di lei e noi entrambe emozionatissime.
Ora cammina davanti a me, su questo marciapiede che negli anni è stato ristretto in omaggio a qualche assurda legge europea, tra le macchine parcheggiate sul marciapiede da parenti che accompagnano altri anziani a votare, ricurva sotto il peso degli anni, superstite a moltissimi della sua generazione, testimone di un’epoca che ha costruito questo suo diritto a cui non rinuncia, neanche se deve, alla sua età, camminare sotto la neve.
Si arrampica, appoggiandosi al suo bastone e alla ringhiera a lato della scalinata, sui sei scalini che portano all’interno dell’edificio scolastico in barba a ogni regola sulla sicurezza e sull’abbattimento delle barriere architettoniche di cui sempre e invano si parla; rifiuta il mio braccio, perchè mi dice che così si sente più sicura e avverte la presa più salda. Io le sto dietro timorosa e capisco che anch’io che giovanilmente difendo il mio aspetto dagli anni che ho, sono una donna anziana.
All’interno della scuola, in un atrio a mosaico d’altri tempi e reso scivoloso per l’andirivieni delle centinaia di votanti che si recano al seggio, lei, sicura, va per il corridoio, il suo seggio è quello in fondo, l’ultima classe, in questo momento vuota, dove il presidente e due scrutatori aspettano pazienti.
Mi affida l’ombrello ed entra nell’aula.
Si sfila i guanti, estrae dalla borsetta che da quando usa il bastone porta a tracolla per avere almeno una mano libera, i suoi documenti e gli occhiali, aspetta che le consegnino le tre schede ed entra nella cabina. Presidente e scrutatori guardano me che sono rimasta nel corridoio, appena oltre la porta di ingresso, e tutti insieme attendiamo.
Loro tacciono, io anche, ma gli occhi si incrociano e leggo solo ammirazione.
Poi lei esce dalla cabina, restituisce la matita, infila le schede nelle urne e si toglie gli occhiali.
Si infila nuovamente i guanti, riprende il suo bastone, saluta tutti e ce ne ritorniamo a casa affrontando nuovamente l’atrio scivoloso, la scala ripida e pericolosa, gli slalom tra gli ostacoli sul marciapiede, la strada a piedi, la neve, l’ombrello nella mano sinistra e il bastone nella destra.
L’accompagno a casa, un abbraccio, un ciao e via, perchè anch’io ho un’altra scuola da raggiungere e il mio rito personale del voto da celebrare.
Se non le avessi imposto di aspettarmi e di non muoversi da casa in questa giornata di neve, sarebbe andata a votare da sola.
Perchè?
Perchè mia madre è una di quelle donne Italiane che hanno votato per la prima volta nel referendum del 1946 e poi nelle prime elezioni politiche nazionali del dopoguerra nel 1948.
Prima della Guerra le donne non votavano, dopo la Guerra sì.
La Guerra, un’ecatombe di uomini, donne e bambini, come discriminante per un diritto.
Da allora non ha mai mancato un appuntamento.
Uno degli ppuntamenti con la storia di cui è stata testimone.
Neve o non neve non poteva mancare.
“Potrebbe essere l’ ultima volta, sai… alla mia età… non posso mancare!”
No, penso, non credo che io potrò mai tradire l’esempio che mi ha dato.
Non posso mancare all’appuntamento.
Nonostante il disgusto e la rabbia, nonostante le delusioni, il malaffare, le preoccupazioni anch’io non posso mancare.
Neanch’io rinuncio al mio diritto.
Neanche in un giorno di neve.
(Dedicato a mia madre, nata il giorno 8 marzo 1920)
Bella, mi sento commossa. E tu, penso, sia consapevole di tutta questa grazia di Dio che puoi, con i tuoi occhi e con il tuo cuore osservare e godere, spero ancora per molto tempo.
Anch’io non sono mancata. A Firenze non c’era la neve, pioveva, e sono andata a votare, certo non con lo stesso entusiasmo di una volta, il disgusto aumenta sempre di più, ma in virtù di quelle Donne, che prima della guerra non potevano votare, ci sono andata ed ho votato. I miei ideali sono gli stessi dei miei 21 anni, quando votai per la prima volta, il Mondo che mi circonda non lo riconosco più, ma, ancora so graffiare, per quei tre o quattro valori che mi porto cuciti addosso.
Sandra
Un applausone alla tua mamma, a te e al bel modo con il quale hai descritto, mirabilmente, questo appuntamento elettorale.
Voglio soffermarmi sul tuo stile narrativo, che mi piace molto perché essenziale, minimalista, senza sprechi di aggettivi esagerati o avverbi ridondanti… è uno stile che anch’io sto cercando di costruire eliminando i fronzoli inutili e descrivendo in maniera quasi giornalistica i fatti accennando appena ai sentimenti che il lettore coglie da sé, comunque. ciaociao… e brava.
@ Sandra:
Me ne rendo conto.
Quanto al resto, se non avessi conservato anch’io qualche ideale, infilerei stivaloni a punta e ne prenderei a calci parecchi…
@ Jack:
Grazie, anche a nome della mia mamma.
Grazie anche per l’apprezzamento del modo in cui scrivo.
Non amo i fronzoli.
Il minimalismo espressivo mi piace, anche se una volta uno sciocco mi ha accusato di scrittura sciatta( eppure quest’anno con l’ultimo mio libro di poesie ho vinto un primo premio proprio per questo mio mimimalismo epressivo)
Forse la mia scelta espressiva è più evidente nella poesia in cui scelgo di esprimermi mirando all’essenziale.
Non so, peró, quanto sia scelta e quanto sia abito mentale, carattere, indole personale.
Questo racconto mi ha coinvolto molto, forse per questo mi è venuto il ritmo serrato, un modo di esprimere il mio sdegno e la mia protesta per quello che vedo e che sento e che non so dove ci porti…
Grazie, di tutto.
anna
Ciao Anna, questo tuo racconto mi ha emozionata e toccato il cuore.
Oggi la mia generazione e quelle future dovrebbero prendere esempio dalla tua mamma.
Complimenti e 5 stelle, ma questo racconto ne meriterebbe anche di più.
Un abbraccio a te e naturalmente alla tua mamma.
Anch’io le ho guardate con ammirazione quelle donne donne. Arrivano davanti ai seggi, fanno una fatica immane ad uscire dall’auto che le accompagna, ma una volta disincastrate dall’abitacolo si ergono fiere. Ci tengono ad apparire salde, seppur appoggiate a un bastone. A quel seggio ci DEVONO arrivare da sole. Esprimono così forza e orgoglio per quanto hanno conquistato. È un rito, dici bene. Un rito che celebrano con sacralità. Io ci sono andata di fretta e furia, non ricordo neanche se mi sono guardata allo specchio quel giorno, ed ero anche un po’ disgustata, lo ammetto. Ricordo invece mia nonna. Innanzitutto doveva andare dal parrucchiere, veniva fuori con i capelli in tante piccole onde azzurrine. Indossava il vestito buono, gli orecchini e per l’occasione uno splendido filo di perle con qualche perla che negli anni aveva preso a spellarsi un po’ (la plastica di una volta…). Le scarpe appositamente risuolate. Sforzo quasi visibile per ostentare una schiena dritta e passo finto sciolto.
Un gesto teatrale per infilare le schede nelle urne e poi uno sguardo distribuito a raggiera alla platea, quasi da regina. Veniva da farle l’applauso. Certo a qualcuno un sorrisino sfuggiva sempre, ma il rispetto la sua fierezza faceva diventare compito anche il più sciocco.
Che dire, spero che non resti solo un rito e che quelle donne non si accorgano di quanto le cose sono cambiate.
Un abbraccio alla tua mamma.
La gentilezza degli eventi.
Ecco cosa posso percepire dal tuo scritto.
La classe sociale che è un pò il simbolo del nostro paese, la vera colla che sostiene da sempre il nostro stare insieme.
Grazie.
Voglio essere sincera, che tu sia andata a votare oppure no, non mi interessa. Dal tuo scritto traspare l’ancestrale amore che unisce due donne, la mamma e la figlia. Quante storie di conflitti, Freud ci campava. Brava mi sono commossa, grazie.
Rina