Come spesso accadeva anche stavolta ero alquanto restio a camminare per la strada da solo come se fossi talvolta impacciato, o mal accompagnato da me stesso. Ne approfittai per far fare una passeggiatina al mio cane: Elliott.
Un bel cucciolone meticcio, perlopiù pastore di gregge con mezza faccia bianca e mezza nera ed uno sguardo vispo e furbetto di chi sa il fatto suo. Elliott aveva sui tre anni che probabilmente, biologicamente, corrispondevano alla mia stessa età in campo umano.
Parlandogli, più di una volta, mi aveva dato la netta sensazione di capire esattamente quel che dicevo e quel che volevo da lui, ma sistematicamente, faceva finta di niente e volgeva uno sguardo vago su qualcos’altro. Avevo, qualche volta, quando combinava guai in giardino tipo lacerazione di indumenti stesi al sole, scavi e distruzione di piante e fiori, portare galline da un pollaio vicino ecc, fatto finta di punirlo rinchiudendolo in un angolo stretto del giardino e con tono di voce arrabbiato, serio e autoritario fatto la ramanzina. Subito dopo, dallo sguardo fiero e testardo della sua razza, mi rendevo conto che, come il più caparbio degli uomini, avrebbe sopportato qualsiasi tortura ma mai e poi mai avrebbe ammesso di aver capito di aver sbagliato confermandomi, di conseguenza, di aver capito anche tutte le altre volte.
C’incamminammo, dunque, con passi asincroni che dopo pochi metri diventarono una piacevole passeggiata di crociera a sei arti. Arrivammo quel tardi pomeriggio io ed Elliott nella solita piazza del solito paese e, dopo avergli sganciato il guinzaglio in quel po’ di verde recintato, mi sedetti davanti al solito bar.
Davanti ai soliti bar delle solite piazze, dei soliti paesi vi trovi: i soliti amici. Uno di questi, dopo qualche minuto, si sedette al tavolo con me ed ordinammo una birra per scambiare le solite chiacchiere e fumare le solite sigarette.
Elliott si trovava a non più di sette otto metri da me e tranquillo si guardava intorno squadrandosi la piazza. Di tanto in tanto annusava un insetto o un qualche tipo d’erba che solo loro sanno catalogare.
A metà bicchiere le chiacchiere e le sigarette scorrevano da sole. Oramai eravamo un tutt’uno con i suoni e la coreografia di quella piazza. Due belle ragazze, nostre conoscenti, di lì a breve, occuparono le restanti due sedie del tavolino.
Elliott, ora, si divertiva con scatti fulminei in avanti per poi repentinamente tornare sui suoi passi abbassandosi all’indietro. Come se giocasse con un’ipotetica altra creatura. Io e lui ci cercavamo ad intervalli regolari con lo sguardo e, sicuramente, era più rassicurante il suo verso il mio che viceversa.
Le due ragazze, alquanto sofisticate, dopo aver imprecato per qualche stupida goccia d’acqua caduta sui loro jeans firmati, s’incamminarono in ingarbugliati discorsi di denuncia per la propria condizione lavorativa, del solito paese, delle solite cose e delle solite persone. Come se loro stesse non fossero parte integrante di quella gente e di quel posto.
Elliott si rotolava nell’erba freneticamente, ora da un lato ora dall’altro, come per impregnarsi dell’odore di quell’erba o, chissà, per semplice e puro divertimento. Al tavolo la discussione prendeva sempre più una piega dai toni alquanto accesi e ora uno ora l’altro, spiegava il ragionamento portato sin lì dalle proprie motivazioni. Adesso, parte della piazza iniziava a concentrare l’attenzione verso il nostro tavolo. Con fare deciso, cogliendo un momento di breve pausa, mi alzai e pagai il dovuto all’interno del bar. Con una scusa, salutai.
All’uscita del locale notai Elliott, nell’aiuola, completamente rilassato, immobile con le zampe semi rigide all’aria, in una condizione d’estasi che tutti voi sicuramente conoscete o che potete facilmente osservare nei cani, nei gatti e in chissà quanti altri esseri. Ebbi un attimo di titubanza nel mettergli il guinzaglio, ma poi concretizzai che quei momenti sarebbero tornati chissà quante altre volte intensi e naturali come sempre.
Nel tragitto che ci separava da casa ebbi la strana sensazione che, in almeno un paio di circostanze, Elliott avesse voluto evitare il mio sguardo.
Arrivati in giardino sganciai il guinzaglio e, nel chinarmi per slacciare anche il collare, mi venne naturale abbracciarlo affettuosamente. Restai parecchi secondi con entrambe le braccia al suo collo strofinando il mio capo contro il suo cercando di captare anch’io il profumo di quell’erba o, magari, la naturale felicità di quella splendida bestia.
Come ho già scritto in altri miei lavori, chì ha conosciuto questo tipo di amore, non sa farne più a meno.
Ciao. Sandra
Ti ringrazio tanto sandra, ma Elliot è una storia diversa daii tuoi lavori…
Una pagina semplice e corretta… E’ proprio ora di finirla di chiamare queste creature Lupi Mannari! Non credi? Greta
L’alta poesia non è il ragionamento logico che scorre in una storia, ma, sopratutto, il modo innovativo e profondo con cui l’autore riesce a calarsi nella storia. Se dico: io amo i cani, è una cosa. Se dico: facevo di tutto per apparire più simile a quella splendida bestia è: poesia.
Ciao mala e grazie di leggermi e commentarmi. Ma che ti succede? Non è da te prendere una malattia umana: la licantropìa per un difetto dei nostri amati canidi. Non ti riconosco più. Tu sei la nostra sirio e devi SUBITO tornare a splendere abbagliandoci con la dialettica e la classe con cui ci hai abituati. Sotto Natale sei umana troppo umana e questo non ti si addice. Ti abbraccio Sal…
Per tutti voi: nessuno ha capito la mia lirica: Amore ed intesa, nè i miei aforismi…peccato….