Mi figuravo grandi storie.
Il temporale imperversava violento sopra al pavimento in clinker del balcone, le gocce toccavano terra scagliate con forza e all’impatto schizzavano rompendosi in mille goccioline minuscole che si spargevano intorno, acqua nell’acqua sul pavimento liscio.
……e sulle scale di sasso, sopra ai muri di casa, sopra la recinzione di cemento…. e sulle piante assetate dal sole d’estate che non potevano dissetarsi di quell’acqua feroce, ma soltanto concedere pegno della terra dei propri vasi, pagata come ammenda o forse come preghiera perché cessasse quel finimondo.
Infuriava sopra l’erba dei prati circostanti, sulle foglie degli alberi che battevano come nacchere, faceva tintinnare le ringhiere di ferro dei balconi.
….e sulle ali delle farfalle, incipriate e sottili come carta velina.
Sorprese dalla prima goccia, che pur essendo la prima era comunque sufficiente a far si che fosse tardi. Troppo tardi per salvarsi.
Esposte sotto quel fuoco di fila, sotto quel bombardamento pungente come aghi a milioni.
Tentavano, tremavano, sbattevano le ali.
Quanta fatica per guadagnare un metro di cielo soltanto… senza più ormai il loro velo di cipria, scoperte, umiliate sotto la pioggia. Che scherzo del destino!
Una sola goccia… ed una goccia di troppo. Quella goccia che non lascia alternativa, che non concede dilazioni, che quando arriva è come se fosse arrivata la morte stessa, che beffa!
Una goccia… la morte per quegli esseri fragili.
Provavo una pena infinita…
Cadevano a terra, stordite, esauste, con le ali fradice, appiccicate, non potevano che volteggiare nella loro ultima danza ed abbattersi a terra, senza grazia.
….Che la morte richiede umiltà… e per ottenerla toglie ogni vezzo, sfronda i rami, per non lasciare che l’essenza più pura. E si, per far questo umilia, ci ricorda che non siamo nulla, nulla davvero, nulla in tutto.
Provavo una pena infinita per quelle povere farfalle. E mi nasceva dentro un desiderio violento di riscossa, di contraddizione a quella morte infallibile che vedevo dinnanzi nelle sembianze di quelle ali infradiciate e distrutte, talvolta perdute come arti staccati… vittime di una guerra senza soldati. Era un campo di battaglia! A decine venivano scaraventate al suolo da quelle gocce pesanti, ed io a decine cercavo di raccoglierne, tutte quelle che vedevo.
Le poggiavo sulle mie mani calde e le disponevo in fila sopra ai davanzali di legno delle finestre.
Al riparo.
Immaginavo che fosse il mio piccolo ospedale, io una specie di missionaria.
Dovevo fare in fretta, che un solo minuto poteva risultare fatale! E prepararmi a diverse escursioni a cercare le mie farfalle abbattute e ferite, che non bastava una soltanto, bisognava fare attenzione, vigilare!
Con i miei stivali mi aggiravo per tutto il balcone e su e giù per le scale, come una piccola vedetta infreddolita e umidiccia, ma grata della sua missione e fiera del compito assegnatole. Compito divino.
Dovevo salvarle, dovevo almeno tentare… e se salvarle non fosse stato possibile, concedere loro almeno un ultimo istante di calore e di asciutto, un ultimo giaciglio confortevole e riparato, un nido dove morire quanto più serenamente possibile, un ultimo momento di pace.
Era si, una missione! Che ad ogni temporale, fosse un uragano o una banale acquerugiola, mi trovava pronta. Obbediente a me stessa ed al mio sentire…
E tra un giro di perlustrazione ed il successivo, controllavo le vittime del mio ospedale da campo, mi interessavo delle loro condizioni ed amorevolmente cercavo di lenire le sofferenze che immaginavo potessero patire… che povere creature, mica potevano parlare! Non potevano certo dirmi “Mi fa male qui” piuttosto che “Mi sento quest’ala spezzata” oppure “ho battuto l’antenna e mi gira la testa!”.
Per intuizione, dovevo lavorare! Soltanto per intuizione, o per quella sorta di empatia che il mio grande coinvolgimento emotivo poteva eventualmente garantirmi.
E chissà se facevo tutto e bene, o se spostando quei loro piccoli corpi talvolta non abbia causato ulteriori sofferenze…
Cercavo di essere delicata… era tutto quel che potevo.
La morte vinceva su tutte.
Non una sola si salvava, o se sopravviveva restava storpia ed incapace di volare…
All’improvviso, così come era errivato, il temporale se ne andava e tornava il sereno. Il sole si affacciava con il suo sorriso splendente.
…ed era una moria. Una sconfitta, un fallimento.
Le poche che si trascinavano vigorose nonostante l’impossibilità di levarsi in volo, le posavo su una foglia o su un fiore, augurando loro un destino magnanimo e possibilmente un miracolo.
Che Dio potesse ridare un velo di cipria a quelle ali torturate, che potesse risanare.
Mi allontanavo, volgevo lo sguardo e mi lasciavo avvolgere dalla speranza. Cosa sarebbe stato dei superstiti non lo potevo sapere, ma speravo ogni sorta di cosa buona, ogni genere di grazia e di fortunata convalescenza.
Forse pregavo.
E continuavo ad immaginarmi grandi storie.
A lieto fine.
Ciao, racconto contorto e carico di pathos che giunge distorto al lettore. troppa cipria, prova chilly..voto di incoraggiamento. Rimandata…kisses…
La prosa è sufficientemente incalzante, tale da interessare il lettore. La “missione” è giusta. Stai trovando la tua strada, raccogliendo con la polvere di tutti i giorni la cipria per le tue ali. Ricorda che nel 1967 i Rokes cantavano “E’ la pioggia che va e ritorna il sereno”. Aspetto il seguito; “la stoffa” è di qualità. Ad maiora!
bello, mi è piaciuto… scrittura forte che a tratti sfiora la poesia… ciao
Dott. Romano…grazie!
Mi farò sentire presto, per il momento le mando un affettuoso abbraccio.
Cara Angela, ti ringrazio molto per il commento.
E per la tua anima sensibile….un abbraccio.