Dedicato a Mercedes Sosa e Leon Gieco, voci di un continente che molto ha sofferto.

Parte prima

Emilio era nel dormiveglia e cercava con tutte le sue forze di continuare a dormire. Si rendeva conto che era una magnifica notte, o forse mattina. Il silenzio lo avvolgeva come un dolce lenzuolo. Si rendeva conto anche che il cielo era sereno e una enorme luna adagiata vicino all’orizzonte illuminava parte della camera da letto attraverso la finestra aperta. L’aria era pulita e calda e tutto sembrava fermo come se questa calma avesse dovuto durare all’infinito. Ma lontano si sentiva una musica che sembrava mescolarsi uniformemente, delicatamente, dolcemente con le molecole dell’aria. La strada vicino al Caminito sembrava godere, cullata da questa canzone proveniente da lontano. All’improvviso Emilio si rese conto che quella canzone era “Gracias a la vida”, la voce di Mercedes Sosa era inconfondibile. Nel dormiveglia un pensiero amaro si fece strada nella sua mente. “Non c’è nessuna ragione per ringraziare la vita”. Non per lui. Poi comprese che se il cd fosse stato “Mercedes Sosa en Argentina”, la canzone successiva sarebbe stata QUELLA CANZONE. Ecco perché il subconscio non gli aveva permesso di continuare a dormire. E a nulla sarebbe valso chiudere la finestra, ormai il processo era iniziato. QUELLA CANZONE era la tristezza della sua vita e a nulla erano serviti, nel tempo, tutti i tentativi di dimenticarla. Questa aveva contribuito con forza a renderlo quello che era: una persona priva di slanci, senza interessi, a parte l’aguardiente, che peraltro non consumava esageratamente. La sua vita passata gli apparve tristemente disegnata nel cielo dove, fino a qualche secondo prima sembrava troneggiare quella meravigliosa luna piena. “Alfonsina y el mar” era QUELLA CANZONE. Sua sorella gemella, la cantava spesso e aveva preso una fissazione, fin da piccola, per la triste storia di Alfonsina Storni e di come Alfonsina avesse posto fine alle sue sofferenze nelle acque di Mar del Plata. Emilio, però, non aveva compreso il pericolo che questa fissazione rappresentava. Del resto “Violeta” aveva un carattere troppo forte per far supporre quello che accadeva dentro di lei e quello che sarebbe accaduto in seguito. La storia della famiglia, con la madre che aveva abbandonato marito e figli in tenera età scappando chi sa dove con un amico del padre dal quale amico pare che fosse in attesa di un figlio, aveva contribuito a scrivere i destini di Emilio e Violeta. Il padre era caduto in depressione assumendo un comportamento spaventoso specialmente nei confronti della figlia. Infatti come donna e appartenente alla famiglia era stata ritenuta il simbolo di quanto era successo. Tutto ciò aveva contribuito a creare negli anni un’atmosfera assolutamente irrespirabile. Violeta, dentro di sé, aveva sofferto moltissimo per tutto ciò, il distacco improvviso dalla madre ed il comportamento violento ed ingiusto del padre. Emilio aveva un atteggiamento protettivo nei confronti della sorella a cui voleva un bene infinito, ma distratto dal tentativo di dimenticare non si era reso conto che ella non aveva bisogno di protezione e che il suo carattere insospettabilmente forte la avrebbe portata dove ella aveva in silenzio deciso da tempo di andare. Tutto ciò gli apparve chiaro all’improvviso quando, sfondata la porta del bagno, aveva trovato Violeta immobile immersa nella vasca. Alfonsina aveva scelto l’acqua dell’oceano, Violeta quella della vasca da bagno. E la sensazione che se avesse capito tutto in tempo avrebbe potuto evitare la tragedia, divenne il filo conduttore della sua vita ormai piatta e senza alcun colore. Anche la scomparsa del suo caro amico Luis durante il periodo della dittatura civil-militare aveva contribuito a creare il suo presente stato d’animo, creandogli un altro grave senso di colpa. Perché non lo aveva protetto di più? Perché non aveva lottato per distrarlo dai suoi impegni politici? Forse impegnandosi di più ci sarebbe riuscito! O forse anche Luis aveva un carattere così forte che ogni tentativo sarebbe stato inutile. Comunque l’unica cosa che dava ad Emilio un po’ di sollievo era la conduzione del locale ereditato dal padre dove serviva birra e liquori fino a tarda notte. Purtroppo gli avventori erano sempre gli stessi e conoscevano benissimo le vicende di famiglia. Molti erano addirittura amici o parenti ed Emilio vedeva sempre riflesso nei loro occhi tutto quello che era successo. Sapeva quindi benissimo che, in quelle condizioni, non avrebbe mai potuto dimenticare o comunque nascondere tutto dentro di sé, immerso in una bruma che non sarebbe potuta non essere semi trasparente.

Parte seconda

Il film era finito e i sottotitoli scorrevano velocemente, in maniera che era quasi impossibile leggerli. Ma Emilio non era interessato al loro significato. Era rimasto imbambolato da qualche cosa che lo aveva colpito in questo strano film. “Gran Torino” lo aveva impressionato in qualche cosa, non capiva in cosa. La vicenda era interessante ma niente che potesse turbarlo, troppo lontano dalla sua vita. Eppure sentiva una vaga sensazione di turbamento, niente di violento anzi qualcosa di delicato, di triste, come una nostalgia. Una immagine pian piano si fece strada nella sua mente: la sedia nel patio dove spesso sedeva “Walt Kovalskj” con lo sguardo rivolto verso l’infinito e una bottiglia di birra in mano. Il tempo passato dal protagonista in questo stato di calma mista a tristezza sembrava l’unico scopo della sua vita. Emilio rimase a pensare per molto tempo, questo film sembrava avergli aperto una strada. Basta con la vita in quella enorme città dove purtroppo vivevano troppi amici e troppi parenti che gli impedivano di stendere un lenzuolo sul suo passato. Bello sarebbe vendere il locale e comperarne un altro localizzato in un luogo più tranquillo, per dare da bere a persone sconosciute che non gli tenessero acceso ogni ricordo. Dopo l’ora di chiusura sarebbe bello sedersi, magari all’aperto, con nella mano destra un bicchiere e nella sinistra una bottiglia di aguardiente e rilassarsi, senza pensare e con gli occhi rivolti verso l’infinito.

Parte terza

Emilio non riusciva a distogliere lo sguardo dall’Aconquija, guardava quella meravigliosa montagna ma in realtà non riusciva a vederla, distratto come era da un pensiero. Jorge si era comportato in maniera molto strana quella sera. Di solito si limitava a bere lentamente il suo amato rum, seduto di fronte a Emilio di cui era diventato amico. Le loro conversazioni si limitavano allo scambio di qualche pettegolezzo sui clienti che frequentavano la bettola. In realtà era Jorge a raccontare a Emilio quello che sapeva, ma mai per più di uno o due minuti, di quelle due ore che passavano insieme sorseggiando i loro amati liquori e guardando dalla finestra, in silenzio, il paesaggio lontano. Jorge era il precedente proprietario della bettola, che aveva venduto ad Emilio anni addietro, quando questi aveva deciso finalmente di abbandonare la grande città. Jorge, però, non era riuscito a rinunciare del tutto alla sua attività. La bettola era infatti l’unica cosa importante della sua vita. Di giorno aiutava nella gestione del locale, poi a locale chiuso, si scolava mezza bottiglia di rum, seduto ad un tavolo vicino ad una grande finestra che dava direttamente sul giardino detto dei ciliegi e che permetteva il godimento di un meraviglioso e non lontano paesaggio di montagna. Allo stesso tavolo si sedeva Emilio per sorseggiare aguardiente e godere di quella, se pur silenziosa, rassicurante compagnia. Quella sera Jorge era stato insolitamente loquace. Aveva raccontato la tragedia che aveva condizionato la sua vita, e che stabiliva fra i due un insospettabile e commovente legame. Quando era molto giovane, suo fratello Paulo, per ragioni d’amore, aveva posto fine alla propria esistenza in un modo abbastanza insolito. Una mattina, vestito di una semplice maglietta e un paio di pantaloni corti, con in una mano una borsa con un po’ di pane e nell’altra una bottiglia di acqua, si era avviato verso la montagna. Era stato trovato qualche giorno dopo in un ghiacciaio morto assiderato. Emilio non credeva in certe cose, ma sembrava che fosse stata una sorte di telepatia a stabilire l’insolito, forte legame nato fra i due. Ma quello che lo aveva colpito ancora di più era lo strano modo che Paulo aveva scelto per risolvere tutti i suoi problemi. Il cammino verso la montagna rappresentava l’ultima parte del cammino della sua vita. Pur assorto in questi tristi pensieri e giunto alla fine del quarto bicchiere di aguardiente, Emilio si accorse che un leggero e delicato colpo di vento aveva prodotto la caduta di alcuni fiori di ciliegio, ora ben visibili su uno dei tavoli del giardino. Ogni suo pensiero sembrò dissolversi lentamente come un paesaggio nella nebbia. Pian piano, nella sua mente, si sviluppò il ritornello della meravigliosa e triste canzone mirabilmente interpretata da Leon Gieco, El Adios: “cuando la ultima flor del cerezo haya caido, amiga yo estare lejos, muy lejos por el camino” (quando l’ultimo fior del ciliegio sarà caduto, o amica, io sarò lontano, molto lontano lungo il mio cammino). Emilio allora si rese improvvisamnete conto di quale sarebbe stato il suo destino, di quale sarebbe stata la fine di ogni sua sofferenza e vide se stesso vestito di una semplice maglietta e un paio di pantaloni corti, con in una mano una borsa con un po’ di cibo e nell’altra una bottiglia di acqua, avviato verso la montagna lungo il suo ultimo cammino che lo avrebbe portato ad abbracciare teneramente sua sorella Violeta.

10 pensiero su “El adios”
  1. Bello babbo! Riesce a trasportati in un mondo sospeso tra sentimenti musica alcol e coscienza.

  2. Bravissimo, si legge molto bene e ti commuove.

    Abbiamo scoperto un nuovo Maurizio che ci piace proprio.

    Maria

  3. Triste, commovente, piacevolmente leggibile, insomma, bello! Complimenti Maurizio!!

  4. Racconto scorrevole, triste e malinconico. L’ho letto con piacere!!! Bravo Maurizio!

  5. Bravo Maurizio, livornese dall’animo delicato! E vorrei anch’io un tavolo sul quale cadessero fiori de cerezo, meditando sui fatti della vita…

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