A dirla tutta a me nemmeno piaceva. Tanto più l’odiavo quanto più lo battevo forte. In realtà, dovendola contare per bene, non era il tamburo di per sé che non mi garbava. Io m’innervosivo soprattutto con mio padre e di rimando col tamburo.
Dopo sette anni di vita davo già per normale il fatto che quando la sera mio padre tornava a casa si doveva fare una gran baldoria. Iniziò dapprima a battere con le posate sui piatti mentre aspettava la cena, poi cominciò a dondolarsi con le sedie rompendone una mezza dozzina in pochi anni e poi, quando io ebbi compiuto tre anni, mi comprò un tamburo. Ogni sera lo prendeva da sopra l’armadio e me lo dava in mano, io mi sedevo a terra e iniziavo a battere forte mentre lui rideva a crepapelle e le sue gote s’infuriavano di un rosso che parevano scoppiargli da un momento all’altro.
Meno sorridente era al mattino quando strattonandomi mi svegliava che ancora era buio per andar con lui a mungere le pecore e poi, mentre egli continuava a lavorare il latte, io dovevo portare tutto il gregge al pascolo.
Spesso però mi mandava con la vacca e i bidoni a vendere il latte per le strade del paese. Ci andavo raramente perché quell’anima cupa di mio padre pensava che mi tenessi qualche spicciolo invece di consegnargli tutto il guadagno o che qualcuno mi fregasse pagandomi meno del dovuto. Su questo aveva ragione, non sapevo contare e non sapevo leggere e scrivere ma non credevo possibile che qualche signora potesse imbrogliarmi. Le donne siciliane oneste sono, e poi tutto è come le tratti. Io, infatti, facevo di tutto per essere il più gentile possibile.
Mi mettevo sempre con la mia vacca all’angolo di due strade e appena la prima donna rientrava con la brocca piena di latte, tutte le altre s’affannavano a raggiungermi che parevano galline quando si apre la porta del pollaio.
Qualcuna con la nasca un po’ più in aria delle altre aspettava che fossi io a portare il latte al paese per lamentarsi delle ricotte che faceva mio padre.
“La ricotta di ieri l’abbiamo bevuta, non mangiata. Troppo siero ci lascia tuo padre e poca ricotta”.
“Signora mio padre dice che se l’inzuppasse col pane una favola è”
E se la donna proseguiva le lagnanze, io avevo la buona scusa.
“Signora ha piovuto tanto e le pecore hanno bevuto tanto, che forse troppa acqua ci fa male alle pecore”.
Quando i bidoni rimanevano vuoti, tornavo alla stalla mentre mio padre mi aspettava col tridente in mano e se io facevo finta di passargli accanto come se niente fosse mi richiamava.
“Porta i soldi qua!”
Lui se li contava, lira per lira e a me dava il forcone in mano per portare il fieno alle mangiatoie. Finito di governare gli animali potevo tornarmene a casa. Lui invece contava di nuovo lira per lira alla cantina dove dietro una finestra sbarrata che dava sulla piazza della chiesa dell’Assunta, brindava con bicchieri colmi di vino rosso sfidando altri quattro mangiafranchi del paese con dieci carte in mano. Bevevano tanto di quel vino davanti quella chiesa che si prese d’invidia anche don Carmelo e nei sermoni minacciava di volta in volta che la domenica non si darà la comunione perché nessuno portava, né per grazie né per devozione, il vino da trasformare nel sangue del Signore e quel goccio che era rimasto era stato talmente allungato con l’acqua che affettivamente di solo di acqua sapeva quell’ostia intinta.
Quando mio padre tornava a casa iniziava la sua festa. Forse era un modo per rallegrarsi e non pensare, come io immaginavo, che si fosse giocato tutti soldi a tressette. Prima chiamava mia madre affinché gli slacciasse gli scarponi e poi barcollando andava fin davanti l’armadio e alzandosi sulle punte con una mano sola cercava di afferrare il tamburo che, per la sbornia, a guardarlo da lontano sembrava di vedere una canna sbattuta dal vento a destra e sinistra per come tremava tutto. Spesso se la prendeva con mia madre perché pensava che per dispetto lo spingesse di nascosto verso il muro così non ci arrivava a prenderlo.
Dopo i primi colpi sul tamburo iniziava già a ridere a più non posso mentre ogni tanto mia madre, che stava sempre rivolta verso il focolare, piangendo e per l’esaurimento nervoso sbatteva forte i coperchi delle pentole contribuendo anch’ella a quel casino che c’era ogni sera in casa mia.
Talmente gli piaceva quel suono del tamburo che ogni giorno di festa mi portava con sé per il paese. Io avanti di un paio di metri e lui dietro a seguirmi con le mani in tasca e col sorriso del più intelligente uomo del paese. Le donne mattiniere sentendo quel frastuono si affacciavano sul proprio uscio e, quando passavo io, sottovoce dicevano “Suona, la sventura che hanno in casa” e un attimo dopo, quando quella sventura che mi seguiva gli passava dinanzi, lo salutavano trattenendo le risate e con il cenno del capo.
A ogni manifestazione che si svolgesse mio padre mi trascinava e mi obbligava a battere quel tamburo. Ero l’apri fila di ogni processione, sempre davanti a tutti anche davanti a don Carmelo che seguiva il passo e penzolava il capo al ritmo delle mie percussioni.
Tutti in paese mi chiamavano u tamburinaru, così sta scritto anche nella carta d’identità sotto al nome che mi diede mia mamma.
Mi chiamò Pasquale mia madre, siccome s’accorse d’essere pregna il giorno di Pasqua ma nacqui poi di Santa Lucia ed ogni anno anche nel giorno del mio compleanno me ne andavo per le strade ad annunciare il passaggio della Santa siracusana.
Onoravo qualsiasi ricorrenza camminando per le vie, unendomi ai giganti, alle bande musicali, agli scioperi e tutti i cortei.
Nessuno mi pagava per suonare il tamburo benché, al contrario di ciò che pensa qualcuno, suono e lo faccio molto bene. Il rullare sulla mia grancassa sembrava quasi un terremoto. Tremavano persino le campane della chiesa di San Gianni.
Dicevo che nessuno mi pagava ma in verità una volta sola successe.
Tutti miei paesani sembravano impazziti, altro che morsicati dalle tarantole. Correvano avanti e indietro e portavano festoni e bandierine. Io tornavo zoppicando dalla stalla e, infastidito dal sole di maggio che andava nascondersi dietro i monti dopo averci abbrustolito per l’intera giornata, con una mano a mo’ di visiera alzavo lo sguardo e vedevo donne e giovani ragazzi indaffarati ad annodare ai balconi lunghe corde di bandiere colorate. Pensai di quale Santo fosse quel giorno e se mi dimenticai di qualche processione. Donna Lauretta espose sul davanzale della finestra della sua casa a pian terreno la statua della Vergine di Loreto aggrovigliata a un impianto di luci natalizie.
“Qualcosa di grave è successo” mormorai piano. Donna Lauretta l’ultima volta che fece prendere aria alla statua bianca della Madonna fu quando dieci anni prima la cenere di Mongibello ricoprì ogni cosa di nero e tutto ciò che stava sotto di essa tremò quasi senza sosta per un mese e forse qualcosa in più. La tenne illuminata con dei ceri sulla sua finestra che restava appositamente sempre spalancata. Quando il salone fu ricolmo di cenere lavica decise che fosse ora di riporre la statua e pregare per suo conto. Allora il vulcano si placò e tutto tornò normale.
Mi venne incontro mastro Gianni u forgiaru . “Ancora qua stai? Corri a casa e prendi il tamburo, che il Presidente sta arrivando”.
Così come mi era stato chiesto, corsi a casa e presi da sopra l’armadio la mia gran cassa, poi correndo che quasi mi strozzavo con la cinghia del mio strumento, andai verso la strada che scende accanto al fiume dove finiva il paese e cominciai a rullare in attesa che arrivasse un tizio che era Presidente non so di cosa. Intorno a me si raccolsero un sacco di ragazzi che, guardandomi dal basso, si prendevano gioco di me con l’aria festosa come quando si aspetta l’anno nuovo. Mi dissero che questo Presidente era ricco, che aveva tanti terreni e tante mandrie di cavalli e pecore per il triplo di quelle che avevamo io e mio padre. Aveva ville e maneggi attorno a tutta Palermo e una macchina di lusso che non avevamo mai visto passare una uguale in tutta la nostra vita. Immaginavo tutti quei soldi e quella ricchezza e aumentava allo stesso tempo il fervore con cui battevo sul tamburo che non sentivo più le mani e le voci della gente. I ragazzi sogghignavano e mi dicevano che avrei potuto chiedergli qualcosa per comprarmi un tamburo nuovo. Pensai effettivamente che con tutti i soldi che possedeva una gentile offerta a me che suonavo per lui, niente gli sarebbe costato. E, inoltre, già mi vedevo con una nuova grancassa tutta ornata di ghirlande rosse e blu e tanti sonagli che ogni colpo che ci avrei battuto sarebbe sembrato che suonasse un’orchestra intera. Appena le luci dell’auto s’intravidero fra le gole della strada che sale dalla marina, io iniziai il mio lamento a percussione. Gridavo a gran voce e il tutto si mischiava ai tumulti della gente festosa che salutava con coppole e muccatùri all’aria.
Sotto la luce di un lampione al centro della piazza del paese, quel tale Presidente si mise ad arruffianarsi quei quattro sapientoni che fra loro si chiamavano compagni e poi su sputtanavano con gli amici nelle cantine.
Io di quel che diceva me ne fregavo altamente, approfittavo solo degli applausi e delle ovazioni per sfogarmi col mio tamburo e gridargli la mia richiesta a litania “Da-ti-mi ‘du liri mi m’a-cca-ttu lu ta-mbu-ru”.
Lo inseguì cantando e suonando per tutta la serata fino a quando non si rinchiuse nella villa del sindaco che rispettosamente lo invitò a cena. Non disperai, rimasi sotto il balcone della villa in pietra bianca a lamentarmi, a chiedere due lire per continuare a sognare. Il signor presidente mi aveva notato e sono sicuro che alla fine quella mancia me l’avrebbe data se non fosse per quell’altro signore, che mi vedo bene dall’ingiuriarlo qui per la seconda volta dato che alla prima venni preso a bastonate, quell’altro signore il sindaco lo distolse definendomi solo un povero stolto.
Mi sta bene che mi chiamino stolto perché non ho avuto muggheri ma meglio non averne che mantenerne una in comune… con tutta la giunta comunale. Mi sta bene che mi chiamino stolto perché vado in giro a vendere latte e ricotte e ogni tanto ci lascio qualche bicchiere in più pagandomene di meno con la scusa che non so contare. Mi sta bene che mi chiamino stolto perché alla visita prima di fare il militare mi presentai con l’alluce aperto a libro che io stesso martellai la sera prima. Come se fossi solo io a fare lo scecco per non andare in guerra. La verità è che al mio medico non ci bastò un agnello macellato di quattro chili per scrivere un certificato d’infermità come fece per tutti gli altri.
In ogni caso quella sera per aver intrattenuto il comizio del Presidente mi diedero le due lire. Da quel giorno si può dire che iniziai la mia carriera da tamburinaru. Chi voleva che io suonassi per le strade durante feste, cortei e processioni doveva pagarmi il servizio. L’unico che si offese fu Don Carmelo che non tollerava concorrenze nelle offerte. Doveva prenderle tutte lui per finire di ristrutturare l’altare dell’altissimo e i lavori iniziati da dieci anni non vedevano ancora la fine che ormai non solo gli stolti come me si domandavano invece la fine che facevano tutte le offerte.
Un anno nel giorno di Santa Lucia, Totò mi venne a chiamare mentre mastru Luciano, il più garbato barbiere del paese -garbato soprattutto perché era l’unico- aveva appena finito di radermi la guancia destra ed i baffi e discuteva gridando col suo vicino di casa Mario il milanese il quale, nel suo dialetto del nord, veniva ad ogni festa solo a disprezzare il paese, i paesani e le pietre nel letto del fiume.
Totò mi raccontava che in piazza era arrivata la banda di Acireale pronta per accompagnare l’uscita dalla Chiesa madre della Santa patrona degli orbi.
Io lo ascoltavo immobile per la paura che mastro Luciano, in preda alla furia nella difesa del suo blocchetto delle fatture ingiallito per quanto era nuovo, mi sfigurasse con il rasoio.
Alle tre in punto, dopo un bel piatto di lenticchie, Totò ed io fummo in piazza con i nostri strumenti.
Da un paio di anni accanto a me, che suonavo sempre lo stesso tamburo, si univa ogni tanto questo ragazzino basso e tondo che con la sua tromba addolciva il sordo suono delle mie percussioni.
Seguimmo anche noi, come facevamo da anni, la processione senza unirci alla banda. Il più contento fu Don Carmelo che quell’anno stranamente riuscì a rimanere sobrio nonostante il suo viso rosso fuoco che aveva sempre e riuscì a recitare per intero il rosario a voce alta che per la prima volta lo sentirono per bene anche gli uomini che stavano sempre alla fine del corteo. Solitamente del suo recitare l’Ave Maria, “Ave Maria” erano le uniche due parole comprensibili. Il resto era il mugolio di un alcolizzato con la coppola rotonda in testa e un palio in mano.
Quando le donne pie cercavano di scacciarci a colpi di ombrello, noi correvamo in avanti spuntando dalle rughe e aspettando che Santa Lucia ci passasse davanti per onorarla come sempre abbiamo fatto con il suono del tamburo e del trombone. Anche la banda di Acireale fermava la sua sonata ogni volta che passava davanti a noi. Aprivano le braccia e passavano dritto, anche se il sindaco mandava ogni tanto il chierichetto per dire al maestro che meno si suona e meno si paga.
Da quel giorno nessuno si azzardò più a far venire in paese le bande musicali. Bastava a tutti che ci fosse u tamburinaru. Fu presente anche quando il sindaco fece il suo ultimo discorso, quello in cui finalmente, anche chi si reputava più intelligente di me riuscì a capire che il comune lo dirigeva la moglie del primo cittadino.
Quando questi toccò con mano la situazione, ossia le corna che aveva in testa, decise di sbattere fuori i suoi assessori e fece pubblica adunanza sulla piazza del paese.
Fu un discorso carico di emozione che ad ogni due parole o tre ci stava bene il rullo del mio tamburo a richiamare l’attenzione di tutti, anche delle due comari sul balcone che ridendo e scherzando si dicevano fra loro “Dio ce ne scansi… più ne hanno e più ne vogliono” intendendo, credo io, non alle grazie che riceveva la moglie del sindaco ma, stolto per quale sono, credo si riferissero ai politici del comune e al loro fare di tutto per restare seduti dove stanno a panza all’aria e non fare niente.
Finché mio padre morì, tutte le pecore che avevamo morirono anch’esse e non mi restava che andare per le strade a suonare il tamburo sperando che qualcuno avesse il buon cuore di darmi qualche spiccio per comprarmi un panino con la giardiniera.
Il giorno dei funerali di mio padre fu l’ultima volta che suonai il tamburo. Pioveva e meno male che pioveva quel pomeriggio di febbraio, almeno sembrava che qualche lacrima scendeva. Avrebbe voluto piangere di gioia mia madre ma già stanca ed esausta come era delle sua vita passata accanto ad un alcolizzato non aveva nemmeno la forza di lagnarsi. Io precedevo come sempre il corteo. Suonavo lentamente il mio tamburo. Colpi sordi e ripetuti in modo uguale. Dietro di me le corone di fiori e poi il feretro di mio padre che solo mi insegnò a suonare un tamburo.
Finiti i sette giorni di lutto decisi di buttare quell’affare ingombrante. Si era preso metà della mia vita quello strumento, mi aveva fatto suo schiavo. Lo sono tuttora che non lo suono più. Lo sarò per sempre, fino a quando l’ultimo vecchio di questo paese si ricorderà di me; u tamburinaru.

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