Napoli 16/06/13.
L’Uomo, l’eroismo, il Mito.
Una trasformazione dei modelli sociali: la trasmissione culturale e l’interazionismo simbolico, nei quartieri disagiati della città di Napoli.
“Le nuove generazioni, come ogni altro fenomeno umano, non sono un prodotto della natura, ma della società e, in quanto tale è soggetta a mutamento”. (Robert K. Merton)
In alcune zone della periferia di Napoli, i giovani vivono una realtà circoscritta e vincolata al quartiere di appartenenza e reagiscono di conseguenza ad una società già organizzata in subculture diversificate. Caso esemplare della realtà partenopea è la “camorra”, “verità sociale” dominante in molteplici territori della città.
Questo agglomerato sociale viene a contrapporsi radicalmente all’ambiente scuola, fondato su un “modello di comportamento” retto da valori che sono in alcuni casi troppo “distanti” dalla realtà di appartenenza.
Il principio di integrità che caratterizza la scuola, trasmesso attraverso lo studio, è una filosofia di vita che tende a diventare “assente” se paragonato alla cruda società che il giovane adolescente vive.Il conflitto di modelli che ne scaturisce nasce dall’esigenza del singolo di creare prontamente una dimensione-spaziale adeguata dove sviluppare i propri ideali.
La società deve essere considerata come lo spazio d’interazione che provoca questo conflitto, un legame di principi culturali, morali e civili dove queste due forze in netta opposizione si misurano e si fondono l’una nell’altra.
Questo parallelismo di universi atavici, rigidamente distinti, provoca nell’individuo una “costrizione di scelta”. La “tensione” esercitata sul singolo, è una pressione “tradotta” nell’isolamento.
Gli ideali, se imposti sul territorio, raffigurano un’alternativa dominante alla scuola, allo stato, alla società civile. Tali pseudo valori imperano nel tessuto sociale creando una rete di relazioni così invasiva da contagiare capillarmente la personalità dell’individuo.
Il disagio nasce dall’esigenza di disporre quanto prima dei mezzi necessari per “emergere”.
Ruolo fondamentale nel siffatto fenomeno è ricoperto dall’emarginazione, difatti, se isolato, il singolo, non può in alcun modo manifestare nessun carattere di quella società che lo compone e lo rappresenta quotidianamente.
È proprio sotto quest’aspetto che il concetto di “branco” determina la “scintilla culminante” nell’essere umano.
Dove gli ideali si sono fortificati, la società esibisce al ragazzo le armi più sinistre per indebolirlo; autonomia, indipendenza, facili guadagni, ed un posto di “tutto rispetto” nell’organizzazione criminale.
Il senso di onnipotenza che permane questi giovani sembra dominarli senza che ne abbiano la reale consapevolezza.
Un’avidità corpulenta si impossessa della loro “anima”.
L’invasore è rigido, geometrico, “invisibile”, la brama che lo divora è violenta, inetta, arida, colma d’ira, famelica, “possessiva”.
La trappola economica è una “muta agonia”.
Il degrado sociale, scandito nel territorio, è accecato di superbia, di “potere”, di leggi che appartengono ad emisferi capovolti.
È proprio in questo scenario che il dominio determina, sul territorio, un mutamento della struttura sociale. Il dominio va inteso nel suo carattere invasivo di “dominanza”. Il potere criminale provoca, difatti, la disgregazione della comunità in individui “isolati”. L’isolamento è la principale causa di difficoltà nell’aggregazione scolastica.
Innanzitutto vanno indagate le cause che hanno portato allo sviluppo del fenomeno.
La condizione sociale deve essere immancabilmente analizzata nel suo contesto culturale, ciò che i giovani vivono, è il disagio di una “condizione mentale” che emerge dal contesto socioculturale e ne implica irrevocabilmente il “modus operandi” nella società-cultura.
Non è forse la mancanza di cultura la causa di forza maggiore dell’inaridimento della società?
La mente reagisce agli “stimoli” che la società trasmette. Le “reazioni umane”, sotto questo profilo, possono essere osservate come un riverbero incondizionato dell’ambiente circostante (Attività Cognitiva).
La presenza prominente della dinamica criminale provoca nel cittadino un senso di abbandono, di incapacità, di sudditanza morale; tuttavia il ragguardevole carattere “eroico” di questi “personaggi” porta i giovani ad emulare queste “figure” criminose nonostante le mentite spoglie.
La verità sembra un “bamboccio” dagli occhi di marmo, la carcassa immobile di uno “spettro”.
La famiglia, in questo “obliquo” scenario, rievoca l’ultimo baluardo violato della società civile.
Il senso di impotenza che pervade questi luoghi penetra a tal punto il tessuto sociale che l’individuo ne viene incorporato come cittadino della comunità. Il suo “ruolo” viene arbitrariamente designato secondo una “selezione naturale”.
La società ha il volto pigro dell’indifferenza, la maschera inetta segnata dal silenzio.
Come “prigioni di carta”, l’Uomo si volta e obbedisce, ancora.
L’inaridimento dei contenuti morali e culturali è il “trampolino” che spinge i giovani in una vita vissuta ai margini della legalità.
La mancanza di “mezzi” è una connotazione determinante nell’affiliazione ai clan. Quest’ultima sembra essere la “leva” scatenante del fenomeno criminoso.
Nella sua natura più cruenta “l’affiliazione” funge da surrogato ad una società che non riesce ad offrire i “mezzi” per emergere. Anche se stravisato il “simbolo” ha una connotazione forte nella comunità, caposaldo su cui poggia fermamente l’attività criminosa.
L’uomo tende indiscutibilmente al simbolo.
L’individuo proietta nel mondo un’immagine di se stesso che distende le radici nei principi che il gruppo di appartenenza ha professato. Il gruppo viene scelto ed abbracciato come una filosofia di vita. L’attività criminale rappresenta paradossalmente un popoloso deserto.
La “strada” è un ambiente troppo sterile per trasmettere quei valori fondamentali che caratterizzano sin dalle origini l’Uomo di buon senso.
Le “disposizioni” gerarchico-criminali esercitano sull’individuo un efficace magnetismo simbolico.
L’individuo che viene delineandosi presenta delle “logiche di pensiero” che reagiscono in maniera sincronizzata alla realtà circostante. L’esigenza di reagire nasce dall’innata capacità di adattamento del singolo, capacità, tra l’altro, che ha sempre contraddistinto il “mutamento”.
Il carattere individuale è un “derivato” di valori nettamente contrastanti, pertanto, la capacità di “scegliere” appare come una “libertà” vincolata all’ambiente circostante.
È nell’interdipendenza dei singoli che, l’attività criminale finalizza i suoi scopi, creando gerarchie semplici, dispotiche ed isolate.In questa fitta anarchia di cellule dipendenti, l’individuo si “aggrega” e “disgrega” con le logiche che regolano le attività criminologiche.
Il senso di vuoto che il fenomeno determina nella persona, proietta nel territorio, “figure” capaci di proteggersi dall’ambiente che le circonda, quest’aspetto diviene sovrano, prendendo forma, nelle zone degradate.
I modelli imposti sono sbilanciati sul rispetto e sui principi morali che la scuola, in giovane età, non riesce tuttavia a trasmettere attraverso lo studio. Il simbolo che meglio ha saputo incarnare questa filosofia criminale è il “culto” del rispetto. Questo modello viene divulgato ai giovani che vengono iniziati all’attività criminale. Tale attività è caratterizzata dal culto del rituale, culto che tra l’altro ha sempre esercitato un forte magnetismo sull’essere umano.
Le leggi della strada dominano le culture, forgiando logiche di pensiero che rispettano i canoni individuati come fondamento per la sopravvivenza nel “ghetto”.
Il potere avanza,
La città sanguina.
L’ Uomo, l’eroismo, il Mito.
L’Anima cieca senza memoria.
Abile la Verità,
Circonfusa e circonflessa,
Nei volti di pietra.
Francesco Schioppa.
Un singolare ringraziamento al mio caro amico Valerio Lazazzara per essere riuscito ad infiammare la presente “memoria”.
Ció che mi infastidisce quando si parla di Napoli è il fatto che la maggior parte dei Napoletani si chiamino fuori da tutto, come ablativi assoluti di memoria classica, svincolati da leggi e obblighi previsti da una società e da uno Stato visti come altro da loro, fieri di un atteggiamento sempre ironico, irridente, quando non dissacrante.
Non se ne può più di questa affannosa ricerca della furba scorciatoia e della giustificazione ad oltranza.
Ho amici e amiche carissime che mi onorano della loro amicizia che sono napoletani e campani, ma che sanno vedere e condannare questi modelli triti e ritriti. Non viviamo più in anni privi di comunicazione e confronto eppure si riperpetuano modelli e atteggiamenti con conseguente “comprensione” entologica e antropologica.
Non sarà qualcosa di “esterno” che porterà la “salvezza”.
Alla fine, se è vero che non ci si salva da soli (idea evangelica di condivisione), è anche vero che bisogna volere la propria salvezza recidendo cordoni ombelicali dolorosi.