Caro Giuseppe,
è da molto che non prendo una penna in mano e spero proprio che la calligrafia non ne risenta, perché ho notizie, curiose e degne d’attenzione da darti.
Ma pensa prima al nostro mondo di regole, scritte con il fuoco; regole indelebili, durevoli, create per rendere semplice il piccolo viaggio dell’uomo sulla terra.
Postulati che arricchiscono di toni bassi, la voce già professorale di certi dotti, che chiamiamo così, poi, solo per la conoscenza di certe cose vecchie.
E allora come dovremmo chiamare quelle persone che vedono il nuovo, che intuiscono la presenza di un passaggio dove noi vediamo solo il pieno, che cercano a dispetto di tutti di varcare quella soglia leggera, ma pur sempre consistente, che divide la fantasia, dalla realtà realizzabile? Pazzi, stravaganti e se proprio la fortuna li arride, dei poveri sognatori.
Poi e so che mi darai ragione, quando abbiamo capito, spesso dopo del tempo, li definiamo scienziati, eroi, geni ma, tutto questo solo dopo!
Ascolta, allora, cosa ti racconto; segui la poesia che sgorga da questa storia di molti, tanti anni fa:
“le foglie erano battute dal vento e viaggiavano dal di qua della strada, al di la della stessa, senza una meta precisa.
Il vento faceva da padrone e, con il suo grido a volte lamentoso, si aggirava per le vie deserte di un paesino di montagna.
Tra le persiane accostate e quelle sbattute dall’aria impetuosa, in cerca di una rapida chiusura da parte di qualche braccio avventatamente esposto alla tempesta, solo una finestra lasciava trasparire una luce e avvicinandosi a essa si poteva ammirare un naso che, se non avesse avuto una robusta cartilagine, sarebbe stato ben presto piegato dalla forza del vento per quanto n’era esposto.
Il padrone d’esso sorrideva e sforzava gli occhi nel tentativo di tenerli sempre ben aperti ma si accorse che non era cosa facile allora rientrò di corsa senza chiudere la finestra.
Poco dopo tornò con un pezzo di bottiglia appena rotta e se la sistemò davanti agli occhi; un rudimentale occhiale che bene lo proteggeva dal vento e continuò a guardare sorridendo.
Accanto a sé, tele, stoffe d’ogni fattura e tanta carta. Accatastati da un’altra parte, ma sempre vicino, delle forbici, un metro da sarta, della colla e altri materiali di scarto.
Prendeva pezzi di carta e poi di stoffa e li tagliava con cura, poi li lanciava dalla finestra seguendo con rigore la traiettoria e sporgendosi, quando serviva, per ammirarne il posto di caduta.
Poi ne tagliava sempre di nuovi e sempre con la stessa perizia e sempre della stessa dimensione, assemblandoli, però, in maniera differente. L’incollava o li cuciva tra loro modificandone, perciò, il peso. Poi si dirigeva verso la finestra e uno a uno li lanciava, annotando con cura su di un quaderno il risultato.
– Patrick, CHIUDI … IMMEDIATAMENTE … LE PERSIANE.
– Ma madre, sono coperto non mi posso raffreddare.
Rispondeva infilandosi di corsa un cappello e una sciarpa alla meno peggio.
– Patrick non ho voglia di discutere; ora viene tuo padre e lo sai quanto s’infuria a vederti così.
Il gioco era finito e per quel giorno tornava a essere un bambino come gli altri, pronto ad andare a scuola per condividere alcune ore con i suoi compagni. Come se poi fosse semplice condividere argomenti che ad altri non interessano, soprattutto alla loro tenera età in cui l’innocenza e la sincerità regolano i rapporti.
A scuola lo chiamavano pellegrino, in onore al falco stampato sulla cartella e a causa del suo peregrinare da un banco a un altro, da un compagno di classe a un altro, senza che nessuno lo volesse definitivamente accanto.
Patrick non sorrideva a tutti, non amava tutti perché riteneva fossero al di sotto delle loro reali possibilità; era preoccupato nel vedere come gli altri bambini sprecassero il loro tempo.
Lui le sue potenzialità le conosceva; si erano evidenziate, coltivando una passione.
La sua, però, non era capita e questo era inaccettabile. La passione forte non poteva non prevedere la condivisione con qualcuno, anche uno dei genitori sarebbe andato bene, se mai ne avessero avuto la voglia. Il fatto d’essere figlio unico, inoltre, rendeva anche più aspro il confronto con gli altri suoi coetanei, che arrivarono a deriderlo davanti al maestro.
E lui si arrabbiava e quando succedeva soffiava forte, proprio come il vento, suscitando ancor più ilarità tra i compagni; poi il soffio diventava più energico e ritmato, fino a somigliare a un lamento e solo allora chi lo conosceva bene arrestava qualsiasi azione, rimanendo in silenzio, perché lo sapevano essere capace di cose bizzarre e pericolose.
L’aria che si respirava a scuola si faceva sempre più dura per Patrick e questa sua ansia di riuscire a dimostrare che era un ragazzino normale, anche se i suoi giochi differivano molto da quelli dei suoi coetanei, era fortemente accresciuta.
I compagni lo vedevano, nei pomeriggi assolati ma ventosi, lanciare quelli che in apparenza sembravano essere semplici pezzi di stoffa verso il vuoto di un dirupo e il tutto senza che ci fosse un senso realmente riconoscibile. E più era strano e più lo prendevano in giro.
Nessuno ebbe il coraggio di vedere, figuriamoci di guardare con occhi attenti, le evoluzioni ben tracciate e studiate dei ritagli di stoffa.
Partivano come saette verso il vuoto, poi s’impennavano verso l’alto per rovesciarsi su se stessi; prendevano aria su di un lato piegandosi e dirigendosi come una lama là dove lui si era diretto, ancora prima che questo avvenisse, per poi essere ripresi dalla sua stessa mano, come un piccolo e morbido boomerang.
Qualche altro “pezzo di stoffa” invece era lanciato verso l’alto.
Lui, seguiva tutto con lo sguardo e soprattutto con le mani, con le quali simulava le traiettorie.
La sua piccola e sicura mano girava su se stessa, simulando le mostrate forme in evoluzione nell’aria, fino a quasi spezzarsi, dando l’impressione d’essere soggetta anche lei alle leggi immutabili del vento.
Arrivata alla sommità massima di quel volo, la stoffa si ripiegava su se stessa, rimanendo per un attimo ferma in aria.
Le mani, come bacchette protese verso l’alto, erano ferme anch’esse, poi … un piccolo gesto, quasi impercettibile e il piccolo direttore d’orchestra spezzava il silenzio segnando con un inafferrabile anticipo la discesa verso terra.
L’ala di stoffa nella sua ritrovata aerodinamicità, sembrava aver fretta di terminare il volo, finché…, la testa di Patrick tese verso destra, insieme alla rispettiva mano e una folata di vento, che sembrava esser stata ancora una volta percepita con anticipo, arrivò puntuale ad alzare l’ala a destra, verso l’orizzonte.
Sembrava che i venti seguissero le sue indicazioni o forse che il bambino avesse semplicemente dimestichezza con loro.
Lui l’aveva voluto con tutto se stesso e aveva osato e saputo stringere un’ampia alleanza con l’elemento più inconsistente che la terra abbia mai posseduto.
Le sciabordate erano puntuali e tenevano l’ala sempre in vita poi, però, quando il ragazzino si faceva troppo sicuro, uno schiaffo e giù prepotentemente e rovinosamente verso il suolo. Patrick sembrava aver capito e rideva di gusto quando questo accadeva.
Le risate, trasportate dal vento, sembravano ingigantirsi e raddoppiarsi e infine, ancora una volta, interrompersi così com’erano venute.
Raccolti i suoi giochi, si dirigeva verso casa con un’aria di piena soddisfazione, come mai si era visto negli occhi di un bambino.
Gli ultimi periodi passarono così, all’insegna di un gioco che appariva sempre più una ricerca, una verifica, un esperimento.
Quando percorreva la strada di ritorno verso casa, doveva passare per forza attraverso la piazza del paese frequentata dai suoi compagni e dai fratelli di questi, tutta gente che conosceva bene e che avrebbe voluto evitare ogni giorno di più.
– Pellegrino, allora che ti ha detto il vento stavolta? –
– Ragazzino, vieni da me che ti scompiglio i capelli più del vento –
– Hei pellegrino, ma è vero che l’aria ti ha spazzato via il cervello? –
– Ma lo lasciate in pace, io lo trovo anche carino … con quel naso un po’ pronunciato –
– Pronunciato? Ma se si vede che è il vento che lo ha lavorato ben bene. Non vedete com’è… proteso in avanti?! –
E giù tutti a ridere, anche quelli che non se lo erano mai filato.
Quanta umiliazione dopo tanto divertimento. Sempre così, due così forti contrapposizioni che, proprio, faceva fatica a capire e sviscerare.
A casa, infine, la famiglia non si dava pace. Ogni giorno questi suoi strani giochi facevano impazzire il padre di vergogna. Non sapeva più cosa dire ai suoi amici e colleghi i quali, anche semi seriamente, sostenevano una certa anormalità in Patrick, un certo, diciamo, anticonformismo, che lo faceva apparire come un disadattato, poco intelligente, insomma.
Gianni, il suo più caro amico, lo incontrava tutte le mattine prima di andare al lavoro e…
– E’ arrivato un nuovo medico in paese, sai Carlo?
– Embè? Replicò lui con aria, di chi sapeva già dove volevano arrivare.
– Beh, … così per dire. E’ arrivato, magari può essere utile conoscerlo.
– E allora vatti a presentare, se proprio ci tieni. – Ribatté con rabbia – Io ho da fare, vado a lavoro.
– Va beh non te la prendere Carlo, – rispose con disappunto un altro suo collega – non sappiamo più come prenderti. Te lo diciamo per il bene del piccoletto e pure tuo. Oh, guarda che questo è uno di quelli che studiano i cervelli.
– E allora è vero che non ce n’avete bisogno; voi il cervello nemmeno lo tenete.
– E’ inutile che ti scaldi e offendi. E poi, … a volte è meglio essere come noi che il cervello non ce l’abbiamo, che avercelo e magari ti funziona male.
Il paese, caro amico mio, e il mondo è paese, è sempre stato un eco, ma più strano di quello delle valli che tutti hanno sperimentato. Il paese distorce, amplifica, seziona e ricompone mostrando assemblaggi avventati e spesso imprudenti. E fu proprio quell’imprudenza e quella cecità, tipica di chi non ha il coraggio di vedere cose diverse, a spingere il piccolo Patrick a comportarsi come il peggiore degli adulti.
Era mattina presto a scuola e come spesso accadeva la classe era ancora vuota e gli stessi maestri erano ancora fuori nei corridoi a raccontarsi la domenica appena passata.
Patrick era più baldanzoso del solito; entrò a scuola con aria sicura mostrando il piccolo petto gonfio. Quel giorno portava in tasca alcuni pezzi di tela, preparati giorni addietro e rinforzati nei laterali con piccole lamette da barba, sapientemente rubate nel bagno del padre. Sporgevano dalle sue tasche gonfie, come in quei vecchi e comici film muti, dove un uomo esce da un negozio, fischiettando carico d’ogni ben di Dio.
Il piccolo falco allargò le ali, manifestando subito la sua superiorità. A volo radente affrontò il corridoio iniziale e poi la grande piazzetta interna all’edificio che divideva le varie classi.
Con la noncuranza del rapace, si avvicinò ai grandi mammiferi, senza mostrare loro la dovuta attenzione. Continuò il suo giro alzandosi per una migliore panoramica; era sopra le scale che portavano alla presidenza. Lo sguardo era rapido e freddo. La scelta della preda era questione di sopravvivenza e per essere il migliore, solo un altro capobranco doveva essere sfidato e lui lo sapeva.
Durante il successivo volo in planata, scovò ciò che gli era utile al progetto. Si alzò, allora, per recuperare velocità e una volta raggiunta l’altezza che gli occorreva, strinse le ali e lanciò il suo attacco verso la preda prescelta.
L’ala, che fendette l’aria, sibilò e veloce si accostò alla preda.
Qualcuno iniziò a urlare e questo permise, al cacciato, di vedere l’attacco a lui lanciato, portato al termine. Pochi attimi, spesi solamente, per rendersi conto che gliene rimanevano ancora meno poi, gli occhi chiusi, come a voler fermare quell’azione e … l’attesa.
Una vibrazione leggera d’aria accanto al volto e gli occhi che si strizzarono quasi a delimitare la fine dell’azione e della tensione. Infine, la luce fece breccia, attraverso le cavità orbitali, nella testa dell’animale catturato che cercava, con ansia e dopo aver urlato, le proprie ferite.
-NON MI HAI PRESO, M’HAI LISCIATO. STUPIDO RAGAZZINO.
in maniera finto-spavalda l’ormai ex capobranco mostrava tranquillità, ma le gocce di sudore che gli imperlavano il volto e una certa tremarella marcavano il contrasto. Patrick sorrideva. Attorno al ragazzo ancora spaventato, tanti bambini come lui, avevano capito il gioco e si allontanavano, da quello che fino a pochi attimi prima era stato il loro punto di riferimento.
La proposta di cambiare capo era stata posta sul tavolo, peccato che non si ebbe il tempo di vagliarla.
Patrick, infatti, fu cacciato dalla scuola per comportamenti aggressivi e l’ordine precedente ricostituito, almeno in parte, perché non ci furono più piccoli capi in quel paese né più voli d’ala, finché, molti anni dopo… era da poco passata la prima Grande Guerra. Il paese si presentava con le caratteristiche folate di vento che l’avevano reso famoso, come base di partenza per i nostri storici aerei italiani. La campagna intorno, come la pelle acneica di certi bambini, non aveva in ogni caso perso il suo fascino ed era meta, di stranieri e non, in cerca di un’abitazione fuori dal caos delle città. Io, dopo aver reso merito all’aviazione italiana, come te d’altra parte, avevo adocchiato un casale fuori dal centro del paese e lo avevo comprato per farne la mia residenza.
Era abbandonato da molti anni, da molto prima dell’inizio della Guerra.
Ora mi chiederai che c’entra il casale con la storia di questo bambino; abbi ancora un po’ di pazienza e Carmelo, il tuo amico te lo spiegherà.
Avevo appena iniziato la ristrutturazione quando gli operai scoprirono un baule e me lo misero da parte. Incuriosito dai disegni impressi, che raffiguravano un uccello con grandi ali disegnato alla tipica maniera dei bambini, lo aprii, forzando un piccolo lucchetto.
Sollevai il coperchio e vidi ciò che in parte mi aspettavo: oggetti, fogli e disegni di un bambino, ma celava molto di più di quanto non mi fossi accorto in un primo momento.
Una parte era quella appena descritta, poi, altri fogli che ti riporto così come li ho trovati:
– “maggio 1853 – oggi c’è molto vento è proprio la giornata ideale per le mie stoffe“
– “maggio 1853 – mio padre proprio non capisce. Mi sento solo, vorrei far capire loro che il vento non è un semplice gioco, è un amico. Ti insegna molte più cose di quanto non abbia mai fatto il Signor Giuseppe, il mio Maestro a scuola. Il signor Giuseppe è una brava persona, ma la natura insegna cose da mille e mille anni. La sua, è una lezione continua, puoi imparare cose nuove o semplicemente ripeterle. Non ti giudica, non ti mette voti e non ti bacchetta le mani se sbagli come il sig. Giuseppe. E non ti premia se capisci. Ho capito che il premio è proprio arrivare a capirla. Io, mio caro diario, ho voluto approfondire il vento; qui ce n’è in abbondanza e credo proprio di voler seguire questa strada.”.
– “Dicembre 1856 – sono uscito senza il permesso dei miei genitori. Fuori piove, ma sono mesi che provo le mie nuove stoffe, forse le ho appesantite troppo o forse è la pioggia che le appesantisce, devo ancora capire, studiare. A presto, diario.”
– “Gennaio 1857 – è l’alba ed è una giornata magnifica. Fredda ma ventosa. Il mio amico vento ha spazzato le nubi e proprio non ce la faccio a rimanere a casa, esco. Andrò a scuola in ritardo, devo approfittarne. A dopo… wow è stato magnifico dopo tanto tempo sono riuscito per la prima volta ad anticipare una folata, credo di aver intuito il meccanismo, è fantastico, lo sapevo che ce la avrei fatta.”.
– “Febbraio 1857 – questo mese è stato pieno di emozioni. Sto capendo il meccanismo del mio amico vento e più provo e più ne ho la prova.”.
– “Febbraio 1857 – sono proprio stufo, i miei compagni di classe, proprio non li sopporto. Ma perché non vogliono capire, io qualcuno di loro ce l’ho pure messo tra quelli che stimo (vedi diario ultima pagina) ma a volte mi sembra di dar loro troppa fiducia. Se almeno mia madre e mio padre mi aiutassero.”
– Aprile 1857 – Ala. Così la voglio chiamare. La mia ala è pronta e a dispetto di quanto dicono le persone che mi giudicano matto, credo con questa mia ala ci si potrebbe proprio volare, come fanno gli uccelli. Allora si, che potrei chiamarmi veramente pellegrino come il mio falco. In quest’ultimo mese l’ho caricata con vari pesi e così l’ho equilibrata. Ho anche aggiunto un piccolo pezzo di stoffa sopra, perché da più stabilità. Con del legno, poi, ho provato a fare, tipo uno scheletro, ma ho utilizzato legni leggeri perché altrimenti non ce la fa a sollevarsi. Non riesco perfettamente a guidarlo dove voglio io, probabilmente la doppia ala e lo scheletro centrale hanno bisogno di sforzi maggiori, da parte del vento, e io, per ora, sono perfettamente in sintonia con lui solo sulla singola ala. Caro diario, pensa, riesco a stabilire prima, dove il vento batterà sull’ala e quindi dove la porterà, è come se me lo anticipasse con un soffio leggero. Vorrei poter scrivere il perché fa così, ma per ora è solo un’intuizione e io ho letto che per farla diventare ufficiale devo dimostrarlo con delle regole. Ma nessuno crede che sono capace di portare la mia ala esattamente dove voglio, che conosco il senso, ma che non so decifrarlo. Ho provato a chiedere al mio maestro, ma mi ha risposto gridando – ‘lascia volare gli uccelli che loro lo sanno fare, l’uomo non è nato per volare e mai lo farà. I tuoi voli sono solo della fantasia.’-
Al campo ho costruito una sorta di tiro a segno ed è uno spasso. Quasi il totale dei lanci va a segno e pensa che io li complico giorno dopo giorno. Proprio non capisce il maestro Giuseppe. Quanto vorrei essere sopra la mia piccola ala. Per ora sono troppo piccolo, da grande volerò su di lei e lo insegnerò a tutti i bambini del mondo e così nessuno più mi prenderà in giro o mi chiamerà matto. Domani è il gran giorno; mostrerò a tutti, la mia amicizia con il vento.”.
Questa, è l’ultima data riportata, dopodiché nulla si sa del bambino e della sua ala. In paese sembra che nessuno si ricordi di tale Patrick, tranne un vecchio. L’ho avvicinato, alcuni giorni fa. Dice di essere un suo vecchio compagno di classe. Ricorda e si vergogna di quei momenti, dice che avrebbe voluto aiutarlo, ma parlare di volo in paese e a quei tempi era una pazzia e si rischiava il ridicolo anche solo a giocare con il “matto”.
– Oggi, tutti si sono resi conto che la pazzia era di casa nel paese, tranne che nella testa di Patrick – mi disse il vecchio – ma non hanno il coraggio di ammetterlo. Dopotutto il coraggio ci mancava anche allora. Ma lei che è un pilota e che vola sulle ali di Patrick, cosa può dirmi di quel bambino; cosa vede di lui.
mi alzai e lo guardai nel volto già rigato dalle prime lacrime, poi lo accarezzai e dissi:
– non so dove sia quel bambino, ma ora so che ha volato con me fin dal primo istante in cui ho messo piede nella carlinga. Mi chiedi che vedo in lui e allora ti dico, non piangere, perché sono poche le persone al mondo in grado di riconoscere un genio e le uniche sono le persone sensibili, e tu oggi lo hai riconosciuto.
Caro Giuseppe, questi disegni che ci ha lasciato, queste stoffe che ha mantenuto, questa testimonianza è la prova che ancora possiamo migliorare e che il volo non era e non è un’esperienza impossibile, soprattutto quando a volare devono essere le nostre coscienze, da troppo tempo relegate sulla terra.
A presto, mio caro amico.
Con affetto Carmelo
racconto bellissimo sia per lo stile che per l’argomento trattato, quello del volo, che ha sia una valenza simbolica (e cioè la capacità di levarsi sulle teste altrui andando oltre le meschinità di tutti i giorni) sia una valenza pratica (cioè l’attenzione al particolare, all’osservazione, all’esercizio attento delle proprie possibilità).
peccato che sia un argomento di nicchia, sia come sport, che come letture, che come lettori.
pensa che ad uno dei miei figli, il più giovane e incosciente, avevo imposto l’ottenimento del brevetto di volo, prima della patente perchè capisse una volta per tutte cosa è il rischio e quanto costi la sbadataggine. aveva 17 anni. la lezione gli è servita ed è diventato negli anni un uomo responsabile e affidabile.
grazie per l’occasione di lettura che mi è stata offerta
Bel viaggio tra l’incomprensione di un bambino, la sua amicizia col vento, la sua consapevolezza forte di non essere quello che l’ostilità generale di un ambiente più immaturo di quello che poteva essere lui alla sua età vedeva in lui, e la conferma di ciò.