E’ noto che Nicolaj Vasilevic Gogol immaginò, in un suo racconto, la perdita del naso, Edgar Allan Poe la perdita del fiato… A me è successo molto di peggio: la perdita di capelli. Vi prego di non ridere per questo, dal momento che io rabbrividisco a pensare a quel giorno e rabbrividirebbe chiunque altro si fosse trovato nella stessa situazione, o anche solo vi avesse assistito. Fortunatamente non c’è stato alcun testimone e il fatto è rimasto completamente sconosciuto, fino a questo momento in cui lo racconto. E’ ovvio che la caduta dei capelli, in sé, non appare come un fatto straordinario, è stato invece veramente straordinario il modo, quello sì, in cui essa si è realizzata… E si è stabilizzata per tutto il resto della mia vita, che ha reso miserrima fino al giorno d’oggi… Non una stempiatura progressiva e neppure una chierica o piazza, con tendenza ad allargarsi (come succede normalmente negli uomini), ma in pochi giorni, fra i capelli foltissimi, si sono formati due occhi, un naso e una bocca ghignante.
Alla fine la faccia di un teschio, orribile a vedersi, ha da allora, preso posto nella parte posteriore della mia testa, quasi agli antipodi della mia vera faccia.
Pensavo, all’inizio, che questa calvizie, per quanto bizzarra, avrebbe continuato il suo corso scoprendomi tutto il cranio e cancellando quei segni inquietanti nel mare di una pelata totale. Ma ciò non è avvenuto, dal momento che terminato con certosina precisione il macabro disegno che ho detto, la calvizie si è arrestata, e anzi i capelli circostanti si sono fatti più folti e, contro ogni legge naturale, non hanno mai avuto alcuna intenzione di coprire le parti glabre, in quanto avevano preso una piega che si inclinava decisamente dalla parte opposta.
Il mio imbarazzo a farmi vedere in quella situazione era enorme, e tutte le volte che uscivo di casa mi preoccupavo di mettermi un cappello, o un berretto, un basco, o in casi estremi e nonostante il ridicolo, anche una bandana. Quando tornavo a casa avevo sempre la solita sorpresa: qualsiasi copricapo mi fossi messo, lo trovavo invaso da una miriade di insetti che vi si erano attaccati. Nel giro di poche decine di minuti alcuni di queste schifosissime bestioline avevano deposto le uova, che aprendosi avevano liberato centinaia di vermi e larve, di modo che era tutto un orrendo brulichio di cui, a fatica riuscivo a liberarmi, ricorrendo a potenti insetticidi.
Solo una volta decisi di camminare un poco, nel buio della sera, lontano da chiunque mi potesse vedere, e senza niente che mi coprisse il capo. Con tale intenzione nella mente ero, infatti, sceso dalla macchina, appena fuori dal paese, mentre una piacevole sensazione mi invadeva il corpo, tanto più che spirava una leggera brezza fresca e carica dei profumi della primavera. Stranamente non succedeva nulla, se non lo spirare profumato dei fiori del biancospino che, in quei giorni, cominciavano a fiorire.
Mi dirigevo verso la grande terrazza naturale che si affaccia sulla riviera per ammirare il panorama quando, con raccapriccio, sentii che alcuni pipistrelli, proditoriamente, cercavano di aggrapparsi, con i piccoli artigli al mio capo, emettendo acuti stridii.
Cercavo di allontanarli agitando le mani ma quelli, mi accorsi, avevano un solo scopo: mordere le occhiaie del teschio o il naso o la bocca. E poiché mi coprivo con le mani e gli avambracci si accanirono contro di essi, dimentichi della loro natura di animaletti insettivori, innocui per gli uomini. Riuscii a liberarmi di loro solo quando raggiunsi la macchina e con un guizzo entrai e richiusi lo sportello. Inutilmente i volatili (constatai che erano tre) sbatterono contro i vetri dei finestrini e del parabrezza avvinghiandosi ai tergicristallo. Quanto tempo passai paralizzato dalla paura, incapace di fare il minimo gesto necessario a mettere in moto la macchina, fissando i sei occhietti che come spilli fissavano i miei e ancor di più quelli del teschio? Stetti così fino all’alba quando con il biancheggiare all’orizzonte i pipistrelli se ne andarono mandando ancora striduli versi come per farmi sapere di qualcosa misteriosamente ritrovato sul mio capo, ma già noto nel regno esoterico della notte. Giunsi a casa esausto e giurai che mai più sarei uscito senza copricapo.
Poi notai anche i topi, di giorno o di notte. Li sentivo seguirmi scalpicciando, sotto i mie passi, lungo le fogne, e ne vedevo i capini affacciarsi dalle chiaviche e, ricomparire desiderosi di assalirmi. Ero pervaso dalla paura che mi si attaccassero agli orli dei pantaloni, per poi scalare tutta la persona fino a raggiungere il teschio, che, per qualche misterioso motivo, li attirava con una forza misteriosa venuta dalle tenebre. Ma mi accorsi, col tempo, che il teschio era divenuto una potente calamita per tutti gli animali più ripugnanti della notte. Oltre che pipistrelli e topi, anche serpi, enormi farfalle notturne, civette, gufi e scarafaggi cominciarono a seguirmi. Cosa li attirava? Quale malefica e oscura potenza era concentrata in quei segni creati da quella che all’inizio sembrava solo una calvizie anomala? Fui costretto a rinchiudermi in casa, senza azzardarmi ad uscire dopo l’imbrunire.
Come ovvio cercai con ogni mezzo di liberarmi della malefica presenza che portavo sul capo, ma tutte risultarono senza alcun risultato. Peggiorai grandemente la situazione quando decisi di radermi completamente il capo: la cosa sembrava ovvia, ma non l’avessi mai pensata! Andò tutto bene finché mi limitai ad usare le forbici, ma mentre mi passavo il rasoio elettrico avvertii un leggero pizzicore come una, anzi due, punture di spillo (cosa che, a dir la verità, mi era capitata altre volte a causa delle caratteristiche non brillanti del rasoio). Si trattava di una cosa lieve e non gli detti alcuna importanza, mentre rimiravo davanti allo specchio la mia fronte e le tempie completamente rasate, pensando dentro di me che la cosa era fatta. All’inizio avrei dato d’intendere che avevo provato ad arrestare una calvizie o sperimentato una nuova acconciatura, particolarmente giovanile. E, con la ricrescita dei capelli forse tutto sarebbe tornato nella normalità: addio occhi, addio naso, addio ghigno beffardo! Quando, finita l’operazione, mi guardai di dietro, nello specchio piccolo di fronte allo specchio più grande, cacciai un urlo. L’impronta era rimasta come prima, accentuando la sua rilevanza: occhi, naso e bocca del teschio erano diventate, infatti, di un colore rosso vivo che risaltava in modo impressionante, come marchiature a fuoco appena impresse, tra il grigio compatto della rasatura. Ma ancora peggio fu quando mi resi conto dell’effetto delle due punture che poco prima mi ero procurato: il rasoio mi aveva prodotto due piccoli tagli, proprio nel bordo inferiore degli occhi, da cui sgorgavano ora due fili di sangue, dando al teschio un’espressione diabolica.
Non ripetei più l’esperimento della rasatura, ma lasciai che i capelli crescessero spontaneamente, limitandomi a spuntarli, di tanto in tanto, con le forbici sotto le basette e nella nuca. Mai e poi mai sarei andato da un barbiere perché equivaleva a rendere pubblica tutta la storia!
In quei giorni raggiunsi il massimo del raccapriccio perché mi accorsi che la cosa mostruosa che avevo impressa sul cranio non cessò di lacrimare il suo immondo sangue, che pur in parte raggrumandosi tra i capelli, continuava a scivolare verso il basso, rigandomi il collo.
Nel tempo ci sono stati, è vero, dei momenti di remissione, in cui sembrava che il sangue cessasse di sgorgare, ma erano momenti illusori che duravano pochi giorni. Poi le stille di sangue ricominciavano a uscire, formando arabeschi su qualsiasi cosa fosse a contatto con la mia testa. Non potevo più mettere bandane o berretti aderenti, se no le macchie in poco tempo trasparivano. Pensai di risolvere il problema indossando cappelli alti, tipo Borsalino, decisamente fuori moda. La cosa funzionò per un po’ di tempo, ma poi mi accorsi che le lagrime del mostro che era in me, cadevano nel bavero della giacca.
Tamponai con grossi cerotti e garze ripiegate più volte, ma il sangue aveva l’attitudine ad attraversare qualsiasi spessore, e in poco tempo fu capace anche a scorrere sotto tutti i materiali impermeabili che, nella mia disperata ingenuità, cercavo di fissargli sopra, con collanti e legacci.
… Ormai sono decenni che vivo rintanato in casa, l’acquisto dei cibi e delle altre cose necessarie alla vita li faccio per e-mail pagando con la carta di credito. Un volontario me li deposita fuori dell’uscio e, attraverso la porta, io ringrazio del disturbo senza osare di mettere il capo fuori. Ogni tanto ricevo qualche telefonata dai parenti più stretti che mi chiedono se sto bene. Rispondo di sì, che in fondo non c’è male, ma so che loro non ci credono perché sono convinti che io soffra di una forte depressione, dovuta a qualche causa a loro sconosciuta (forse a causa di donne). La causa invece è solo da me conosciuta, ed è impressa sul mio cuoio capelluto.
Ma nessuno lo sa, perché non ne ho fatto parola con alcuno per tutto questo tempo. Non ho chiesto nessuna spiegazione a medici, scienziati dell’occulto, esorcisti o ciarlatani vari. Ancora adesso ho il dubbio se l’impronta riguarda solo il cuoio capelluto o l’osso o, come è probabile, ancora più a fondo, la mia stessa corteccia cerebrale, con innervature di insondabile profondità fino al centro dell’amigdala.
Adesso il lento trascorrere del tempo, come succede in genere durante il progredire della vecchiaia, mi ha paradossalmente reso meno ostile nei suoi confronti. Ho realizzato che mi è capitato per qualche motivo soprannaturale e, come tale, insondabile, restando il mistero del perché, su sei miliardi e passa di persone sia accaduto proprio a me… Me lo guardo, il teschio, con il piccolo specchio, di fronte allo specchio più grande, e mi sembra meno spaventoso, quasi familiare. E il suo ghigno ha assunto un’espressione un po’ stanca perdendo molto del suo originario aspetto terrificante. Anche le lagrime di sangue ora sono meno frequenti in quanto hanno assunto una cadenza settimanale, di solito il lunedì o il martedì (giornate, per altro, poco significative nel mondo esoterico).
E adesso, che sento di essere giunto alla fine della mia misera vita, ho intenzione di giocargli uno scherzo, o meglio di giocare uno scherzo all’umanità e cioè agli altri sei miliardi e passa di persone: chiederò di essere adagiato prono sulla seta della bara, in modo che la faccia del teschio sia ben in vista, con barba e baffi bianchi (cioè i miei capelli). E, al momento della riesumazione, il teschio apparirà, al necroforo, completamente girato nei confronti del corpo, facendogli sorgere dubbi sul contorcimento, che penserà che io abbia fatto dentro la bara. Cosa che può fare solo una persona che viene sepolta viva.
Forse, dopo morto, sarà aperto un appassionante caso giudiziario… Pm, Gip, Gup… Già a noi due, io e il teschio, viene da ridere (o meglio, io sorrido, lui ghigna).
Chissà quanto sarebbero capaci di capirci, loro, i giudici.
Io no, non ho capito, e non ho voluto sapere.
A parte qualche lieve imprecisione e ripetizione che saltano all’occhio, devo dire che mi è piaciuto molto. Soprattutto per la simbologia del teschio sul capo che io ho interpretato come la ‘morte’ che è parte di noi. Pensiero dapprima rifiutato, che si tenta di cancellare e, nell’impossibilità, almeno di nasconderlo. Ma rimane. E poi il trascorrere del tempo che ci rende ad essa meno ostili, quasi arresi e quindi capaci di una beffarda ironia. E spero di aver compreso correttamente il tuo intento.
Originale nella trattazione di un tema inflazionato. Complimenti!
Ciao, certo che è difficile inventare una storia del genere, se ci sei riuscito complimenti! Se il racconto è misto a verità, complimenti lo stesso in quanto noi possiamo commentare l’artista non l’uomo. saluti…
Ti dico, da vecchio lettore di Poe, che questo racconto ha stile e sottigliezza. Ben fatto!
Il commento pubblicitario di Google, appena terminato di leggere un racconto così, che reclamizza prodotti contro la caduta dei capelli fa davvero ridere e stupire su quanto il caso, a volte, sappia essere ironicamente giocoso.
Ciao