Si era svegliato di scatto. Sudato. Soffocando un urlo. Si era ritrovato ancora sotto le lenzuola fino alla vita e seduto nel letto con le braccia rigide a sorreggerlo. Il fiato grosso. Gli sembrava di aver appena affrontato tre piani di scale. Sentiva ancora il peso sul petto. Incubi.
– Strano, … io che non sogno mai! –
Fuori era ancora buio. Salvo guardò la sveglia, led rossi, quattroequarantasei. Led rossi accecanti. Si portò istintivamente il dorso della mano a proteggere gli occhi.
– Mi alzo, tanto ormai non dormo più –
Si mise in piedi piano. Lentamente e in silenzio, senza svegliare i genitori, si vestì ed uscì di casa. Nei suoi sedici anni di vita raramente si era alzato così presto, piuttosto quei colori rarefatti ed irreali che precedono l’alba li aveva visti qualche volta andando a dormire. Lo accolse un freddo frizzante, sopportabile, ma a lui pareva gelido e forse contribuiva a quest’effetto ghiaccio la fronte imperlata di sudore. Mani in tasca, spalle strette, Salvo si avviò con passi veloci ed incerti. Uno strano gambero umano. Camminava in avanti ma dava l’idea che volesse correre esattamente dalla parte opposta. Si morse il labbro inferiore, scosse la testa, sapeva che non poteva tornare indietro.
Non adesso. Aveva bisogno di non voltarsi.
Capelli castani e ricci, lunghi alcuni centimetri, occhi scuri come la notte, magro, una peluria sul volto appena accennata che non poteva ancora definirsi barba. Addosso scarpe da tennis, jeans molto vissuti e un giaccone verde da caccia anche se a caccia non c’era mai stato. Lui era un tipo tranquillo, pacifico.
Da piccolo non capiva come facessero i suoi amichetti a divertirsi torturando innocue lucertole. Le prendevano con un cappio fatto con lunghi fili d’erba, le appendevano al ramo di un albero e giocavano a colpirle con le pietre. Lui non riusciva a partecipare a quel gioco. Guardava la povera bestiola, soffriva insieme a lei, provava a farli smettere, poi si allontanava per non dover sopportare il triste spettacolo.
La sua era una famiglia semplice che viveva ai confini della povertà. Il padre faceva il manovale, il lavoro a volte c’era a volte no e quando c’era era sottopagato, in nero, senza garanzie e senza niente. Se Mimmo si faceva male erano fatti suoi. Toccava lavorare anche per persone poco raccomandabili ed attività poco chiare. Doveva spostare mattoni, impastare la calce e non fare troppe domande. La mamma era casalinga e domestica a ore per alcune famiglie giù in paese. Non era una vita facile. Una realtà per nulla rara in quel piccolo paesino del sud. Arretratezza economica e sociale fisiologica ed apparentemente ineluttabile. Salvo voleva studiare, sognava un futuro diverso ma bisognava anche cominciare a portare qualche soldo a casa. Lui, a differenza di alcuni suoi coetanei, stava diventando adulto molto velocemente. Troppo velocemente.
Una sera a tavola Mimmo gli disse:
– Don Vito ti vuole conoscere, forse è per un lavoro, vacci a parlare –
Lì intorno quasi tutto era di Don Vito. Così era cominciato tutto.
Era andato a parlarci e da allora erano trascorsi cinque giorni.
Camminò per tre quarti d’ora ed arrivò al casolare. Intorno solo campagna e macchie di verde, grigio e marrone. Una campagna brulla, arcigna, dai contorni irregolari, spigolosi. Con quella luce e la leggera foschia i campi ed il cielo a tratti si confondevano. Come i suoi pensieri. Groppo in gola, un nodo che voleva soffocarlo. Si sentì mancare il respiro e contrasse i muscoli delle tempie e del volto per combattere la vista che quasi si annebbiava. Gli girava la testa, proprio come quell’unica volta che era salito mezzo ubriaco sulle montagne russe.
– Voglio scendere – pensò.
Non scese. Non poteva scendere. Non dopo aver dato la sua parola a Don Vito.
Arrivò al vecchio casolare. Entrò in un cortile quadrato di mura bianche con una vecchia fontana al centro, poi dentro un grosso portone di legno, scambiò degli sguardi silenziosi con altre persone. Gli porsero qualcosa in mano ed una specie di larga tuta da operaio che lui indossò. Qualcuno gli diede una pacca sulla spalla qualcun altro gli fece un leggero cenno del capo.
Era arrivato il momento.
Entrò nell’altro locale, sulla destra. Gli avevano già spiegato tutto. Fece un respiro profondo, serrò gli occhi, strinse la mano destra sul coltello ed affondò con forza la lama lucida in una carne viva che non era la sua. Un colpo sferrato nel collo caldo, pulsante. Un urlo straziante gli entrò nella testa come una scheggia di vetro nella spina dorsale. Un fiotto violento di sangue gli sfiorò il viso, bagnandolo appena. Le gambe tremarono. Si mise a piangere con singhiozzi sincopati, gli sembrò di non riuscire più a respirare.
Era la prima volta che uccideva.
Era il suo primo giorno di lavoro al macello dei maiali.

 

5 pensiero su “La prima volta”
  1. racconto triste e coinvolgente.
    semplice eppure complessa la figura del protagonista, adolescente buono e fiducioso, ma già tarpato nelle sue aspettative e costretto ad accettare e vivere la realtà difficile in cui è immerso.
    duro e implacabile l’incontro con la morte, non quella ovvia, naturale, fisiologica, ma quella data che pone l’individuo dinnanzi alla responsabilità personale della scelta, sebbene forzata.
    un modo diverso per trattare la caduta di tutte le speranze e la fatica di vivere.

  2. Cupo, bello, sincopato. Ritmato dal respiro ansioso, affaticato, preoccupato, spaventato del protagonista. Finale piuttosto inatteso. Ho pensato ad un omicidio umano e non animale.
    Piero, Forlì

  3. Molto bella, tenera e crudele, come lo é, a volte, l’adolescenza. bravo.
    Sandra

  4. Mi è piaciuto molto, il finale mi ha sorpreso, lettura molto piacevole. Complimenti.
    Stefano

  5. mi sono emozionata intenso a volte crudele
    in poche righe è sintetizzata l’intera difficolta di iniziare ad affrontare da soli la vita

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