“…è l’antitesi della bellezza… mostruoso se lo incroci di notte…”
“Hai ragione. Credo che la madre, poverina, sia morta per complicazioni da parto. Un infarto. Dopo averlo visto per la prima volta. Mi fa pena. Non parla mai; quando lo incontro a stento mi saluta, e quando tento di fare due chiacchiere, lui taglia sempre corto. Quasi avesse paura di me. Che personaggio sfortunato…”
(…non è vero che lei mi saluta… come non è vero che mi da a parlare…)
“Concordo. La natura non dovrebbe accanirsi tanto contro qualcuno; forse sarà handicappato.
Sai, di quelli che girano contenti nei pulmini, aspettando che qualcuno intoni una canzone, per accodarsi al canto, ed essere felici come una Pasqua per così poco. Mi fanno tenerezza; meno male che non conosceranno mai il sesso (perché, chiaramente: chi si prenderebbe la briga di istruirli in tale campo). Ne morirebbero”…
…   …   …
“La cosa che più mi colpisce di lui, però, è quel senso di inferiorità che prova ed ostenta. È brutto a dirsi, ma dovrebbe cercare di non farseli determinati problemi. La natura si è già dimenticata di intervenire al momento della sua nascita, poi se se lo fa pesare così tanto?! Dovrebbe essere più positivo e vedere la vita sotto un altro aspetto. Se continua con quel suo modo di fare, finirà da solo. Chi vorrebbe essere amico ad una persona, che non fa altro che piangersi addosso tutto il tempo, a causa di un qualche problema estetico?
A volte è in contrasto con quell’alone di normalità che, faticosamente, sta cercando di guadagnarsi, uscendo di casa, facendo i suoi acquisti come una persona normale. Butta al vento tutti i suoi sforzi. Non dovrebbe fare così”…
(…scusatemi signore, se mi impegno poco a vivere una vita normale, così come sono, ignorato da tutti… preso in giro dal fato, e dalle vostre ipocrite bugie, sostentamento per un’isterica coscienza…)
“Ecco! Quello che ha di estremamente spiacevole è l’essere inopportuno sul pianeta Terra. Stona, se paragonato all’armonia del mondo in cui si ostina a vivere!”
“Si, è vero! Inopportuno come Arlecchino ad un funerale…!”
Il povero nano ascoltò tutta la conversazione. Era naturale che succedesse. Le pareti erano poco spesse, e le voci, amplificate dall’eco della tromba delle scale, quasi urlate. Quelle due donne lo consideravano un Arlecchino ad un funerale, vestito di rombi colorati e di sorrisi facili, carnevaleschi. Una maschera caduta dal cielo, in un cimitero, per osannare una felicità fasulla e per stravolgere i luttuosi gesti reverenziali dei partecipanti al funerale, macchiandosi del peggiore delitto: il cattivo gusto.
Lui di certo non si vedeva così. Ammetteva di essere anormale e fuori contesto, rispetto al resto della popolazione. Ma proprio non riusciva ad immaginarsi vestito come un burattino saltellante, con un bastone di legno in mano, da picchiare sulla testa altrui. Chi accetterebbe mai un saltimbanco gobbo e nano.
C’era qualcosa di terrificante in quell’immagine!
Lui si sentiva più come un applauso appassionato, nato al momento sbagliato, in un teatro vuoto. Non avrebbe suscitato neanche nervosismo, dato che nessuno c’era ad ascoltare o a recitare.
“Forse è meglio non pensare a certe cose”
Gli piaceva parlare da solo. Era sicuro di essere ascoltato. Non come quando andava al supermercato, verso l’orario di chiusura, quando le cassiere, stanche e sfinite, non rispondevano neanche ai saluti. A volte tentava di intavolare con loro piccole  conversazioni, anche di circostanza, proprio come facevano molti altri clienti abituali, sperando di poter parlare con un’altra persona. Ma loro non lo guardavano nemmeno. Battevano sulla cassa il conto, davano il resto se ce n’era bisogno, e si giravano dall’altra parte.
Non lo trovava frustrante o umiliante, ma solamente triste.
Sapeva di provocare spiacevoli reazioni e sensazioni nella gente quando si mostrava in pubblico, ma era pur sempre un essere umano. Almeno per pena, qualcuno poteva rivolgergli la parola. Anche uno motteggio sarebbe stato meglio dell’indifferenza che mascherava la ripugnanza provata dalla gente.
Purtroppo era così alienante la sua situazione, da incutere una sorta di reverenziale imbarazzo nel prossimo. Allora le persone non potevano far altro che ignorarlo, evitarlo. In tutto e per tutto. Imbarazzava più degli altri disabili. Forse proprio per quella sua voglia di essere accettato. 
“Mi trovano orribile, quindi una qualche reazione la provoco. Perché non mi manifestano almeno questo! Se il destino mi avesse assegnato il ruolo del mostro, lo accetterei più a cuor leggero, che questa falsa indifferenza. Guardatemi come guardereste la vostra merda nel cesso, ma guardatemi.
Prendetemi in considerazione…” 
Aggirandosi per la cucina poneva rimedio al poco disordine che aveva creato pranzando da solo, come ogni giorno.
Buttò l’unico piatto di plastica nel sacchetto dell’immondizia (che non sarebbe mai stato pieno come quello dell’inquilino che abitava al piano di sotto; quello che aveva quattro figli; quattro diverse voci da ascoltare, escludendo la sua e quella della moglie); lavò l’unico bicchiere che aveva usato, insieme alla forchetta ed al coltello. La padella finì nella lavastoviglie (comprata grazie agli incentivi statali per gli invalidi).
Prese i cuscini che metteva sulla sedia per arrivare al livello del tavolo, e li riportò sul divano.
Si fermò a pensare che anche gli oggetti che aveva acquistato per la sua casa gli urlavano contro quanto la sua condizione di solitudine fosse scarsamente presa in considerazione, non costituendo un motivo valido per l’attenzione altrui.
“Loro mi ignorano a tal punto da non volere neanche la soddisfazione di farmi pesare tutto questo. Anormale ed indesiderato, a tal punto da dover condividere la mia vita solo con me stesso. Nessuno il giorno che andai a comprare i bicchieri, mi disse ”perché ne prendi sei, a cosa ti servono? tieni, puoi prenderne uno solo”.
Neanche coloro che erano considerati i cattivi, le persone che ridevano facilmente di mutilazioni, sedie a rotelle, espressioni stupide e scarsamente intelligenti, lo trovavano interessante. Non lo vedevano come materiale stimolante su cui ricamare infami considerazioni, o motteggi calzanti. Non era nemmeno divertente, quella sua anormalità.
(quanto avrebbe desiderato essere un nano da circo… esibirsi al centro della pista… farsi pisciare in testa dall’elefante… far ridere le persone per quella sua sfortunata condizione…)
Ed invece era ancora lì, solo.
Doveva andare al bagno.
La stanza da bagno era grande per lui, come il resto di quella casa normale. Per questo aveva escogitato, in tanti anni di solitudine, degli espedienti che lo facilitavano nell’espletare i suoi bisogni corporali. Ad esempio, orinava in un bicchiere e poi lo riversava nella tazza; questo perché in passato era capitato che, a causa della gobba e della sua statura, non era riuscito a calcolare bene la parabola del flusso, che aveva finito per inondargli il viso. Ora, però, doveva defecare.
Salì i tre gradini della piccola scala che usava anche quando doveva lavarsi il viso, e si sedette sulla tazza. Nel silenzio e con le piccole braghe calate, osservando le sue piccole gambe che accarezzavano l’aria al di sotto delle suole delle sue piccole scarpe, ebbe una sorta di illuminazione.
Per evitare di finire quelli che erano i suoi deprimenti giorni nell’indifferenza, l’unica cosa che poteva fare era attirare l’attenzione su di sè almeno per una volta. Se non lo accettavano con le buone maniere, che la sua mansuetudine e la sua disperazione gli avevano concesso, almeno per una volta nella vita, avrebbe usato le maniere forti.
Doveva solo decidere come fare. Come mettere di fronte alle sue responsabilità un mondo che eludeva ormai da anni l’evidenza del fatto che anche lui esisteva. 
Si pulì con un leggerissimo sorriso sulle labbra.
Sembrava, quasi, che le cose andassero già meglio. Una forte decisione sposata alla consapevolezza.
Una ricetta vincente per il cambiamento.

E fu così che una mattina di settembre esplose raggiante e splendente, decisa a rimanere tale almeno fino a quando sarebbe stato possibile. La gente della cittadina era contenta. Sicuramente la sfilata dei carri allegorici durante la processione per il santo patrono sarebbe stata un successone.
E poiché questo era una dei rari momenti d’evasione e di svago che rompevano la monotonia della provincia, una speciale energia nacque, insieme al sole, quella mattina. I preparativi iniziarono da subito. I vigili urbani chiudevano le strade al traffico, affannandosi nel trasporto delle transenne; i trasportatori della statua del santo si riunirono in parrocchia al cospetto del prete, e delle sue evangeliche raccomandazioni, e ripetitive benedizioni.
Le donne che non erano indaffarate a cucinare per le enormi tavolate in piazza, stavano a casa a dannarsi per non aver pensato prima alla loro cura estetica. Così si dava il via, nell’universo femminile, a tutta una serie di procedure per il miglioramento estetico, tramandate da generazione in generazione.
Gli uomini, i vecchi ed i bambini, erano tutti in piazza. Si discuteva dei carri favoriti per la vittoria del contest annuale. C’era chi dava pronostici, a detta sua, sicuri; chi dissentiva con tutti per il solo gusto di portare avanti la discussione, fino a limiti che sfioravano la rissa. Ed infine c’era chi assisteva a tutto ciò bevendo. Vino bianco o rosso, birra o liquori. L’importante era stordirsi per celebrare, più che il santo, l’occasione. In quel giorno non c’era lavoro, e se pure c’era qualcuno che si affaticava per portare a termine le proprie faccende, lo faceva a cuor leggero, senza fatica, sapendo che gli sforzi sarebbero stati premiati con la splendida giornata che si stava preparando.
Era qualcosa di più, che una semplice sagra paesana. Era l’occasione per gli adolescenti di baciare per la prima volta una ragazza. Era l’occasione per vedere la propria moglie bella quanto mai (aiutati, magari, dall’ebbrezza del vino) e correre a casa per un’ora d’amore. Era un’occasione buona per l’anziano a cui piaceva narrare aneddoti di un lontano passato, per essere ascoltato. Era un momento di pausa da quella che era una routine quotidiana tremenda, e noiosa. Così tutti si impegnavano per rendere indimenticabile questo giorno. Almeno fino all’anno venturo.
Dopo il rituale della messa, e l’uscita della statua dalla chiesa, partì il cordone dei carri, seguito dalle personalità locali e da chi partecipava alla processione. Gruppi di boy-scout, veterani di guerra, il circolo delle signore, il consorzio dei commercianti. C’era di tutto in quella parata. Inoltre, come era logico fosse, ai lati del corteo, c’era la folla festosa e copiosa.
Risa ed urla dappertutto, mischiate alla musica della banda, conferivano all’evento un genuino senso di felicità e spensieratezza, che nessun sano di mente, avrebbe cercato di distruggere, e ne tanto meno turbare. In questo clima carnascialesco, il corteo proseguiva per il suo percorso tradizionale, rimasto invariato dalla notte dei tempi, annunciando il suo arrivo già parecchi minuti prima.
Il nano aveva preparato tutto per l’occasione. Era previdente. Aspettò ancora un po’.  Quando fu sicuro partì correndo verso la finestra spalancata. Le gambine mulinavano in una corsa ossessiva, che terminò con un salto. Sorpassato il davanzale fu nel vuoto.
Cadde per qualche secondo, poi la corda legata ad un piede del tavolo raggiunse la sua massima estensione, e strinse il cappio intorno al suo piccolo collo. Non emise alcun suono; strabuzzò gli occhi e si accorse della splendida giornata. Il corteo, in un primo momento, non si accorse del suo gesto, confuso com’era dai festeggiamenti, e lo scambiò per un fantoccio di pezza, lanciato nel vuoto da qualcuno in vena di atti goliardici. Il nano lo capì. Una lacrima gli rigò il piccolo volto, accompagnata da un unico pensiero
…mio Dio perché sei stato così crudele con me? anche nel momento della mia morte? Guarda che bel sole… è quasi un peccato che illumini il turpe frutto che hai creato. Così maldestro da non riuscire a scegliere il momento giusto nemmeno per morire…
il respirò abbandonò per l’ultima volta il suo corpo deforme. La sua anima si librò al cielo mestamente, così come il suo corpo aveva attraversato la vita.
Quando la folla si accorse di ciò che in realtà era successo, era passata quasi l’intera giornata.
Naturalmente fu troppo tardi… tardi per tutto.

 

4 pensiero su “Il Nano”
  1. racconto bello e disperato, descrizioni precise e studio delle situazioni accurato.
    mi hai dato da pensare.
    ho conosciuto tre persone con le caratteristiche fisiche descritte, ma non ho mai colto in loro la tragedia.
    uno era un insegnante di storia dell’arte, colto e preparatissimo, affascinante da ascoltare; uno è uno dei migliori amici di mio figlio; il terzo era un uomo con gli occhi azzurrissimi che incontravo casualmente quando mi recavo al supermercato….

  2. grazie anna.
    grazie soprattutto perchè questo è il primo racconto che ho scritto,e ci tengo moltissimo.
    grazie ancora…

  3. Avevo definito il tuo stile incisivo e tagliente, basandomi su quel poco che avevo letto in precedenza.
    Stasera ho scoperto l’intensità di cui sei capace.
    Il tuo racconto accarezza sapientemente il grottesco, ma gronda umanità, gronda lacrime.
    “L’applauso appassionato, nato al momento sbagliato, in un teatro vuoto” è un’immagine splendida.

    Vale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *