“La Bambola rossa di Gina, da un mese in un angolo sta…
perché la sua cara mammina non viene a cullarla di là?
Ha forse un balocco migliore,
Un nuovo giochino, chissà…”

Il buio della soffitta le ha chiuso la porcellana delle palpebre da un’epoca arcigna e affabulatrice.
Un sipario d’adolescente prima e adulta poi, ha fatto scempio di tutti i suoi sogni.
Nell’immobile postura trascorre le nobili Lune virando su di filtro astuto, che strema e castiga sino alla giuntura serrata degli arti.

I giorni uguali, scialbi, pieni di noia e d’avversione a tutto, strisciano via lentamente tra le sfere di buio, in una leggerezza infinita.
Rimane solo l’errore della notte, dalla quale è difficile sottrarsi.
L’esaltazione di Esbat acquieta il senso del giorno spietato.

Rimango sveglia con la mia Bambola tra le braccia, che per vocazione non ha bisogno di dormire.
Non le ho detto una parola, dei miei tremendi cicli e del canone inverso a voler partire.
Eppure avverto la scelta intrepida di sottomissione passiva, l’umiliazione da vecchio ninnolo, d’inutile orpello da scansia.
La coccolo e la accarezzo, chiedendomi se avesse notato qualche emozione regia, propiziatoria.
Un cambiamento.
La congiunzione che si possa interpretare come reazione cangiante al vapore etereo emerso dietro le coltri del mio addormentamento figurato.

Il desiderio è attenzione ed io ne ho estrema cura.
Le lenzuola del letto sono così sgualcite.
Infondo sono passate migliaia di notti da quando io e Lei ci siamo incontrate ed è sfumato il sottile confine di sostanza, su simbiotica esangue metamorfosi.
Il suo viso intenso da Venere occulta a guida del carro prosperoso di una scia fluttuante di fulmini e di stelle, nel cielo notturno che si adagia e dispone su di me.
Tutto questo bagliore che si china sul mio letto potrebbe essere un modellino in scala di un cielo estivo prima del temporale.
Piccoli diamanti artificiali sono sparsi sulla mia camicia di mussola scura.

Distesa, la guardo nella sua veste candida stretta sino alla vita e poi giù che si allarga e ondeggia in una ruota di sangalli.
Il suo viso è una sorpresa di colori, carichi e disegnati.
La curva dolce e inespressiva su cui alitare il senso della vita ed attendere che prenda forma l’abracadabra del fiabesco genio della lampada, nell’osmosi ricercata di identiche e combacianti simmetrie.
La pelle è un sacco rosa attorno ai contorni delle labbra amarene di lampone.
I globi, miniature trasparenti, trafitte di finissimo smeraldo.

Siamo noi due sole.
Isole scomposte, laghi gemelli, tasselli a incastro nell’antro di birichine iniziazioni partorite in sporgenze illuminate.

Spalanco gli occhi per ritrovare la soave melodia di una bella canzone, l’unico grappolo di note in questa stanza inzaccherata di boleri.

La stringo forte, rendendomi conto che ogni gioco svela il suo codice doppio.
Scambio binario d’opposto proibito.

La Bambola ha la foggia di chi danza alla dogana dell’essere.
Sto cercando di sostenere il suo sguardo apri/chiudi credendolo umano, e soffiarvi dentro il candore della luce e la forza della vita.
Sopravvivere allo scambio di materia e disegnarla di lacrime e segreti.

Rievoca la circoncisa corona fulva di me principessina d’allora.
E torno punto e a capo, dal perlage a grana persistente, stinto al mio vivo e caldo di vene e sangue martire, costretto nell’epitelio triste che solca gli anni e scanala i ricordi.

Il caldo aumenta ad ogni passo, come infiammato presagio di una precipitosa caduta della grande sfera di fuoco. Fusa e incandescente
Fulminata dagli occhi di giada apro la bocca per intonare un verso.
Affascinata dal rivolo umido del suo sorriso, perpetuo la statura imponente, consolata da gambe leggermente aperte, egemoni su due natiche perfette.
Lei scoppia a ridere flettendo il collo di velluto su quelle pieghe di soave entità che calamitano falangi e note umide di stupore.

Torno a vivere il mio gioco in una condizione senza tempo, nel solstizio celeste che mi riconduce all’estasi di moine corroboranti, nel tropico miraggio di una notte di fine estate.

In piedi e curva contro di lei, non mi muovo.
Alzo la testa e vedo riflessa nell’enorme specchiera di vetro, l’iperbole femminea delle ciocche vermiglie, impazienti e scarmigliate sulle mie ginocchia nude.
Guardo la schiena che traspare dal vello, la forma rotonda dei fianchi, le caviglie docili a sgambettarsi il vuoto, sospese a un palco che specchia il pavimento, nella volitiva attesa di due labbra a risalirle piano.
Squisitamente rorida, sta sublimando le membra in balsami di porosa insurrezione, nel segno gravido di un nido vergine che ho eletto a grembo di ogni mia ispirazione muta.
La sequenza golosa proietta, si amplia e oscilla felice.
Come in un gioco, Lei gira la testa e mi guarda, con le sue labbra disegnate in curva di cuore.
Senza rumore.

Mi comporto come se non ci fossimo mai lasciate.
Sono talmente sveglia e premo le dita tra le gambe, desiderosa pubere, per sostentare la combustione sotto la pelle.

La pellicola membranosa si è fissata su un complesso inestricabile di balocchi, apologhi e gingilli sistemati sui ripieni delle pareti.

Lei non è più la stessa e per la prima volta apre uno sguardo concreto sull’ambiente.
Come cercando qualcosa, visibilmente stupita.
Io conosco tutte le sue mimiche, nei gesti e nelle confutazioni.
Sorride impercettibilmente sussurrando una sete che sento crescere.

La tisana dolce versata nel bicchiere schizza impazzita e mi unge le gote.
Come una bimba costumata e inquieta, mi attacco alla cannuccia senza lunghezza né spessore, nell’inganno olfattivo del suo odore edulcorato, sulla scollatura aperta di un seno appena contornato.

Il suo corpo caldo e pieno si riconosce nel mio e sotto questa alterazione il mio abbraccio cambia, di spregiudicata sorte.

Lei ora ha idioma, slingua parole in fila, parla e svela.
Il quarto segreto di Fatima, concesso a cottimo in visibilio.
Posa le mani sui miei fianchi e giù, fino a leccare l’odore di nessuno con la testa pigiata contro il fresco cotone del cuscino.

Nella foga che scalza l’affetto, il lungo frego davanti al talamo è divenuto fradicio e smorfioso, come una pezza di feltro sfilacciato.
Nei quattro angoli azzurri, si agita e scuote le onde ramate dietro ai globi, planisferi di perle ad illuminarle candidamente il viso.
Attenuo la voce per restituire la nenia della buonanotte, salmodiata in esclusiva per lei sola.

Mi arriva forte di bora, travolgendo il muro delle mie certezze, sotterrando sotto strati di decibel appena sussurrati ogni definizione di supplizio.
In un’ondata crescente di sdegno invoco il colpo di grazia e m’è dentro, di dita e pensieri, di combaciante senso e di perversa arte, nell’orgasmo avulso d’ali convesse, nel serrare d’anche intorno a un’alleanza cantilenante e mai placata.

Un letto sfatto di noi, spiegato di memore notti senza confini di pelle, nell’immaginario viversi d’identificato oblio, nel reciproco perdersi, nel vicendevole cercarsi, nell’univoco struggersi d’Amore infinito.

Eterno supplizio!
Amiche infami, ladre baccanti d’ombrosi recessi pieghiamo le mani a coppa per racchiudere e bere la scabrosa ossessione.
Di miele fedele.

E’ l’ora di dormire.
La carica fantastica svaria in composizioni notturne ordite di un calore grato.
La Bambola mi giace accanto, nello statico bagliore di un rivolo d’Incanti.

L’oscurità scende come un sontuoso abito da sera.
La cerimonia di cui si veste il mondo, in millimetrici rammendi di regale e lussuoso manto.
Non si riesce mai a ricucirlo tutto.
Del resto, la notte è troppo grande.
Non si può sfuggire al destino che seduce ogni forma di rincorsa.
Lui corre davanti a te, precedendo un decorso che non si lascia espiare.

Nel fascino ludico che si rivela ambivalente, l’oracolo schiude l’incedere acquietato di profughe flore.
L’allure elegante e commosso di due Lune inverse, elette al rango, di Dive Celesti.

“…Le Bambole vi guardano, hanno voce gli occhi d’alabastro e la fissità diventa aorta che nutre il ricordo di bambina e le cantilene mantra infiocchettate nelle trecce.
Qualcuno le ha dimenticate sul ciglio di una soffitta.
Hanno scambiato i fili delle stelle per altalene gioconde e sorridono al nulla che le invade l’inesistente anima.
Amano, chi può dirlo?
Eppure i vecchi compagni giurerebbero ancora di vederle danzare in un girotondo candido di tutu’ a ruota di sangallo.
Sono solo storie malate di occhi dispersi sul diadema luminoso di succulente diamantine, il lancio bizzarro di una manciata di scintille.
Cipria dorata, di polvere di Stelle…”

con Garbo,
Divina.

di Greta Rossogeranio & DivinaFollia

 

2 commenti su “Di Bambole e Incanti”
  1. Qualche scrittore dice: colui che scrive lo fa perché dentro di se ha un disagio; io penso che, chi si racconta, ha voglia e lo sa fare, é perché a malapena, riesce a tenere a bada la sua fantasia, data da un mix di realtà e sana follia. Molto bello. Sandra

  2. Si aupica che ogni commento espresso sia meditato. Il “tanto per dire” è -a malapena- una smania d’isterismo letterario che personalmente non mi curo di -tenere a bada-.Grazie, Greta

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