Il lunedì mio fratello faceva allenamento.
Giocava in una piccola squadra di calcio allenata da un collega di mio padre.
Papà lo accompagnava quasi sempre e portava anche me.
Io ero il più piccolo, avevo sei anni. Marco, mio fratello ne aveva undici.
Era bravo, ricordo….
Io e papà sedevamo sulle gradinate attorno al campo e parlavamo. Il più delle volte gli raccontavo delle avventure che facevo vivere ai pirati, sempre impegnati a sfuggire dal commodoro e dai suoi gendarmi.
Lui rideva. Mi suggeriva scappatoie, e nuovi spunti per le mie avventure.
Mi aveva regalato il vascello dei pirati, l’isola del tesoro, il galeone dei gendarmi, l’isola con la prigione ed il castello… tutto da montare con i mattoncini lego… era un ingegnere appassionato di storie di pirati.
Uno di quei lunedì, e precisamente il secondo di marzo del 1990, come consuetudine ci venne a prendere e ci portò all’allenamento.
Mio fratello Marco a stento lo salutò. Io non ci feci caso. Non lo vedevo da più di una settimana, e la sua sola vicinanza mi rendeva felicissimo. Tanto felice, da non pensare al perché di quella sua lontananza. Mi era stato detto che era fuori città per affari. A me andava bene come spiegazione per la sua assenza. E poi mitigavo la malinconia col pensiero di tutte le cose che gli avrei raccontato quando lo avrei rivisto.
Insomma la diatriba fra pirati e gendarmi aveva continui sviluppi.
Così salii in auto, allacciai la cintura e lo salutai.
Lui fece lo sguardo arcigno, imitazione del pirata Joe, il nostro personaggio preferito, e mi disse:
“Sei pronto per prendere il largo, mozzo?”.
Io risi. Come fa un bimbo di sei anni…..
Mio fratello era seduto dietro. Cercava qualcosa nella borsa. Non ricordo cosa.
Mio padre gli chiese: ”Come sta la mamma, Marco?”. Lui rispose a mezza bocca ”Bene”.
E quella fu la fine della loro conversazione.
Mi insospettii.
Pensai che forse Marco avesse fatto qualcosa di male, quindi non voleva parlare con papà, magari per non innervosirlo. Ma non ricordavo nessuna sua marachella recente.
Poco male, mi dissi. Papà parlerà per tutto il tempo con me.
Ero felicissimo. Anche perché quando iniziava a parlare con mio fratello di calcio, era difficile che la smettessero prima di un’ora, ed io dovevo starmene zitto, perché all’epoca poco ne sapevo di sport. Non che ora la mia preparazione circa l’argomento sia migliore….

….arrivammo al campo dove si allenava la squadra di Marco.
Scendemmo dall’auto. Papà mi aiutò a scendere, mi sistemò il maglione, i jeans sulle scarpe e mi diede un bacio sulla guancia. Io ricambiai, e quasi mi sentivo esplodere il cuore….
Salutò il suo collega. Enzo era un ingegnere come papà ed aveva una forte passione per il calcio.
Si conoscevano dalle scuole superiori.
Enzo lo abbracciò, e non disse nient’altro. Si piegò sulle ginocchia e mi diede un bacio anche lui.
Poi si alzò, si sistemò la tuta, e partì di corsa con mio fratello verso il campo.
Marco continuava ad essere triste…
Pensai alla mamma.
Anche lei era stata triste in quei giorni. Girava per casa e di continuo puliva tutto: i mobili, i pavimenti, i vetri delle finestre, la cucina…. sembrava non volesse mai fermarsi….
Io ci avevo fatto caso, ma pensavo che anche lei sentisse la mancanza di papà.
Marco, invece, l’avevo visto poco. Era andato sempre più spesso agli allenamenti di calcio, a studiare dagli amici, e quando era stato in casa, era rimasto chiuso nella sua stanza.
Io come sempre continuavo a patteggiare per i pirati, che intanto avevano continuato ad accumulare oro nell’isola del tesoro. Erano, però, pirati buoni: quando incontravano qualcuno che aveva bisogno, qualcosa la davano. Non tutto, però. Avevano anche loro delle famiglie a cui pensare.

Mio padre si stiracchiò. Era meno alto di Enzo, ma comunque per me sembrava un gigante.
Mi prese per la mano, dicendo: ”Vieni, andiamo a fare un giro”.
Ci allontanammo dal campo. Camminammo per un po’, mano nella mano.
Poi papà disse: ”Ti va se ci sediamo un po’ lì?”.
Mi indicò una panchina.
Io feci di si con la testa. La panchina era vicina al chiosco dei gelati, e si affacciava sul laghetto artificiale in cui nuotavano i pescigatto, che mi facevano tanto ridere. Gli alberi creavano attorno alle rive di sabbia una sorta di cappa verde, che attenuava il passaggio dei raggi solari. Si creava un’atmosfera simile a quella che immaginavo quando pensavo all’isola dei miei pirati. Lo dissi a papà e lui rise. Ci sedemmo. Lui mi passò un braccio attorno al collo e mi strinse a sé.
Rimanemmo in silenzio per un po’. Il suo respiro mi colpì…. era diverso. Veloce, sibilante, a volte simile ad un rantolo. Pensai che era simile al mio, quando non riuscivo a dormire, perché avevo paura di qualcosa in agguato nella stanza. Non era il suo solito respiro: calmo, regolare.
Papà mi chiese: ”Lo vuoi un gelato?”
“Si, papi. Stavo per chiedertelo io….”
“Ahahahah! Che peste che sei!”
Prese il portafoglio dalla tasca interna della giacca, ne tirò fuori una banconota da dieci e me la porse. Io feci per prenderla, ma lui mi fermò e mi disse: ”Piccolo, queste sono diecimila lire… se un gelato costa mille e cinquecento lire, quanto ti deve dare di resto il gelataio?”.
Mi fermai a pensare, imitando inconsciamente il suo atteggiamento che tante volte avevo visto quando lavorava a casa: alzai leggermente il viso, spostando lo sguardo verso destra, fissando qualcosa, forse la risposta ai miei quesiti.
“Ottomilacinquecento lire!”, dissi dopo un po’.
Lui sorrise, mi diede un altro bel bacio e mi mandò a comprare il gelato.
Presi un cono cioccolata e limone. Il gelataio disse: ”Giovanotto ma sei sicuro?”, ed io feci di si con la testa. Lui rise, e guardando mio padre disse: ”Dottore ma sa cosa m’ha chiesto vostro figlio?”
Papà ridendo anche lui gli rispose: ”Mio Dio, non so come spiegarglielo che è un accostamento disgustoso… ma a lui piace, e allora…”. Io in mezzo a tante risate, ci misi anche la mia.
“Tieni giovanotto… e non sporcarti, mi raccomando”.
Mi allontanai dal chiosco. Ritornai a sedere vicino a papà.
Mangiai il gelato con tutta la tranquillità tipica d’un bimbo, attento a non sporcarmi, assaporando il limone ed il cioccolato, prima mischiandoli, poi separatamente. Papà ogni tanto mi guardava e sorrideva.
Alla fine non mi sporcai. Ed ero fiero. Non c’era bisogno di farlo notare a papà, sapevo che lui aveva occhio per queste cose.
Appallottolai il fazzolettino di carta e lo misi momentaneamente in tasca, pronto a buttarlo nel primo cestino, come mi aveva insegnato la mamma.
Fu allora che mio padre iniziò di nuovo a parlare.
“Piccolo cosa hai fatto in questa settimana?”
“Sono andato a scuola, ho fatto i compiti, e ho giocato… sai il pirata Joe forse diventa capitano…. sta progettando un ammutinamento”
“Se diventerò capitano, doppia razione di rum per tutti!”
Mio padre era un pirata credibilissimo, e così scoppiai a ridere.
Lui si unì a me.
“Come sei stato senza papà?”
“Mi sei mancato, papi. Però sapevo che tornavi, e quindi non ho pianto. Anzi ero un po’ contento, così potevo dirti più cose sui pirati…”
“Allora se partissi per un mese, tu non ci rimarresti troppo male? Se sapessi che ritorno, non piangeresti?”
“Ma perché devi ripartire già, papi?”. Mi sentivo all’improvviso triste. Come, pensavo fra me e me, è appena tornato e già riparte?
“Forse”, si limitò a rispondere.
“Ma perché il tuo lavoro non lo puoi fare qui?” domandai.
“Sai piccolo, ci sono alcuni lavori che papà non può fare qui… deve per forza andare lontano…”
D’improvviso mio padre si rabbuiò. Era come se non fosse più lì vicino a me, ma in un altro luogo.
Un luogo dove si è già stati, e a cui non si vuole più tornare…
“Ma se tu non ci vai che succede?”
“Ricordi il discorso sul momento del no e del si?”
“Si papi…”
“E cosa dice?”
“Ci sono dei momenti in cui si può dire di si, altri in cui si può dire no. Però ci sono anche dei momenti in cui si vuole dire di si, ma si deve dire per forza no, ed il contrario. Come quando io ti chiedo dei nuovi giocattoli, però tu dici che non è il momento, perché devi pagare le bollette. Non è che non me li vuoi regalare, è che hai delle priorità diverse, più importanti”.
Ero di nuovo fiero di me. Avevo usato un termine come priorità, di cui non conoscevo pienamente il significato, ma che avevo sentito spesso usare da lui… e anche papà era fiero per quel fatto.
“Bravissimo. Sei un portento. Hai capito perfettamente. Vedi io ora ho delle priorità, che mi impongono di dover stare lontano da voi: da te, da Marco e dalla mamma. Io non vorrei, ma devo farlo. Per forza. Però devi sapere una cosa…”
“Cosa papi?”
“Non è per lavoro che devo andare via… è per un altro motivo.”
“Quale papi?”.
Si alzò dalla panchina e si tirò su i pantaloni… sembrava dimagrito. Nonostante la cintura i pantaloni continuavano a scendere. Si girò verso di me, dando le spalle al lago artificiale. Mi fissò per un attimo: un bimbo di sei anni, suo figlio, seduto su di una panchina, che lo osserva e aspetta.
Aspetta una risposta.
“Piccolo, cosa credi succederà al pirata Joe, se fallisce nell’ammutinamento?”
“Il capitano dei pirati lo darà in pasto ai pescecani… oppure lo metterà in prigione… ancora non si sa.”
“Piccolo, credimi: se Joe fallisce verrà dato in pasto ai pescecani. Il capitano lo farà salire sulla passerella e con la spada sguainata lo spingerà in mare… sai, serve d’esempio per gli altri pirati che vogliono fare i furbi.”
“Si papi… se lo dici tu”.
“Bene. E tu sai cosa succede quando si è dati in pasto ai pescecani, no?”
“Si loro ti mangiano… ti inghiottono e tu finisci nella loro pancia… non come Pinocchio, però: i pescecani sono più piccoli di una balena!”
“Si, è vero…”. Mio padre sorrise leggermente. Poi si girò verso il laghetto. Fu un istante: una rotazione fulminea del torso, che corrispose ad un secco colpo di tosse.
“Ma tu capisci che non è vero che se ti inghiotte una balena, puoi continuare vivere dentro di essa, come se fossi chiuso in una casa?”
“Si papi… ma credi che sono scemo?”
“Ma no piccolo… non dico questo. Intendo dire: sai cosa succede se un pescecane, una balena, o chissà quale altro animale, ti mangia?”
“Si papi: si muore.”
“E sai cosa significa?”
“E’ come dormire sempre. Tu stai così sotto terra e non ti svegli mai”. Mimai la posizione dei morti nelle bare, stendendomi di lungo sulla panchina. L’avevo visto fare ad un mio amichetto a cui era morta la nonna. Lui per caso era riuscito a vedere la bara aperta, e ci aveva spiegato tutto quello che c’era da sapere sulla morte. O almeno: tutto quello che un bimbo di sei anni può capire della morte. Per noi era stato divertente assistere a quella scenetta.
Mio padre questa volta non rise. Si limitò ad annuire. Ma non a me, credo a se stesso. Aveva forse valutato sufficiente la mia conoscenza circa l’argomento, e pensava di non dover aggiungere altro.
“Però devi sapere una cosa. Non si muore solo perché si viene mangiati da un animale”.
“Lo so papi. Si muore anche quando vieni buttato sotto da una macchina, quando ti sparano, o quando cadi giù”. Queste cose le sapevo perché guardavo la tv, guardavo i film in videocassetta.
Spesso nascosto dietro lo stipite della porta, quando mamma e papà mi credevano già a dormire.
Loro seduti sul divano in soggiorno ed io nascosto dietro lo stipite della porta, in piedi, senza ciabatte, per non fare rumore.
D’inverno mi si ghiacciavano i piedi, e spesso ritornavo a letto dopo poco. Ma in estate…quando c’era la rassegna horror in seconda serata… ero sempre lì: aggrappato allo stipite, pronto a tapparmi le orecchie e a chiudere gli occhi nei momenti di maggior paura. Ero un bimbo abbastanza intraprendente e curioso, anche se per la paura la maggior parte delle volte mi trovavo costretto a cercare rifugio nel lettone con i miei genitori.
Papà mi dava la mano e mi sussurrava all’orecchio: ”Non ti succederà nulla, dormi…”, fino a che non ci addormentavamo quasi sempre insieme.

“E’ vero, si muore per un sacco di sciocchezze…”, sussurrò mio padre, ma io lo sentii ugualmente.
“Sai si muore anche perché a volte il tuo corpo si ammala. Sai cosa sono le malattie, no?”
“Si papi. Io prendo sempre la febbre d’inverno, però non muoio perché tu e mamma mi date lo sciroppo”.
“Ma no, che dici! La febbre non ti fa morire. O almeno non quella che ti viene quando giri a piedi scalzi, o ti levi il cappotto… quella è normale. Forse è anche piacevole, visto che salti la scuola, eh!”.
Scoppiai a ridere. Era vero. Durante l’inverno passavo sempre almeno un paio di settimane a casa febbricitante. Allora mamma mi faceva indossare la vestaglia di flanella, i calzini di lana, e stendeva un plaid a terra. Io giocavo sul plaid, e così non pensavo alla gola arrossata, o alla testa dolorante.
Era bello essere coccolato, e sentirsi chiedere sempre come stai…
“Le malattie di cui parlo io sono più gravi. Sono malattie che rendono il tuo corpo debole, tanto debole che a volte non ce la fa più, e allora muore. Inizi a dormire e non ti svegli più”.
C’è da dire che io adoravo parlare con mio padre. E ancora di più adoravo il suo spiegarmi i fatti della vita. Il suo era un modo semplice di parlare, ma che allo stesso modo ti faceva capire che quegli argomenti erano importantissimi e, che in quel momento, non eri solamente un bimbo di sei anni, ma una persona. Una persona che doveva imparare, perché un giorno ti saresti ritrovato nelle situazioni più disparate, fino al punto di dover insegnare anche tu in quel modo. E quindi era un bene sapere come rivolgersi alle persone d’ogni tipo, di tutte le età. E poi io ero suo figlio, e lui voleva che io fossi sempre messo al corrente di tutto. Diceva che anche se poco più che un bimbo, dovevo partecipare alle scelte della famiglia, o almeno a quelle che mi avrebbero coinvolto direttamente. Anche senza un grande potere decisionale, per me era prevista almeno la piena consapevolezza. Tutto ciò che c’era da sapere, lui la tramutava in insegnamenti validi e facili da assimilare per un bimbo. In questo era bravo.
Quando avevo iniziato a sviluppare una passione insana per il calcio ai piccioni, lui mi aveva spiegato che anche i piccioni soffrono, anche se non piangevano come me quando cadevo, o mi sbucciavo un ginocchio. Da allora i piccioni mi sono sempre stati simpatici. Anche il loro irrispettoso scagazzare lo prendo con filosofia: è una vendetta per tutti i calci presi dai bimbi.
Però c’era una cosa che ancora non capivo.
Per quale motivo mio padre mi stava parlando delle malattie e della morte.
Di solito quando affrontavamo quel genere di discorsi c’era sempre un motivo, una causa scatenante a cui dovevo essere preparato. Così glielo chiesi.
“Papi ma perché parliamo delle malattie? Qualcuno è malato?”.
Mio padre non rispose. Forse in quel momento capì che aveva sbagliato tutto.
Il suo modo di trattarmi come una persona al suo pari, stava iniziando a fare acqua da tutte le parti.
Non aveva considerato che l’ingenuità dei bimbi, il loro essere espliciti e diretti, è un’arma a doppio taglio. Con loro non s può ricorrere a sguardi d’intesa, ai silenzi che dicono molto più delle parole.
Con i bimbi tutto quello che c’è da dire lo si deve dire, ad alta voce. Nulla può essere lasciato alla deduzione, che è un meccanismo loro sconosciuto, o forse troppo legato alla lunga pratica del vivere, e quindi difficile da utilizzare nei rapporti che hanno con gli altri. Sono delle piccole bombe pronte ad esplodere con mille domande, che esigono chiare risposte. E non si può fare nient’altro che essere coerenti: se hai sempre risposto alle domande di un bambino, non puoi tirarti indietro all’improvviso. Con loro la reticenza non paga, soprattutto se sono abituati al confronto. Un confronto in cui mio padre credeva e a cui mi aveva abituato. E così io fui diretto, perché non conoscevo altro modo per chiarire i miei dubbi. E poi ogni volta che lo ero stato in passato, che l’argomento fosse più o meno importante, avevo sempre ottenuto le mie risposte.
Mio padre si girò. Fece alcuni passi in direzione del laghetto, e si appoggiò alla ringhiera che delimitava le rive sabbiose. Mi disse di raggiungerlo. Io scesi dalla panchina e andai verso di lui.
Mi appoggiai alla sua gamba e con le mani mi aggrappai alla ringhiera. Iniziai a guardare i pescigatto, con i loro baffi neri. Sorrisi. Mi sembrava assurdo che due animali da sempre in conflitto, il pesce ed il gatto appunto, alla fine avessero fatto la pace e si fossero uniti per creare un unico essere. Forse da qualche parte, probabilmente in Africa, pensai ci fosse un gatto con le pinne, magari una tigre.
Mio padre mi mise una mano sulla testa e mi arruffò i capelli. Si piegò sulle ginocchia come aveva fatto il suo amico Enzo poco prima. Mi guardò tutto: i suoi occhi si soffermarono su ogni particolare del mio piccolo corpo, come a volerlo stampare nella mente. Sembrava quasi che avesse paura che d’un tratto mi potessi rompere come vetro, e allora era meglio ricordare l’esatta collocazione di ogni singolo pezzo, per ricompormi.
Iniziò piano, quasi dolcemente a piangere. Io d’impulso alzai una manina e con il piccolo indice, intercettai la traiettoria della prima lacrima. Mi portai il dito alla bocca, l’assaggiai e risi.
“Blheà, è salata!”.
Anche lui rise, ma contemporaneamente piangeva. Allora gli chiesi perché stesse piangendo.
“Piccolo sono malato”, disse.
“Hai la febbre? Bravo, così non parti!”
“Non ho la febbre. Ho una di quelle malattie che rendono il corpo debole…”
“Che cos’hai papi?”
“Si chiama tumore… sai cos’è?”
“No, papi”.
Iniziavo a non capire più tanto bene. Mi sentivo confuso. Credevo che solo i bambini piangessero. Scoprire che lo fanno anche i grandi mi lasciò interdetto. Soprattutto scoprire che mio padre poteva piangere mi lasciava interdetto. Piangere per me, e credo per ogni bambino, era per certi versi un segno di debolezza. Ogni qualvolta cadevo e mi graffiavo un gomito, tutti erano lì a dirmi di non piangere che non era successo nulla, che dovevo essere un ometto. Proprio non capivo. Ed ora mio padre stava piangendo… e per giunta non era neanche caduto dalla bici!
La confusione che mi montò dentro portò con se anche una punta di paura.
“Meno male… c’è qualcosa che non sai… vedi il tumore è una specie di malattia che colpisce diverse parti del corpo. Non sempre la si riesce a vedere da subito, perché molte volte agisce in silenzio, all’interno del corpo. Poi piano piano, se non si scopre di avere questa malattia, il tumore può attaccare anche altre parti del corpo. Sempre silenziosamente. È una malattia cattiva… peggio di qualunque commodoro o pirata…”
“E tu ce l’hai papi?”
“Si piccolo. A me è venuta allo stomaco. Ti ricordi quando avevo sempre male al pancione e tu mi dicevi che avevo mangiato come un lupo… non era per quello. Era la malattia che iniziava a dirmi che c’era. Ma io non l’ho capito. Credevo fosse per colpa delle sigarette, e allora smisi di fumare. Ricordi? Tu e Marco mi nascondevate sempre i pacchetti, e poi alla fine li buttavate giù dalla finestra”
“Si papi. Era divertente. Mamma ci regalava sempre le automobili, quando sapeva che avevamo buttato le tue sigarette”.
Solo ora capisco quanto mio padre era una stupenda persona. Anche in quel momento tanto difficile, riusciva a non spaventarmi, perché egli stesso non si lasciava spaventare. Credo che avesse deciso da subito di dirmi tutto. Dal primo momento in cui aveva scoperto il suo male. E aveva deciso di farlo così senza paura. Anche perché credo che la sua più grande paura era quella di lasciare la sua famiglia nell’inconsapevolezza, e non quella di morire. Lui voleva che tutti fossimo preparati ad ogni eventualità, che nessuno si ritrovasse a dover affrontare la sua scomparsa senza esserci preparato.
E si perché mio padre doveva morire. Il cancro si era diffuso velocemente in tutto il corpo. Dallo stomaco ai polmoni. Poi all’intestino, e al colon. I medici che lo avevano visitato gli avevano dato al massimo un anno di vita. Lui ci voleva pronti, al corrente di tutto, soprattutto non voleva che avessimo paura della sua malattia, di quello che sarebbe diventato con il degenerare del suo fisico.
Ed anche io, un bambino di sei anni, dovevo essere preparato a tutto. E non da altri, ma da lui in persona. Lui che mi aveva insegnato in sei anni tutto quello che aveva potuto, nel modo più efficace e bello che un genitore possa usare: con rispetto, sincerità e semplicità.

Mio padre d’un tratto si lasciò cadere a terra. Si sedette come un indiano, appoggiato con una spalla alla ringhiera. Mi tirò dolcemente verso sè e mi strinse.
“Sai, non è vero che sono stato in giro per affari la scorsa settimana. Sono andato da un dottore in Francia per farmi visitare. Lui mi ha detto che molto probabilmente non ce la farò a vivere. Il tumore è diventato grande, e nessuno può farci niente. Ha detto che vivrò al massimo un anno, forse uno e mezzo, ma che poi il mio corpo sarà debole, e dovrà dormire per forza. Dormire per sempre…”.
Io iniziai a piangere. Non disperatamente, ma come aveva fatto lui, dolcemente.
“Ma papi quanto dura un anno?”
“Immagina il tempo che passa fra un Natale e l’altro… un anno è uguale a tutto il tempo che passi ad aspettare i nuovi regali…”
“Ma allora è lunghissimo… a me sembra non passi mai…”.
Scoppiai a ridere. Ero felicissimo. L’attesa che inizia a gennaio per il Natale che verrà, ad un bimbo di sei anni sembra un’eternità.

 

9 pensiero su “Un bimbo”
  1. Un bambino non sa combattere contro un Gigante, ma lo affronta con le sue piccole forze.
    E’ una storia triste ma bellissima, come magistrale è quest’uomo che cerca di spiegare ad un bimbo la sua tremenda malattia. Una storia che purtroppo la possiamo trovare dietro ogni angolo della strada, l’età non conta e spesso neanche la vita che si conduce, arriva e basta.
    Scrittura scorrevole e piacevole. bravo.
    Sandra

  2. bravo, mi piace come scrivi e ciò che scrivi.
    sapiente il tuo modo di raccontare il dramma del bimbo davanti alla realtà e quello del padre che lo prepara ad affrontarla.
    perchè la vita è realtà, in essa viviamo immersi ed è dell’uomo comprenderla, accettarla, adattarvisi trovando soluzioni per quello che può.
    ciao

  3. Speravo di non dover leggere una storia cosí. Io ho perso il mio papá per un tumore, avevo nove anni. Peró, se la tua storia é vera sei stato piú fortunato di me, a me é stato negato tutto in pochi mesi, non ho avuto il tempo di capire cosa stava accadendo.

  4. Questo racconto è stupendo, di una dolcezza e un’umanità fantastici. Non piango mai ma ammetto di essermi commossa, tanto è scritto bene e coinvogente. Grazie di averlo pubblicato.

  5. Ringrazio tutti per i complimenti e per l’attenzione… tilly scusami se ti ho ricordato momenti spiacevoli…

  6. No, non devi scusarti , ti ho solo invidiato tanto, io non ho una cosa cosí da ricordare .

  7. Quanta delicatezza e quanta profondità in questi dialoghi…
    Ho gli occhi lucidi, lo sai?
    L’hai scritto davvero benissimo.

    Vale

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