“Buongiorno ragazzi, che ve porto?”
La Sora Bice esordiva così ai tavoli. Si avvicinava gioviale e sorridente ma lentamente, un po’ a causa dell’età, un po’ per il sovrappeso e un po’ per le ginocchia che non la assistevano più come una volta. Scostava una sedia libera e si sedeva anche lei un po’ di sbieco.
“Si può avere un menù?”
“Di primo ci so’ agnolotti al sugo o al ragù, fettuccine, tonnarelli, rigatoni e li possiamo fa all’amatriciana, alla grigia, cacio e pepe, alla carbonara …”
“Gli agnolotti li fate voi?”
“E si capisce! Che te do quelli de giovannirana!?”
Prendeva nota delle ordinazioni sul piccolo block notes a quadretti, si alzava e proseguiva con un altro tavolo o portava la comanda in cucina.
“Ci porta anche il pane e da bere?”
“Si, mò ve manno il ragazzo”
Il ragazzo era suo marito, il Sor Nando, quarant’anni circa per gamba e lo spirito di un giovanotto. Si avvicinava con la sua voce da centurione romano rauco:
“Ecco er pane” caldo e croccante come pochi “il vino come lo volete, bianco o rosso?”
“E’ della casa?”
“E certo, è vino dei castelli!”
Poi veniva verso di me a prenderlo.
Il Sor Nando era piccolo di statura, magro, ex-pugile aveva ancora fisico e braccia forti, due ciuffi di capelli bianchi giusto dietro le orecchie e portava degli spessi occhiali da vista. Tanto lui quanto la moglie ispiravano una confidenza ed una simpatia immediata. Venire a pranzare qui era come mangiare con amici, in famiglia. Tanti clienti venivano accolti per nome: il Sor Michele con il suo cappotto di cammello un po’ consumato, Mario con la tuta da meccanico, il Sor Vanni pensionato brontolone, …
“Buongiorno Bice”
“Buongiorno Alfredo, siete in tre? Accomodatevi al tavolo grande con questi altri signori, che ve dispiace?”
“Se non dispiace a loro, tanto dovemo magnà mica se dovemo dà li bacetti!”
E il tavolo diventava una tavolata. Qui era come la livella di Totò, i clienti erano i più diversi e disparati, dall’operaio al dirigente, dallo studente al pensionato, dal prete al turista, quelli con le mani ancora sporche di grasso e quelli in giacca e cravatta. I tonnarelli cacio e pepe facevano diventare tutti uguali.
Bice indossava un grembiule azzurro da lavoro e Nando in ogni stagione aveva pantaloni classici, scuri, camicia, gilet di lana e sopra la classica parannànza di cotone bianco.
Se qualcuno lasciava qualcosa nel piatto ci rimanevano male.
“A signò, nun me faccia portà via sto prosciutto! E’ ‘n peccato. Ma chè nun jè piaciuto?” insisteva il Sor Nando “lo mangi, sù! E’ solo un boccone!” lo prendeva con la forchetta e gliela metteva in mano “ecco brava, così, ha visto che jè l’ha fatta?” e i piatti tornavano indietro puliti.
La trattoria esisteva dal 1928, l’aveva messa su la mamma della Sora Bice, ed era rimasta sempre uguale. Un locale con una decina di tavoli, e quando faceva caldo altri due piccoli tavoli sul marciapiede, davanti la porta e pochi altri ancora in un piccolo giardino ombreggiato da un grande albero di fico nel retro, di fianco alla cucina. Alla Sora Bice non piaceva andare nel giardino perchè doveva salire alcuni gradini. Arrivava a dire:
“no, fuori è tutto prenotato” così i clienti se li concentrava tutti davanti agli occhi … e senza gradini. Alle pareti alcune foto di famiglia, quadri di poco valore, una pendola che funzionava perfettamente da anni, una poesia dedicata alla trattoria e alla coppia da un cliente. Sui tavoli le classiche tovaglie di carta, bianche o a quadri.
Ai fornelli spadellava la figlia Rita, cuoca sopraffina e autoditatta ed una signora l’aiutava. Dalle loro mani venivano fuori le migliori e più saporite specialità della cucina romana, secondo il calendario classico della tradizione: giovedì gnocchi, venerdì baccalà, sabato trippa. E poi la coda alla vaccinara, il lesso alla picchiapò, i fagioli con le cotiche, …
La pasta era fatta in casa e la carne gliela portava l’amico macellaio dall’altra parte della strada. Tutto da leccarsi i baffi. Dalla cucina arrivavano odori che ti aprivano il cuore e lo stomaco. E poi si mangiava con poche lire prima e pochi euro dopo.
Al momento del conto la Sora Bice si andava a sedere nuovamente al tavolo, faceva due chiacchiere e scriveva il conto direttamente sulla tovaglia recitando a memoria, senza mai sbagliare una cicoria ripassata, quello che era stato consumato.
Bice e Nando erano fianco a fianco qui dentro da sempre:
“a Nà, e stai attento, nun vedi che ti è cascato er pane”
“a Bì e nun t’arabbià, sempre tutto de corsa! Me lo magno io”
“mò te cambio cò uno più giovane, te cambio!”
“ma magara! Così me riposo, ma lo sai quantè che t’o dico?”
Un cliente chiese a Nando:
“come mai siete aperti solo a pranzo? Io vorrei venire la sera con mia moglie per farle provare questa grigia che è da paura proprio!”
Nando spostò la sedia, si sedette con i gomiti sul tavolo e con la faccia a cinque centimetri dall’avventore disse con il suo vocione:
“Ahò, ma io quanno ho messo assieme i sordi ppè magnà, ppè le sigarette e ppè ‘r corriere de lo sport, macchè cazzo me ne frega!” si alzò e continuò i suoi giri.
Il Cliente rimase un po’ spiazzato ma annuiva con il capo e sembrava stesse pensando “…ha ragione lui…”.
A volte in sala ad aiutare c’era anche un loro amico Vàltere, loro coetaneo, anche lui sempre di buonumore. Quando qualcuno gli chiedeva se Vàlter si scriveva con la vì o con la doppia vù lui tutto felice tirava fuori la carta d’identità:
“o vedi che m’hanno combinato quell’ignorante dell’anagrafe e quell’artro furmine de mi padre?” sul documento c’era proprio scritto Valtere, con la vì ma soprattutto con la e in fondo!
Un’altro cliente a Bice:
“signora possiamo pagare con la carta di credito?”
“con la carta de cchè, dottò?”
A volte più che un osteria sembrava un cinema!
Qui non si faceva il caffè, a quello ci pensava la signora del bar accanto. Una donna bella, procace e con una gran voce. Una Sofia Loren ne La Ciociara.
“trecaffèunocorrettosambuca” gridava la Sora Bice dalla porta e da quella a fianco arrivava la ricevuta:
“arrivanooo”   

Un mercoledì d’inverno la saracinesca rimase chiusa. Un giorno, due, tre. Poi si seppe che Nando se ne era andato. Per sempre. Così, all’improvviso. A pranzo aveva servito ai tavoli, la sera aveva avuto un malore ed il suo cuore aveva smesso di andare su è giù per la sala.
Da quel giorno cambiarono molte cose.
La Sora Bice invecchiò di colpo, si sforzava di essere la stessa ma non aveva più il sorriso di prima. A lei come a tutti noi il Sor Nando mancava parecchio. Era del tutto innaturale non vederlo correre qua e là con le brocche di vino, con il pane, con i piatti di pasta fumanti.
La Sora Bice, lei che non si fermava mai, rimaneva sempre più spesso seduta dietro il bancone, proprio vicino a me.

Era venuto a dare una mano suo genero, Adolfo, un ragazzo giovane e antipatico che aveva studiato marketing, diceva lui, e che parlava con un sacco di parole strane: fèscion, trèndi, aptudèit, target, …
In pochi mesi il locale cambiò aspetto. Venne chiamato uno chef ad affiancare Rita, che di fatto la sostituì, l’altra signora andò via. Il menù andò popolandosi di Anatra affumicata su crostini al rosmarino, Stracotto di cervo con cialde di parmigiano, Caserecce acqua e farina con ragù di capriolo e pecorino di Pienza, Millefoglie di sgombro con verdure grigliate e gazpacho, Filetto di maiale con riduzione al Porto e flan di broccoli siciliani.
Finchè la trippa e l’amatriciana scomparvero del tutto.
Le pareti divennero di un arancione antico, scomparvero le foto ed i quadri sostituiti da dipinti astratti e luci soffuse, delle tovaglie di lino color senape presero il posto di quelle di carta.
Alla Sora Bice non importava più granché. Lasciava fare.
I camerieri diventarono due e indossavano la camicia a righe scura ed un grembiule nero che facevano molto trèndi, diceva il genero.
Ieri una Cliente, taglia forte, sulla sessantina, capelli vaporosi e tinti con vistosa ricrescita bianca di almeno due centimetri ha visto sul menù gli Gnocchi alle rape rosse con vongole e pesto di rucola. Li ha chiesti “però” ha detto “senza vongole per piacere e senza pesto di rucola … ma soprattutto senza le rape rosse!”
Il cameriere un po’ in difficoltà gli ha risposto
“… guardi, … per le vongole ed il pesto posso chiedere ma le rape rosse sono proprio nell’impasto!…”
“ah… allora mi porti questa cosa ai formaggi”
“la nostra Selezione di formaggi con mostarde?”
“si, si, quello”
Quando è arrivato il piatto dei formaggi il cameriere ha attaccato:
“il primo da destra è uno Chevagne belga e poi verso sinistra un Camembert francese, un Gorgonzola dop piemontese e un Pecorino stagionato sardo, noi consigliamo di degustarli partendo dal più delicato a destra e proseguendo in un crescendo di sensazioni verso sinistra. Può accostarli con il miele o la confettura di cipolle rosse… ”
in realtà il ragazzo non era nemmeno a metà della frase che la signora aveva preso una rosetta, una delle poche cose rimaste uguali, l’aveva aperta, aveva preso con il coltello tutti e quattro i minuscoli pezzetti di formaggio e li aveva spalmati nel pane in una personale ed estemporanea interpretazione degustativa un po’ differente da quella ricercata dallo chef. Poi aveva fatto delle smorfie di semi approvazione come per dire “ma si, … si lasciano mangiare”, il cameriere tornò verso la cucina come se niente fosse e il marito della signora, con lo sguardo rivolto al ragazzo che si allontanava, disse a denti stretti:
“la marmellata de cipolla te le magni te!”
e la moglie rafforzò il concetto
“anfatti!”

Oggi è una giornata speciale. C’è un ultimo particolare da sistemare. Il bancone è già stato sostituito con uno in acciaio e cristallo, aitek ha detto lo stronzo, come la Sora Bice chiama simpaticamente il genero quando lui non la sente, e dietro il bancone ci sono io. Sto qui da quando la trattoria venne inaugurata. Ormai ho quasi l’età di Nando. Alle quattro di pomeriggio mi hanno svuotato, ma già da diversi giorni non mi stanno usando più.
Ecco hanno staccato la spina.
“forza ragazzi, tutti a dare una mano che questo pesa”
“dai, tu prendilo di là, tu di qua, Mario vieni anche tu. Mettiamolo sui rulli, fuori c’è il camioncino”
la Sora Bice mi si è avvicinata, mi ha fatto una carezza:
“te ne vai pure tu? Ciao amore mio”. Ha sorriso e mi è sembrato che gli sia sfuggita una lacrima.
Hanno faticato non poco per mettermi sul furgone, sono piuttosto largo, una volta le cose le facevano belle robuste. Ho tre vani frigo e da due escono con la spillatrice il vino bianco ed il rosso dei castelli. A temperatura cantina. Quante volte il Sor Nando me le ha carezzate le maniglie per riempire le brocche!
Siamo partiti, che caldo. Vedo la trattoria allontanarsi. Mi sento molto triste.
Eh, se c’era ancora il Sor Nando …
Adolfo si girò verso la moglie:
“Ammazza quanno cazzo pesava st’armadio frigorifero. Mortacci sua!”

 

6 pensiero su “La Trattoria”
  1. Racconto delizioso. A tratti divertente, a tratti malinconico, uno spaccato di mutamento dei tempi ironico e garbato. Originale e piacevole l’idea del “narratore” che si svela solo nel finale e fa venir voglia di rileggerlo daccapo! Bravo.
    Mario R.

  2. Bellissima storia, simpatica e triste. E’ così che succede nella vita, quando il tempo passa, si viene sostituiti e quasi nessuno più si ricorda di noi e di quello che siamo stati, forse é così per tutti, basta aspettare il proprio turno, per essere messi nel dimenticatoio.
    Molto bravo e lineare anche la scrittura.
    Ciao. sandra

  3. …bellissimo racconto!…
    fammi sapere dove hanno buttaro il frigo che me lo vado a prendere.
    non solo ha un’anima,ma ha spazio a non finire
    e tra poco una cosa così, d’antan, avrà anche valore…

  4. Bellissimo racconto.

    Una transizione dal neorealismo ai giorni nostri.

    E’ come vedere il tempo che passa in un breve filmato. Complimenti a Giuseppe Gatto!

  5. Emozionante, veritiero, sembra di esserci dentro, di assaporare ogni piatto, di vedere le tovaglie sui tavoli, e tutto il resto… bravo veramente straordinario!

  6. Bello e tenero, sembra di tornare indietro nel tempo, bravo si, sei proprio bravo!

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