“L’amuri è na spera i suli;
ti tangi, ti tingi, t’abbrazza e poi ti ‘vasa,
‘mo ti voli a vrazza china, ‘mo u ti cala la marina”

Mi hanno raccontato che lei tremava dal nervoso tanto da piangere senza saper smettere. Un pianto continuo, quel pianto spassionato che si sentiva solo ai funerali. Decantava in toni acuti e dalle note lunghissime tanti di quei malauguri che se sarebbero divenute realtà solo un terzo di quelle, io sventurato malcapitato destinatario di tante indecenze, mi sarei volontariamente accontentato di un cappio al collo senza convenevoli o qualsivoglia inopportuno licenziamento.
Qualcuno mi consigliò di rimanere in casa, sigillando porte e finestre, di appostarmi sul lucernaio e per maggiore prudenza mi chiedevano se avessi a portata di mano trappole per volpi.
Cotanta rabbia porta solo sventure. Altri mi dicevano che, sì ella piangeva per la rabbia, ma anche per risparmiarsi le lacrime per quando ben volendo la sua anima non mi incontrasse per la via della Chiesa madre dentro una spessa bara color ciliegio.
Già tutto il paese lo sapeva ch’ella piangeva per me da otto giorni ad oltranza. E tutti venivano da me, a testa china comparivano davanti la mia porta, alcune donne anche con la veletta nera, e dopo aver suonato e atteso con garbo mi chiedevano cosa avessi mai combinato.
Non ebbi la fortuna di confidare la mia risposta a nessuno giacché tutti prim’ancora che mi spiegassi parlavano già di disonore, di disgrazie e matrimonio in ordine sparso.
Dacché anche a voi devo spiegarmi e farlo per bene, inizio a contarla dal principio ma senza andare troppo al largo vado subito a dirvi che di Concetta si sta parlando, colei che mi fu promessa in sposa da mesi e mesi e fors’anche anni senza che io né lo immaginassi o almeno inizialmente lo volessi.
Tornavo a casa un pomeriggio d’agosto con la mente ancora annebbiata da ore di studio. Risalivo l’argine del Coscile e il caldo sembrava soffocarmi. Si udivano solo il fruscio del fiume in magra e grida di bambini in lontananza felici d’inseguire biacchi tra fichi e rovi.
Quando scorsi le prime case del paese vidi giungere nella mia direzione un giovanotto. Aveva i calzoni corti e una camicia grigia sporcata da chiazze nere e menava le mani come un soldato mentre camminava con la testa bassa. Accortosi che stavo giungendo verso di lui, si fermò, respirò affannosamente e imprecò nervosamente. Doveva venirmi in contro e lo faceva contro voglia così che quando mi vide mi parlò nella sua lingua che non era da un pezzo più la mia. Compresi perfettamente che quell’adolescente dopo essersela presa immotivatamente con i miei morti, riposino in pace, era venuto a dirmi che Don Cosimo Panzachina voleva parlare con me. In quel preciso istante ebbi l’ovvia intenzione meschina di declinare l’invito, ma accortomi che la cosa sarebbe stata accolta come grave scortesia deglutì e accettai di incontrarlo. Anzi, per togliermi subito il dolore decisi di togliere subito il dente e mi feci portare da lui che a quell’ora fumava sigari sotto un cedro e guardava la valle che scendeva verso il mare.
Mi presentai difronte a Don Cosimo madido di sudore, che sia per il caldo che per la paura di ciò che sarebbe stato di me.
Don Cosimo Panzachina il cui soprannome già lo descriveva abbastanza, vestiva un doppiopetto di lino color crema confezionato certamente sulle sue misure, si rivolse a me chiamandomi Giannuzzo e dopo avermi consigliato di sorridere ogni tanto, dopo avermi chiesto di come andassero i miei studi di letteratura mi disse che dovevo fare delle cose per lui nel paese. Mi disse che non voleva più teste calde attorno ma puntava adesso tutto su di me.
“Sì, Giannuzzo già si vede che tu non sei una testa calda, si vede che invece tu sei una testa…”
Respirò il suo sigaro e in quella pausa lunghissima capì veramente cosa sottintendesse anche se ci tenne Don Cosimo a spiegarsi del tutto: “Una testa pensante”.
E questa testa pensante, come mi chiamò, doveva ragionare come la scuola mi insegnava a suo dire a farmi dare il pizzo dai paesani e portare il tutto a lui. Siccome a suo parere, pur essendo una testa pensante, chi si occupa di lettere non sa poi occuparsi di numeri e conti…
“Il ragioniere lo faccio io!” Si portò la mano al petto mentre lo esclamò e lì notai quel suo grosso anello d’oro a mignolo sinistro.
Mentre me ne tornavo a casa iniziai a piangere cercando fra i pensieri un modo per uscirne. Pensai di tornare indietro e disdire l’accordo. Chissenefrega del posto in Municipio! E se mi arrestassero? Se mi uccidessero? Se fossi costretto ad uccidere? Mi vergognavo di tornare da mio padre, uomo tanto umile ed onesto che se avesse saputo che dovevo diventare malandrino sarebbe morto di rabbia e senza aspettare che mi uccidessero l’avrebbe fatto lui accorciando il tempo. Mi sentivo la coscienza macchiata e fino a quel momento non avevo ancora fatto nulla se non acconsentire al patto che mi era stato proposto. Convinto del fatto che non potevo presentarmi a casa essendo divenuto un indegno mafioso, lasciai di nuovo il paese andando verso le campagne mentre il sole scompariva dietro i monti. La luce diminuiva mentre si sentivano sempre più forti le voci di donne che cantavano filastrocche e i passi dei buoi carichi di meloni e sammarzani venirmi incontro. Ne incrociai un paio di quei gruppi e ignaramente incrociai anche Concetta. Lei mi riconobbe mentre io avevo la mente annebbiata d’altro.
Il primo fienile era accanto al fiume e il rumore dell’acqua cheta che scorreva m’addormentò fino a quando il latrare dei cani e urla di uomini non mi svegliarono incutendomi paura. Capii che mi cercavano e quando furono vicini da potermi vedere alzai le mani e gli andai in contro non guardandoli in faccia, immaginandoli con le lupare in mano, contenti d’avermi trovato, impazienti di punirmi, assetati dalla voglia di uccidermi. Mi venne incontro mio padre abbracciandomi e lasciandosi andare ad un pianto di gioia silenziosa.
Giunsi a casa dove trovai al solito posto, seduta sotto il pergolato mia madre. Rimasi dentro la mia camera un giorno intero a pensare sul letto come dire a tutti che, sì gli studi di letteratura andavano bene ma che adesso avevo un compito molto più serio da sbrigare. Guardavo dalla finestra che dava sul retro di casa nostra, sulle bettole di lamiera dove tenevamo insieme il vino, l’aceto, la legna per la cucina, quattro conigli, una dozzina di galline e due tacchini. Tutto era desolatamente identico a come lo avevo lasciato, probabilmente era tutto in quel modo da secoli. Anche il nostro cane non aveva perso la pazienza di rincorrere lucertole nonostante non ne abbia mai presa una da quando imparò a stare in piedi. Lo guardavo rovistare rabbioso fra i cespugli e gli ortaggi fino a che qualche canna su cui rampicavano i fagiolini, urtata dalla curiosità del suo naso non gli cadeva in testa facendolo correre in ritirata. Finirà così pensavo anche con me; rincorrerò tutti gli onesti di questo paese fino a quando stanchi della mia prepotenza non mi avrebbero giustamente punito.
La nostra casa, devo dirlo, non era molto accogliente. Le tegole del tetto stavano lentamente frantumandosi, le crepe nei muri divennero voragini e io che fino ad adesso pensavo a comporre saggi e studiare gli eruditi del passato, adesso pensavo che il compenso della malavita avrebbe aiutato me e la mia famiglia a rimettere in sesto la nostra casa. Seguivo dandomi un ceffone solo per l’averci pensato. Alla fine di tanto pensare capì che non era una decisione che potevo prendere da solo. Lasciai la camera e andai in chiesa. Era un venerdì ed fu per questo che trovai una fila di persone sedute sul banco accanto al confessionale. Quando vidi che l’ultima della fila era Concetta esitai ma ella già mi fece posto accanto a lei prendendosi in mano il libro delle preghiere che aveva posto sul banco. Mi sedetti cercando di divagare la mente guardando ora l’organo con le canne dorate, ora il crocefisso nella sua struggente pena per poi voltare lo sguardo al confessionale per rendermi conto di quanto tempo ci sarebbe voluto.
L’impazienza che era mia, m’accorsi era di tutte le donne sedute accanto a me. Anche di Concetta che liberandosi dell’ansia con un grande sospiro disse: “ Ah se tutti gli uomini si confessassero non saremmo costrette noi donne a farlo ogni venerdì”. Le altre donne annuivano in silenzio nel mentre mormoravano chi un Padre Nostro e chi finiva di maledire il marito prima di purificarsi la coscienza.
Concetta, il cui scopo era quello evidente di farmi esprimere in qualsiasi modo, insoddisfatta del mio silenzio, seguitò a chiedermi diretta: “Cosa confessa Vossignoria? Qualche scappatella in biblioteca?”
Allorché capì che Concetta stesse parlando con un guizzo di insensata gelosia, sentendomi già da allora al banco degli imputati in processo che non aveva né capo né coda, dovetti a mia discolpa rispondere che ciò che andavo a confessare non era ancora avvenuto.
Ella, quindi e lo ricordo benissimo, dopo avermi accomunato al modo tipico degli uomini che nulla fanno tanto per fare e mai comunque da doverne pentirsene e confessare, mi rispose che l’anima non si impegna, forse il cuore sì.
Uscì dalla chiesa senza purificazione, senza impegnare nulla, l’aria dei pomeriggi d’agosto mancava e mancavano con essa il senso di tutto. Altro non potei che tornamene a casa.
Passò una settimana durante la quale, mentre rincasavo al tramonto, incontravo tutte le sere Comare Bianca di MastrErminio uscire dall’uscio di casa mia, accompagnata alla porta da mia madre che sfoggiava il suo sorriso splendido di circostanza e sostenendo un cesto di cetrioli e fior di zucca.
“Tenete Comare Bianca, fatevi un’insalata e due frittelle e salutatemi Concetta, che passasse a trovarmi quando vuole, senza brigogna”1*.
Tutto mi fu chiaro e ancor di più lo fu a cena quando sempre mia madre, in quei giorni più paga che mai, parlava di famiglia rispettabile quella della figlia di MastrErminio che aveva un’unica figlia, garbata e di sani abitudini. Sarebbe stata un buon partito e anche io lo sarei stato per lei dal momento che, sempre secondo mia madre, avrei finito gli studi da letterato e avrei aperto lo studio da notaro. Difficile ed inutile fu convincerla che io di legge non sapevo alcunché.
Dovei soccombere ed accettare quest’altra imposizione. Già pendeva su di me, e non lo scordavo, quel dovere affidatomi da Don Cosimo, adesso se non fosse già troppo dovevo, perché di dovere si trattava come quello di andare a messa nei giorni di precetto, sedermi tutti i santi pomeriggi sulla panchina della piazza del Comune e guardare e niente più Concetta seduta su una stessa panchina di fronte a me, dall’altro lato della piazza. Erano pomeriggi lunghissimi in cui io la fissavo mentre il sole le girava attorno e l’illuminava da una parte all’altra fino a colorarla di rosa quando al tramonto finivo per innamorarmi e lasciarla era straziante. A furia di osservarla ella diventò come l’oppio e alla fine di due settimane sapevo rintracciare fulmineamente l’unico fiore ancora non sbocciato che stava stampato sulla solita camicetta del giovedì; la più bella fra tutte.
Delle volte per il troppo guardarla i miei occhi bruciavano. La sua pelle che rifletteva il sole mi annorbava ed io vedevo solo un’aurea dorata tant’è che da allora la chiamai esattamente come la vedevo: “spera i suli”2*.
E sarebbe andata a finire che me la sarei sposata a Concetta se non avessi ancora avuto da portare a termine sia gli studi che quel nuovo lavoretto che avevo da fare per Don Cosimo. Giustappunto quando l’estate finì e il sole non tangeva nemmeno più le panchine della piazza, ritornò da me il solito ragazzino che portava calzoni alla zuava e una maglia sicuramente di suo padre tutte in tinta militare. L’espressione era sempre la stessa, quella che si sfoggia davanti al più antipatico signore che si abbia mai incontrato nella vita ed aveva quel fare nervoso di chi quella faccenda comandata non la si voleva fare ma si doveva per forza. Venne a dirmi che Don Cosimo aspettava e doveva “chiudere la bilancia”. Annuì e ringraziai e già sudavo freddo. Nessuna bilancia da chiudere, bensì il bilancio. Quel ragazzo per i nervi sicuramente si spiegò male e spero oggi che di quel mondo quel ragazzino mai ne capisca alcunché.
Nessun indugio; c’era solo da mettersi all’opera, andare via per via, bottega per bottega, bettola dopo bettola a chiedere il pizzo. Avevo svuotato la mente la sera prima di iniziare, avevo preparato una piccola valigia portadocumenti di pelle consumata e mi ero detto che l’avrei fatto per la mia famiglia, per risollevarla dalla sventura, per poter sposare Concetta, per poter vivere sereno.
Quel mattino decisi di iniziare da Italuzzo il tabaccaio, l’unico tabaccaio del paese che aveva casa e putiga3* sull’affaccio. Quel suo piccolo negozio di sali, sigari, fiammiferi e altre cianfrusaglie dava su un terrazzo da cui si poteva vedere tutto il tratto del Coscile che scorre ai piedi del paese placido e sinuoso verso lo Ionio. Italuzzo nella sua bottega stava sempre con la moglie Rita ed entrambi, ormai sposati da oltre mezzo secolo, erano i più onesti e ben voluti fra i paesani, soprattutto perché a differenza di chiunque vendesse anche solo spilli e rocchelline4*, loro non furono mai avvezzi alle dicerie e al pettegolezzo.
Entrai nel loro piccolo negozio ricolmo di ogni cosa, per lo più risaltavano agli occhi i quadri di un vecchio paese che avevano l’arroganza di definirsi il mio quando nemmeno un piccolo angolo di quelle vi rassomigliava. Usai l’espressione più dispiaciuta che si potesse avere tanto che donna Rita, l’anziana moglie di Italuzzo accorse con una seggiola pensando che sarei caduto a terra da lì a poco.
Ringraziai e mi accomodai, fingevo di recuperare il respiro mentre i due coniugi mi stavano davanti preoccupati. Quando mi ripresi spiegai il motivo per cui ero andati a disturbarli. Raccontai loro di aver saputo che Don Cosimo panzachina, colui che vantava il rispetto di tutto il paese, per cause che non erano ancora chiare, cadde improvvisamente in bassa fortuna ed avevo iniziato una personale colletta che sarebbe servita a Don Cosimo a riprendersi dalle sventure finanziarie. Raccontai loro, e dopo di loro a tutti gli altri paesani, che andai a trovare Don Cosimo, il quale oramai era afflitto, costretto a vendersi terre ed affetti, dedito solo alla preghiera e alla famiglia, d’altronde si sa; “beni di fortuna passanu comu ara luna”5*.
In poco tempo, con la scusa di Don Cosimo in disgrazia, riuscii a racimolare una modesta cifra che custodivo, per paura di essere derubato, fra le foglie di granturco che riempivano il materasso del mio letto, avvolta come fanno le buone mamme, in uno muccatùri6* di seta legato ai quattro pizzi. Quel giorno stesso, rientravo a casa felice di aver adempiuto all’impegno. Avrei solo dovuto consegnare quei soldi, poi avrei preso la mia parte e sicuramente avrei potuto sposare Concetta. Sì, proprio Concetta che in quel momento di euforia dello spirito, mi passò davanti mentre andava a comprare il pane ed in quel momento, quando era più la libertà a sbandarmi che l’amore, le chiesi di sposarmi. Accettò sorridente, dimenticandosi del pane, delle ceste di roba da lavare, si dimenticò della sua famiglia e si dimenticò di avere una vita sua giacché corse con me fra le stradine che portavano al Calvario e dietro un cespuglio, dentro un bosco di cipressi conoscemmo l’amore e disconoscemmo il mondo intero.
Vi sarà più facile ora capire del perché vissi rinchiuso per mesi dentro casa e fui costretto poi a fuggire di nascosto, inseguito dal disprezzo, dalle ingiurie, dai malauguri di un paese.
Mi cercava Don Cosimo panzachina disonorato nel profondo del suo ego, lo faceva di persona sedendosi ogni giorno su un ceppo d’ulivo fuori l’uscio di casa mia. M’attendeva e non certo per porgermi i complimenti. Mi aspettava anche Padre Franco il quale per una settimana disse messa pregando i fedeli d’essere magnanimi di cuore per sostentare Don Cosimo che tanto si prodigò, lui diceva, per la comunità e la Madre Chiesa.
Mi cercava Concetta che non mi trovava e doveva sposarmi, doveva per forza ora che il guaio era fatto. Ed io che volevo solo vivere normale son qui, senza sole, senza amore. Si vive ugualmente, se ve lo domandaste; si vive, di sospiri eppur si vive.

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1. Vergogna, dal dialetto calabrese
2. Raggio di sole, dal dialetto calabrese
3. Piccolo negozio, dal dialetto calabrese
4. Rocchetto, dal dialetto calabrese
5. Prov. dial. Beni di fortuna passano come la luna.
6. Fazzoletto, dal dialetto calabrese

3 pensiero su “Spera i suli”
  1. Caro Raf,
    ti leggo sempre con piacere!
    Mi piacciono le tue storie apparentemente lontane nel tempo che si riconducono, però, a quei sentimenti ancestrali che sono propri della storia dell’uomo.
    Scrivi, sempre.
    a.

  2. Grazie a Sandra ed Anna per esserci sempre a differenza mia che ormai ritorno solo con fugaci “mordi&fuggi”. Spero di essere più presente. In ogni caso vi assicuro che scrivo sempre, di qualsiasi cosa oramai. A volte tornare a scrivere un racconto è una sfida; saprò ancora usare quel tipo di registro o scriverò per sempre col tipico stile delle istanze burocratiche e noiose?

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