“Ciao Saverio, il viaggio è andato bene?”
“Si grazie, il solito ritardo dell’aereo … Come mai piove? Dici che a Roma c’è sempre il sole!?”
“Beh, si, quasi sempre!” sorrise e gli aprì la porta dell’auto.
Antonio era andato a prendere il suo capo, il Dott. Saverio Robeschi, in arrivo da Milano, all’aeroporto di Fiumicino. Il dirigente aveva senza dubbio le fisique du role, cinquantenne alto e magro, capelli e barba appena lunghi, curati ma non in modo maniacale, in modo da dare una vaga idea di naturalezza. Indossava un abito di sartoria, scarpe artigianali e camicia su misura, quelle con le iniziali evidentemente ostentate e i gemelli ai polsini al posto dei bottoni, chiudeva la partita l’immancabile orologio molto costoso.
“Ma non ti vergogni ad andare dai clienti con un auto così sporca? Ricordati che per un venditore l’auto è un biglietto da visita e con un’auto trasandata e sudicia ci si presenta male! … e poi puzza!”
“E’ che si lavora tanto e non ho avuto proprio il tempo di lavarla!”
“Il sabato. L’auto si lava il sabato”
(cominciamo bene!) pensò Antonio.
In macchina c’erano cartacce, fazzoletti usati, pacchetti di patatine vuoti ed un odore stantio di sigarette misto ad un puzzo strano e intenso.
Quando la mattina portava giù il sacco della spazzatura, per buttarla nei cassonetti poco lontani, almeno una volta la settimana lo dimenticava in auto. E nel sacco c’era di tutto. Senza scendere nei dettagli. A cominciare dalle cacchette del gatto.
Quindi il puzzo era certamente intenso. Ma nemmeno poi tanto strano.
Origini meridionali, una decina di anni meno del suo capo, aveva vissuto per un periodo a Milano per poi trasferirsi a Torino e infine a Roma. Era più basso del Dottor Robeschi e questo lo metteva già in soggezione. Aveva anche lui le fisique du role perfetto, ma del sottoposto sfigato: taglia forte extra-large, calvizie incipiente, abito e scarpe da grandi magazzini, forfora d’ordinanza sulla giacca, al polso un falso Officine Panerai o meglio un Officine Shanghai originale. Antonio lavorava come impiegato commerciale da pochi mesi per una piccola azienda milanese e seguiva l’area di Roma insieme ad altri due venditori. Capitava a volte, come in questo caso, che un cliente potenziale con una trattativa interessante in ballo volesse incontrare un pezzo grosso della società. E così il Dott. Robeschi, direttore commerciale, era venuto a fare la gita a Roma per incontrare i vertici della Spizzi&Spazzi srl.
Il Direttore ci teneva ad avere rapporti informali e paritari con la sua squadra (i sottoposti) quindi era normale darsi del tu ma in realtà la linea di demarcazione dei ruoli era molto ben definita. Antonio era molto agitato e voleva dare il meglio di sé, fare bella figura.
“Novità?” chiese, aprendo il finestrino
“Eh, abbiamo diverse trattative in corso, abbiamo partecipato ad una gara e poi c’è questo incontro di oggi, mi sembra un’opportunità importante…”
Ogni giorno il Dottore lo chiamava al telefono sempre con la stessa drammatica, atroce domanda: “novità?”
Non sempre c’erano delle novità ovviamente, anzi quasi mai, il mercato era abbastanza fermo e su Roma in particolare c’erano aziende storiche e radicate che opponevano una concorrenza estremamente agguerrita, quindi Antonio doveva continuamente arrampicarsi sugli specchi e cercare di inventarsi ogni giorno qualcosa di nuovo per tranquillizzare il capo.
“… oggi abbiamo selezionato dei clienti potenziali su internet ed abbiamo cominciato le telefonate di primo contatto, contemporaneamente partiamo con il mailing …”, “… stiamo lavorando con molto impegno …”, “… ieri abbiamo avuto due incontri molto interessanti …”, “…la trattativa era quasi conclusa ma alla fine abbiamo perso per un problema di prezzo …”, “… non avevamo le certificazioni di qualità necessarie …” e cosi via. Questo era il campionario tipo delle cazzate che Antonio doveva inventarsi quotidianamente.
Uno stress.
Capitava persino che la fatidica domanda gliela ponesse la sera alle otto, mentre stava tornando a casa e poi la mattina seguente alle nove!
E ad Antonio veniva da rispondere:
“ma che cazzo vuoi che sia successo da ieri sera ad adesso, ho mangiato, ho visto la tv, sono andato a dormire, ma vaffanculo!”.
Non lo fece mai.
Appena assunto il Dottor Robeschi gli aveva detto:
“Quello che c’era prima di te era un imbecille, un inetto. Pensa, quando gli chiedevo se c’erano novità, lui mi rispondeva sempre – nessuna – ma allora, dico, cosa mi fai tutto il giorno, no?”
“Hai perfettamente ragione, è incredibile!”
Brividino fastidioso lungo la schiena.
“Eh, si infatti l’ho mandato via…”
(ah, ecco. Bene!)
“Io spero di poterti dimostrare presto che le cose sono cambiate, stiamo facendo un grosso lavoro di semina e sono convinto che raccoglieremo presto i primi frutti”
Lo diceva ovviamente senza crederci per primo nemmeno lui.
“Speriamo! Senti, prima di arrivare dal cliente ce la facciamo a fermarci in un bar che non ho fatto colazione?”
“ma certo, siamo in leggero anticipo”
Parcheggiarono, entrarono in un bar sull’Aurelia.
“Cosa prendi?” disse Antonio al capo
“Cappuccino e brioche, grazie”
“E lei?” chiese il barista
“Per me un caffé, grazie” rispose Antonio, poi scoppiò a ridere e rivolto a Robeschi:
“Pensa, quando lavoravo a Milano ero spesso dalle parti di Bergamo e la prima volta che ho chiesto un caffé in un bar il barista mi fa: – COONCOSAA? –”
e nel dirlo imitò in modo caricaturale e con voce gutturale, l’accento del barista, sembrava più che altro il muggito di una grossa mucca al pascolo per le valli bergamasche. E continuò:
“E io – scusi? – e quello di nuovo: – COONCOSAA? – e io ancora – un caffé! … normale, amaro! – e lui: – si ma coongrappa? coonsambuca? – aaah – finalmente capii – con niente – gli ripeto – un caffé semplice!!!”
e continuando a fissare divertito il Dottore che sorseggiava il cappuccino proseguì:
“Insomma, per questi ubriaconi il caffé è – cooncosa -, ci devono per forza infilare dell’alcol dentro, alle nove di mattina! Pazzesco. Il barista non ci poteva credere che volevo il caffé e basta. Qualcuno ci mette addirittura il vino rosso! Per forza poi hanno tutti quelle facce spente e inespressive. Sono stonati già a colazione!”
E continuando a ridere e scuotere la testa bevve il suo caffé.
Robeschi annuiva e sorrideva, posò la tazza, si pulì la bocca e la barba con un fazzoletto di carta:
“Lo sa Tucci” era passato al Lei.
Scandì bene le parole:
“Io sono proprio di Bergamo…”

 

5 commenti su “Caffé corretto”
  1. Non puó essere! Io l’avevo capito appena ha detto Bergamo e mentalmente ripetevo “basta, non scendere in particolari , sei ancora in tempo…” Ma quando ci sei di mezzo tu ….non ti bastava che fosse brutto e sfigato? Pure scemo.Sei sempre bravissimo. Tilly

  2. Giuseppe,….paura…..??????
    ma per parlare di geografia nordica, sono nata a Milano, ho vissuto e lavorato per venticinque anni a pochi chilometri da Bergamo e ora sto in provincia di Varese.
    …Vedi un po’ tu vuoi cosa vuoi pensare…
    un abbbraccio
    ciao

  3. …per essere seri, invece, è molto interessante la tua considerazione sull’esclusione da un concorso o su come testi di valore dubbio ( ma molto, molto dubbio) riescano a vincere o entrare nella rosa dei segnalati, perchè avvalori ciò che io stessa pensavo…
    ancora ciao

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