Io non so per quale ragione misteriosa sia venuto a casa nostra un altro cucciolo nerissimo, con una macchia bianca sul petto, il musetto slanciato e gli occhi curiosi e vispi di un labrador incrociato con un’altra indefinibile razza canina che resterà sempre sconosciuta a chi volesse risalirne il pedigree. Al canile non ti danno il pedigree, ti devi affidare a ciò che vedi per formulare ipotesi che non potranno che restare tali: per Ciock, chiunque lo veda si trova a formulare ipotesi diverse che spaziano dal cocker al setter, senza che ci potrà mai essere un riscontro, almeno per quell’altra metà che si è mischiata al labrador. Quel che è certo è che non c’è anima di pitbull in Ciock, e dunque Alan, il mio Alan, resterà unico nel cuore.
Ciock, diminutivo di Orociock, lo hanno chiamato così al canile, perché è, appunto, scuro come l’omonimo biscottino al cacao, e somiglia come una goccia d’acqua ai fratellini, Togo e Oreo, pure loro due biscottini al cioccolato che ora vivono sani e salvi in due distinte famiglie, dopo che qualcuno, a poche ore dalla nascita, li aveva strappati, tutti e tre, al ventre madido di latte della madre, per metterli dentro una busta di plastica come fossero rifiuti organici di cui liberarsi al più presto; questa busta, chiusa all’estremità da un nodo ben stretto, caso mai vi entrasse un timido alito d’aria, sempre lo stesso qualcuno aveva poi gettato impunemente dentro un burrone impervio alle pendici del Vesuvio, e quella sarebbe stata la loro tomba, se non si fosse verificato un grande, inusitato miracolo: il passaggio casuale di un altro qualcuno che, uditone il flebile lamento, ha scelto di non proseguire indifferente ma di consegnarli di nuovo alla luce, dando loro una seconda opportunità di vita. Vita di canile, certo; ma anche questo ha il sapore di un miracolo, se si pensa al modo in cui, qui siano stati curati, nutriti, soprattutto vaccinati, prima che si trovasse per ciascuno di loro la giusta destinazione familiare. Non la stessa fortuna ha avuto Alan, che pure da un canile era venuto a noi già malato di parvovirosi, e di questa malattia è morto, tra estreme sofferenze che non siamo riusciti ad evitargli e nonostante la profusione di cure a cui lo abbiamo sottoposto. È la vita che regala a tutti, indistintamente, uomini e animali, dolori e miracoli, senza preavviso.
Con Ciock in casa è ritornata l’allegria. Nuovi ossi di plastica a inondare il pavimento, una nuova cuccetta di paille in mezzo al corridoio; sulla credenza si è fatto spazio a nuove confezioni di crocchette per cui ogni cane farebbe follie, ma proprio a lui, chissà perché, non piacciono per niente; soprattutto, di nuovo bisognini fatti giusto al limitare delle traversine, disseminate per la casa come un lungo tappeto bianco intorno a cui camminare zigzagando.
Ciock ha tutta la vivacità di un cucciolo che scoppia di salute, e la curiosità di un essere da poco affacciato alla vita che scopre il mondo che lo circonda a forza di canini da latte affilati sugli inserti lignei di un antico tavolino di mogano, il quale, a questo punto, dovrà passare per il restauratore per ritrovare la sua bella forma di un tempo in cui non c’era ancora lui a smangiucchiarselo tutto con gusto; per non dire di quando si diverte ad affondare il musetto spiritoso dentro l’imbottitura di un cuscino per distribuirne il piumaggio dappertutto; o di quando aspetta che tu, ancora assonnata, ti sia catapultata dal letto per iniziare una nuova giornata: è giusto quello il momento in cui si getta a capofitto sulla tua pantofola e se la porta, ben stretta in bocca, in giro per la casa, con te dietro che corri con una pantofola sì e una no ai piedi, nella vana intenzione di riappropriarti della gemella sottratta, ma alla fine ti rassegni a zoppicare verso la doccia, pensando che non puoi fare tardi al lavoro a causa di quel dispettoso giocherellone che trova tutto ciò di un divertimento irresistibile.
Con Ciock è sempre una gara a chi fa prima e, a volte, diventa dannosa per lui, la vittoria: devi essere, infatti, più lesto di lui a raccogliere i cocci degli oggetti che la sferzata di una sua zampata birichina ha riversato giù dalla tavola e ridotto in minuscoli frammenti, che lui scambierebbe volentieri per cibo commestibile.
La sua insaziabile ingordigia gli poteva essere fatale l’altra sera. Una grossa teglia da forno riempita di pizza cruda sostava sopra il tavolo della cucina in bella mostra di sé, pronta per essere infornata: un chilo e mezzo di farina di grano tenero tipo “0 0”, impastato con un intero panetto di lievito di birra da 25 grammi sciolto in acqua, e un pizzico di sale quanto basta, questi gli ingredienti di quel capolavoro assoluto di impasto che, nel giro di un’ora scarsa, era lievitato meravigliosamente fino a prendere la consistenza di una grossa palla morbida ed elastica; con le dita era stata stesa sulla teglia imburrata come fosse gomma e, nel frattempo che ci si compiaceva a profusione di quanto fosse riuscita bene che forse così non era mai riuscita, si era acceso il forno a 180 gradi, nell’attesa di infilarcela quando si fosse giustamente riscaldato. Questi i piani per la cena.
Ma Ciock non era d’accordo. Ha aspettato che si lasciasse scoperta la cucina per quella che è stata la frazione esatta di un minuto, per agguantare la teglia sopra il tavolo e divorarsi in un unico micidiale risucchio l’intero l’impasto lievitato crudo che c’era dentro, e dopo girare tutto soddisfatto per la casa, ripassandosi di continuo la lingua intorno al muso a mostrare di avere gradito. Un gradimento che è durato poco, troppo poco, il tempo di sprofondare in uno stato di semicoscienza sopra il pavimento, con le zampe aperte, il ventre che si faceva sempre più gonfio mentre dentro lo stomaco il lievito continuava a fare il suo egregio lavoro; soltanto la coda, mai immobile, e gli occhietti vaganti nel vuoto di una disperazione che solo lui può sapere quanto sia stata grande e insopportabile, soltanto queste due parti di un corpo ormai esanime dicevano, a noi che gli stavamo intorno impotenti e altrettanto disperati, che era ancora vivo, ancora vivo, nonostante tutto. Ma per quanto?
Quanto gli sarebbe rimasto ancora da vivere, se non lo avessimo di corsa portato in clinica?
Vi è rimasto tre giorni in clinica, quel fetentone, tre giorni in cui ha dovuto smaltire a forza di lavaggi e di altri farmaci che i dottori gli hanno diligentemente somministrato, la gravissima intossicazione che si è procurato. E quando finalmente ne è uscito, barcollava ancora come non si fosse ripreso del tutto. In effetti, anche a casa era assente, inappetente, spento di fronte ad ogni richiamo di gioco, a dispetto di ogni sollecitazione ci inventassimo per riscoprire dentro le sue iridi pigre traccia vivente del Ciock che conoscevamo. Lo abbiamo guardato per giorni timorosi, diffidenti di poterlo più riavere uguale a prima che diventasse vittima della sua ingordigia. E ciò non ci ha fatto dormire la notte, peggio che nei tre giorni in cui è stato lontano da noi, trafitto dalle flebo.
C’è voluta una settimana. Una settimana di sguardi nostri timorosi e diffidenti, una settimana di suoi tentativi malriusciti di inseguire la mia, sua, smangiucchiata pantofola che ora ero disposta a regalargli con tutta me stessa, a costo di rincorrerlo per tutta la casa, zoppicando. Ma non succedeva niente, o perlomeno succedeva poco alla volta.
Poco alla volta, ora dopo ora, Ciock è ritornato a noi anche con l’anima. Anima del cagnolino giocoso, dispettoso, vivace che conoscevamo, anima di Ciock, meticcio di labrador e chissà chi, ma cosa importa?! Che gran sospiro di sollievo!
Sì, ce l’ha fatta, anche questa volta è rinato, quel terribile di Ciock!
Conosco bene l’amore per il cane, dato e ricevuto. Lupin ultimo dei miei cani (26 mesi) è stato adottato da noi e viene dalla Puglia. Aveva 4 mesi, l’anno scorso è riuscito a mangiarsi la scatolina che avevo messo con adesivo in terra – cattura formiche – sono riuscita a farlo vomitare, per fortuna.
E’ un percorso faticoso e impegnativo con quelli che sono più diavoletti, Benny, il precedente non mangiava niente che non fosse dato da me. Lupin, come da nome, in cucina viaggia a due zampe… E’ tuttavia un amore grande che ci accompagna per un pezzo di strada e certa di non sembrare ridicola a chi, come me, ama gli animali, posso dire, possiamo dire, è il nostro bambino peloso.
Buona passeggiata di vita e… occhi aperti.
Sandra
Il mio primo cane si chiamava Pongo. Anche lui un incrocio tra un labrador, e una serie di altre razze non meglio identificabili. Lo scelsi da cucciolo. O meglio. Ci scegliemmo. Diventò il mio “figlio di un cane”. Mi lasciò a soli 10 anni, a causa di un brutto male.
Chi mi conosce sa che non piango mai. Per lui feci un’eccezione.
Non volli più cani per diversi anni. Poi arrivò un cucciolotto, che qualche anima d’inferno aveva buttato in un cassonetto.
Non è come Pongo, e non lo sarà mai. Ma è un tesoro. Perché il fatto è che ciascuno di costoro ha una propria identità. Ed è possibile voler loro bene senza nulla togliere a chi li ha preceduti. E loro ripagheranno con tutto il bene di cui sono capaci.