Il treno rallenta sferragliando, prima di fermarsi ad un metro da me.
L’altoparlante annuncia il nome di una stazione ignota dove non vedo scendere nessuno.
Gli è sempre piaciuto cogliermi di sorpresa; non voglio deluderlo questa volta.
Non sono io ad avere paura di Lui, ma viceversa.
Rimango infallibile dietro i suoi occhi scuri e capisco che posso farcela.
Mi siedo sulla panchina più lontana dal lampione arrotolando una sigaretta tra le mani.
Non provo nessuna apprensione, ho le chiavi di casa.
Mi ha affidato l’intero mazzo promettendo una fiducia incondizionata.
Una corona di piccoli aggeggi lavorati minuziosamente che mi porto in giro da tempo nella borsa.
Alcuni arzigogolati come sottili orpelli barocchi, altri lisci e abnormemente lunghi.
Chiavi d’ingresso, della biblioteca, dello studio, della cassaforte.
Fuori della racconta dei pensieri sento il ruggito sincopato del treno che si allontana, nel sussulto singolare di un nuovo destino.
Il cuore rabbrividito inizia a battere, al ritmo incessante dei pistoni pesanti del mezzo lanciato nel vuoto della rincorsa.
A Lui non ho mai svelato il mio segreto, poiché sapevo che l’avrebbe violato.
Avevo solo accettato un posto nella sua casa nell’angolo più vicino all’apertura.
Superficie virginale di muta memoria che abbagliò il suo essere premiando il mio volere.
…Era una sera simile a questa: invincibile e spregiudicata.
Sfioriva ogni cosa e l’aria pungente non ospitava che venti pietosi.
La voluttuosa radicale pigrizia della stagione aveva contagiato tutte le menti e le azioni; tuttavia non impediva di rifugiarsi in qualche appartamento tetro offuscato dal fumo di tabacco, per ammazzare il tempo e decidere di giocare a qualcosa.
Il tavolino era gremito di uomini, di mazzi di carte e piccoli portaceneri smaltati di rosso.
Prima dello scoccare della solenne mezzanotte, l’umidità fredda del mare s’innalzò lentamente verso la costa, penetrando nelle ossa e nella massa spugnosa degli organi.
Si aprì a ventaglio ed andò turbinando contro la vetrata dischiusa, come a prendersi gioco del cinismo impudente delle pettegole presenti, che ciarlavano vicino a me nell’altra ala del gran salone.
Si respiravano le tensioni nelle braccia gesticolanti parzialmente scoperte da maniche avvoltolate.
“Cosa mettiamo nel piatto?”.
La padrona di casa con i riccioli cotti appena liberati dai bigodini mosse un sorriso sguaiato.
“Una Donna!”.
Sogghigni carnascialeschi si levarono da tutte le parti.
Come rifiutare la proposta stuzzicante di una comitiva senza contorni e senza colore?
Una campionatura triste e sfocata che trasudava reclusioni: maschere incartapecorite dalla cipria, con sguardi febbrili e labbra spioventi.
“Quale Donna?”.
Non avevo mai visto tanti individui avere un aspetto così incorporeo; a dispetto della raffinata eleganza esibita.
Con l’incedere dei minuti, il gioco della Bestia conquistò controllo e potere, a dispetto delle regole mutuate degli anni addietro, dove bastava richiamare il giro per dare a tutti l’opportunità di rifarsi e godere del divertimento.
“Ci giochiamo la più Bella!”.
Le compagne mi lanciarono un’occhiata strana e licenziosa.
Si stava forse malignando su di me; la corrotta significazione della scommessa tra il sacrale raccoglimento e l’imperfetta trasparenza.
La vista obnubilata dall’alcool e dalle fandonie sosteneva la partita simulata, con segni increspati e vaporosi di geroglifici tribali dietro la schiena.
Mosse depravate di uno stratego dalla mente bacata.
La prima propensione all’inganno coltivata agli albori ed eternata integralmente.
Ricordo quel suo viso pesante e marcato, stranamente non rugoso.
Quasi di cera.
Possedeva la sinistra saggezza del mondo ludico; cultura, sicurezza, memoria, cognizione, intuizione.
Il cotone della sua camicia impiastrata che sfregava contro la mia pelle nuda; il corpo che fremeva strusciando su di me.
Il giorno dopo sobrio e ravveduto, mi aveva messo in pugno un anello con un ingombrante solitario incastonato.
Il gioiello non rifletteva nessuna luce ma solo i lineamenti corrucciati della bisnonna.
Io non riuscii a muovere un solo muscolo del viso.
Mi teneva stretta con il torace spalmato sui seni alla ricerca di qualcosa che gli era stato negato per sempre.
Mi pungolava i capezzoli nella logica indifferente del momento.
Prima di poter fermare le sue mani che s’infilavano tra le mie cosce, mi resi conto che volevo solo abbracciarlo. Niente di più.
Si umettava le labbra sdoppiando lo sguardo a più strati, tentando di aprire il mio involucro in un atto privato che avevo bandito.
“Bella”.
Lui, nel completo di taglio londinese ed io nuda come un agnello.
Ho trattenuto il fiato in un bozzolo in bocca di crêpe di fili dorati e sottili.
Non ho potuto baciarlo nell’eco che rimbalzava d’odori di sottobosco e truffa.
Mi ero irrigidita nella consapevolezza della mediocrità; mentre il suo viso rimase lì, immobile, decapitato dalla mia innocenza…
Questa volta è la mia mano che muove la presa.
La luce fioca di fine autunno tocca i contenuti dei pensieri in dita meticolose.
Mi descrive ogni volta il mio stato di rivoluzione permanente.
Sento di aver bisogno niente più che delle mie sensazioni.
Già vedo i suoi occhi da matto risplendere come micce.
Trovo il massimo del piacere nell’orrore delizioso che mi assale ogni volta che mi perde.
Come un primitivo vuole ancora intuire che il nostro cerimoniale potrebbe battere chiunque in controbuio, rilanciando una scommessa a suo piacere.
Ma i baci rubati sono come sanzioni che cospirano contro di noi.
La panchina scricchiola e ricompone la scena magistrale.
Un cratere che erutta tensioni ed emozioni.
La serie d’esplosioni suggestive in un approccio di licitazioni stimolanti.
Defluisco.
Questa Notte ci separa come due valve di una conchiglia oscura.
Ha preso il suo spazio nel mondo tra le note vellutate dell’abbandono.
La mia lingua da forma ad irregolari astrazioni cinetiche espresse nel fumo olente dell’ultima sigaretta.
La matrice simbolica della sua barberia rattoppa il doveroso scarto.
L’avversione che provo per lui sfuma nell’aria burrosa del riconoscimento.
L’anno sta oscillando sui cardini silenziosi del solstizio, ma io scelgo sempre di restare ingenua; non percependo urgenza, né mito.
Nel silenzio magico del prossimo inverno mi rifaccio della sua dichiarazione.
Butto la briscola e trattengo il mazzo e le chiavi.
Per dimostrare ancora una volta la mia morigerata abilità a non andare mai in bestia.
La partita potrà chiudersi così.
Non appena l’avrò aiutato a salire sul treno, risentirò nel naso l’odore amniotico della salinità del Mare.
Perché se è vero che l’anima mi definisce, non sarò mai la sua Bella Creazione.