( 8 marzo 2008 – una storia vera, dedicata ad una donna vera, una di quelle che spesso incontriamo nella vita reale )
Nel fiore della sua gioventù doveva essere stata una donna molto bella.
Io la conobbi intorno ai suoi sessant’anni.
Una nonna, simpatica, gentile, buona d’animo.
Aveva un carattere giovane e allegro, sapeva relazionarsi con i bambini con grande affabilità e i miei figli l’adoravano.
Era la loro babysitter, lavoro faticoso per una persona di quell’età, ma aveva bisogno di lavorare ed io avevo bisogno di lei.
Era amica di una vicina di casa che la ospitava da quando il suo unico figlio per compiacere la giovane moglie che non voleva la suocera per casa, la casa cioè di Irene in cui gli sposini si erano istallati dopo il matrimonio, costretto alla scelta tra l’amore filiale e quello coniugale, aveva pregato la madre di trovarsi una sistemazione.
E così Irene, come l’ebreo errante, aveva preso le sue carabattole trasferendosi a casa dell’amica come lei sola a cui faceva compagnia.
Io lavoravo, i miei bambini erano piccoli ed era difficile trovare una persona fidata a cui lasciarli. Accettai la sua offerta e l’assunsi quale vicemadre.
Fu così che venni a conoscenza della storia della sua vita, degna di un romanzo di Carolina Invernizio.
Era nata in una cittadina di provincia, in una famiglia della buona società locale, con tre fratelli più grandi.
Era stata allevata a pane e sacrosanti principi, ma grazie alla sua indole docile non aveva avuto difficoltà ad uniformarsi ad essi.
Nessuno dei suoi familiari aveva, però, tenuto in conto il fatto che la sua bellezza potesse esporla alle prepotenze di un maturo parente che l’aveva fatta rapire ed aveva abusato di lei, rispedendola, soddisfatte le sue voglie, ai suoi genitori e ai suoi fratelli.
La famiglia si aspettava un matrimonio di riparazione, tanto più che la ragazza era incinta. Eppure Irene, abbarbicata alla sua dignità, si opponeva con tutte le sue forze.
Il maturo mascalzone irresponsabile, rifiutato, sposò di lì a poco una delle cugine di Irene, che pur sapendo quanto era accaduto, non disdegnò le nozze con l’uomo ricco e titolato, mentre la poveretta, svergognata, fu cacciata di casa.
In città e nei paesi d’intorno la sua vicenda era sulla bocca di tutti.
La moglie del notaio ne ebbe pietà e l’accolse finchè il bambino nacque e compì l’anno.
Poi sola e senza mezzi, si trasferì in una grande città dove, sistemato il figlio in un orfanotrofio, si cercò un’occupazione come domestica fissa per risparmiare il più possibile e mantenere entrambi in modo onesto e decoroso.
Seguiva il bimbo con tutta la dedizione possibile, visitandolo tutte le domeniche, pagandogli poi gli studi e provvedendo ad ogni sua necessità.
Quando, finalmente diplomato, il ragazzo si trovò a sua volta un lavoro, Irene potè finalmente vivere con suo figlio alcuni anni felici, finchè egli non trovò la compagna dei suoi sogni e decise di sposarla.
Da quel momento nell’appartamento che quella donna coraggiosa aveva acquistato con i suoi risparmi non c’era più posto per lei, poiché la nuora non la voleva, gelosissima del marito e delle attenzioni che rivolgeva alla madre.
E così Irene si era trovata una sistemazione provvisoria come dama di compagnia prima e come vicemadre poi.
La sua tristezza stava nel fatto che non aveva potuto veder crescere il figlio prima e i nipotini dopo, ecco perché amava i miei bambini, riversando su di loro quell’affetto che non era accettato in famiglia.
Una storia triste la sua, che mi ha fatto sempre riflettere su quanto possa essere grande la cattiveria degli esseri umani.
Morì presto, tra le lacrime di coccodrillo dei suoi e perfino quelle dei fratelli che si presentarono al funerale, pentiti per l’ostracismo che le avevano inflitto quasi mezzo secolo prima.
I miei ragazzi la ricordano ancora con affetto per la sua dolcezza, per la sua bontà e per quella sua meravigliosa torta che preparava spesso per la loro merenda al ritorno dalla scuola.
Proprio oggi a tavola i miei figli ormai adulti stilavano l’elenco dei loro dolci preferiti, confrontando le mie modeste capacità con quelle della nonna e inaspettatamente uno di loro se ne è uscito con una frase inattesa:
“Certo, però, che la torta di Irene era magnifica….”
“Soffice…”
“Buona…”
“Deliziosa…”
“Con tanto zucchero a velo che svolazzava per la cucina quando la mangiavamo…”
“Perché era così particolare, mamma?”
Perché la sua era una torta semplice, di quelle che piacevano e piacciono ai bambini di tutte le età, impastata d’affetto e dedizione, decorata d’amore e bontà d’animo, arricchita del dono di sé che deve essere compreso, accettato, rispettato e contraccambiato con la sincerità custodita nel cuore dei bimbi che riconoscono e capiscono.
La vita è meravigliosa e spietata e noi ci stiamo dentro……….
Elisa
Alla faccia della nuora cretina e del figlio ingrato !Hanno perso l´occasione di vivere con una persona cosí speciale ………e di assaggiare la sua torta.
Una storia che é una lezione di vita. Una grande Donna, passata inosservata dalla gente povera di sensibilità e umanità, ricordata ed amata da coloro che non si soffermano solo alle apparenze, ma sanno guardare dentro ed anche oltre a ciò che é semplice e vero, raccontata nello stile magistrale di Anna.
Conviene meditare.
Sandra
Che bella storia… bella come lo sono tutte le storie tristi. Non mi ha lasciato l’amaro in bocca, nonostante la cattiveria di alcune persone, perchè Irene ha avuto la possibilità di amare i tuoi figli ed in qualche modo è stata ricompensata dei torti subiti. E questo anche per merito tuo, cara Anna. Buona festa della donna a te e a tutte le Donne come te.
una storia bellissima! anche se tristissima, fortunata chi ha potuto attingere a quel pozzo, povera nuora che pena mi fà sarà suocera anche lei… e raccoglierà tutti i frutti! con gli interessi naturalmente!
Una bella lezione di vita.
Alle grandi Donne come Irene, passate inosservate, nella vita, dalla gente povera di umiltà e sensibilità, che non ha saputo guardare oltre le apparenze, alla gente che l’ha saputa apprezzare ed ha fatto del suo ricordo un esempio ed un inno alla vita.
Conviene meditare e riflettere su ciò.
…..grazie a tutte, anche a nome di Irene….
anna
Davvero una bella storia, un modo eccellente di riportare a galla la vita di qualcuno che merita di essere ricordato.
Perchè in questa storia la cattiva è la nuora?
Stiamo scherzando? Le bestie sono l’orco che l’ha stuprata, i parenti che l’hanno cacciata e il figlio che doveva andarsene per conto suo e non portare la nuora in casa e poi cacciare la madre.
Io ho la suocera in casa (ma è casa mia , lei è venuta dopo) ed è la cosa più assurda e più sbagliata del mondo. La nuora è sicuramente stronza, ma è quella che ha meno colpe in questa storia, perchè è quella che aveva meno doveri nei confronti della povera Irene.
Possibile che diamo sempre la colpa alle donne, noi stesse?
per Germana.
non mi è automatico comprendere contro chi siano diretti i tuoi strali (Tilly? me?), ma forse una lettura più pacata ti avrebbe fatto rilevare che Irene è stata una vittima (delle convenzioni, dell’educazione, dei rapporti sociali e familiari, delle incomprensioni in genere) e rappresenta per me l’emblema di molte donne del suo tempo e di ogni tempo.
circa la nuora, (da come hai stilato il tuo commento non comprendo quale sia il tuo pensiero e la tua esperienza, ma scusami, la cosa è marginale), credo che il suo atteggiamento sia colpevole, perchè testimonia che tutti, uomini e donne, sappiamo se vogliamo, essere crudeli.
il concetto di “dovere” è molto relativo.
nessuno di noi ne ha di più o di meno da affrontare, ma ne abbiamo tutti in relazione a quella disponibilità all’altruismo (non aggiungo cristiano, perchè è di moda definirsi laici e potremmo aprire volumi da Treccani sull’argomento e comunque le capacità dialettiche di molti sono così limitate che è inutile addentrarsi in argomenti spinosi) che è proprio della coscienza di ciascuno (e pure come tale coscienza si formi e cosa essa sia necessiterebbe di un trattato).
per finire, sono fermamente convinta che se le donne fossero più solidali, il mondo girerebbe in modo diverso (ma anche questa idea, altrove accennata, ha suscitato le ire proprio di una donna che ovviamente non ha capito di cosa intendevo parlare).
Non credo che Germana si riferisse al mio commento (ma chi puó dirlo?), comunque mi ritrovo a dover spiegare le mie parole, ho parlato della torta, quindi il mio intervento era un pochino ironico, se dovessi dire quello che penso direi che essere donna non vuol dire non vedere come a volte sappiamo essere stupide, e nello stesso tempo non mi impedisce di dire che sappiamo essere straordinarie come Irene, e come Anna che ha voluto raccontarcela. Fai una cosa scrivi di una povera nuora bistrattata, saró felice di lasciare un commento.
Credo di non aver detto nulla in contrasto con ciò che sottolinei tu ora, Anna.
Il racconto è tenero e non lo volevo criticare.
Mi ha fatto solo un po’ male leggere da più di una risposta che si individuava la nuora come massimo male, o almeno era l’unico colpevole degno di essere nominato, no, è vero, Tilly ha nominato giustamente anche il figlio.
Rimango del parere che siano maggiormente colpevoli i famigliari e, ovviamente, lo stupratore, ma mi parrebbe così ovvio che non pensavo fosse il caso di sottolinearlo.
Credo che un figlio, una madre e dei fratelli abbiano sicuramente più responsalibilità e, perchè no, doveri nei confronti di una madre, di una figlia e di una sorella, di quanto ne abbia una nuora. Se mia figlia sta male, mi sta più a cuore della fidanzata di mio figlio, se mia madre ha bisogno, corro, se ha bisogno il mio vicino di casa, correrò dopo, questo intendevo.
E non volevo lanciare strali, volevo solo dire di essere più solidali fra di noi, come hai detto tu.
ho letto il racconto è mi è piaciuto molto. irene doveva essere una di quelle donne rare e meravigliose che accettavano il destino quasi con accettazione per educazione come loro era stato insegnato. però l’ingratitudine di quel figlio egoista devono averle fatto molto male. si perchè il figlio era lui anche se sicuramente aiutato da una nuora cattiva, cattiva come solo certe volte le donne sanno essere