Ero piccolo.
Una statua mi affascinava.
Il suo era un nomen omen: Diletta; e per me era sottinteso “Pre-”, naturalmente…
Ero lì, all’ultimo banco. Tutti i compagni mi separavano da lei, ma io non riuscivo a guardare altrove. Sapiente, eloquente, carismatica. Quel che pronunciava non era solo verbo, ma un profluvio di miele. Le mie non erano orecchie, ma un palato, onorato del meglio che si possa desiderare.
Era anche bella. Ma nonostante ciò la pulchritudo non superava la sapientia.
Restavo incantato, mi beavo della sua sconfinata cultura.
Un giorno fece una domanda sulla mitologia classica. Io la amavo, fin da bambino. Avevo letto tanto, conoscevo molti racconti. I loro protagonisti erano per me dei veri miti, intesi come simboli. Mi insegnavano ciò che è giusto e ciò che non lo è, fin dalla tenera infanzia.
Nessuno conosceva la risposta. Io vinsi ogni ritrosia e… sì! La alzai. Alzai quella mano pesantissima, refrattaria, che voleva tanto rimanere giù, senza riuscirci, purtroppo.
Lei la vide. Mi guardò incuriosita, mi concesse la parola. Mi chiese se conoscevo la risposta. Ed io non mi limitai ad esaudirla, ma andai oltre. Cominciai a illustrare il mito. Più il tempo passava e più mi infervoravo, notando il suo sguardo ormai non più solo interessato, ma quasi illuminato. O almeno così a me sembrava…
Quando conclusi l’intervento, i miei compagni di classe mi concessero un caloroso e tenerissimo plauso, ma io non percepivo null’altro che il favore della mia Guida.
Stava segnando la mia esistenza. Il mondo che mi si apriva di fronte era incantato, irresistibile.
Non lo avrei mai lasciato.
Un giorno afferrai il coraggio che avevo in me e lo feci.
Era suonata la campanella. Le lezioni erano finite ed io avrei dovuto percorrere a ritroso, sull’autobus, i venti chilometri che mi separavano da casa.
Lei era lì, assorta. La cattedra, in confronto, era un piccolo banco, come quelli dei bimbi d’asilo. Non perché fosse piccola, anzi… Ma lei la sovrastava, con la sua imperiosa auctoritas, con il fascino che promanava, intenso, dalla sua persona.
E poi il suo ventre era sempre più gonfio… La Natura chiede alle Donne uno sforzo aggiuntivo, deciso ma decisivo, necessario alla Vita.
Non potei farne a meno. Mi avvicinai all’appendiabiti, le presi il cappotto, lunghissimo, e glielo porsi. Rimase attonita, non l’avrebbe mai immaginato, tantomeno da un ragazzo così timido.
Mi guardò stupita, con un’intensità acuta e incuriosita, che mi penetrava fino in fondo. La mia anima vacillava, costretta a una rotazione inarrestabile.
Accettò il soprabito. Mi sentii fortissimo, superiore alla mia età, al mio fisico, a tutto.
Uscimmo insieme da scuola. Non ricordo nulla di cosa ci dicemmo, solo che ero incantato. Volavo in Cielo, sospeso nell’Etere, ma camminavo in Terra.
Giungemmo sul ciglio della strada. Lei mi disse che sarebbe andata oltre, e che lì ci saremmo salutati. Mi fissò profondamente, insufflandomi quell’attitudine superegotica che non mi avrebbe mai più abbandonato.
Mi sentivo invulnerabile. Toccavo il cielo con un dito. La mia vita non era più la stessa, sapevo cosa scegliere. Non mi era più oscuro il momento X, quello in cui si sceglie la propria strada.
Proprio quella, in effetti… L’asfalto non c’era più. Mi muovevo nel Nulla, in un Oceano misto di emozioni e fastigi. Il culmine è una meraviglia beatifica, imprime alla vita un senso speciale.
Eppure la strada c’era: come può essere altrimenti? Me ne accorsi solo quando un’auto, in piena corsa, mi strisciò, fianco a fianco, richiamandomi al reale.
Attraversavo senza rendermene conto e solo allora lo capii. Avevo rischiato la vita e non me n’ero neppure accorto.
Chi era stata a salvarmi? Non ne ho alcun dubbio: la mia Musa. I suoi occhi glauchi avevano stornato un Fato ingiusto, prematuro.
Poco dopo ci avrebbe salutato, senza neppure finire l’anno. Il bimbo che recava in sé la chiamava altrove, ad esercitare la funzione materna.
Ed io son qui. Faccio quel che faceva lei, sperando comunque di meritare la sua stima, pura, obiettiva, imparziale, secondo il criterio sovrano che impronta il rapporto tra docenti e discenti.
Spero che tu, o Diletta, e quel bimbo che era in te, e ora di certo si staglia tra adulti meritevoli e lungimiranti, incontriate queste righe, poche ma sentite…
Il loro unico, umile, ma forse utile scopo consiste nel donare al lettore i ricordi di un fragile tedoforo del Passato.
Memoria che fu, Presente latente, Futuro che verrà.
Che bel racconto. Il ricordo di un breve ma splendente amore. Complimenti anche per la scrittura!
Molti raccolgono sul cuore l’amore tra i banchi, magari senza maternità precoce, ma di sguardi incrociati e silenti e tanti sensi unici. La bellezza sta nel conservarli nel cuore e raccontarli, magari qualcuno-a- si ritrova e scopre una realtà che non conosceva.
Grazie.
Sandra
Diletta, nomen della scelta, il senso di un’inscrizione profonda, un’incisione che ribalta in esterno il più profondo segno, scambiando la visione del concavo con il convesso durante il tempo successivo; quando il mestiere dell’insegnante corrisponde come vocabolo nobile alla funzione della promozione, dell’educazione, che con termine onnicomprensivo i greci chiamavano paideia… senza bisogno di prefissi. Leggendoti son tornato indietro nel tempo, in modo utile. GRAZIE di cuore
Bellissimo racconto. L’amore non ha età. A volte chiede solo coraggio. A volte … rimane indelebile la dolcezza del ricordo.
Il vero miracolo della vita. Da accettare sempre, rifiutare mai.
Sicuramente quel ragazzo ha in sé il seme dell’amore romantico. Quel dono che gli permetterà di vedere la bellezza di una persona anche a distanza di decenni. E saprà asciugare una lacrima trasformandola in un sorriso.
È una fortuna che non possono vantare in molti.