Erano tre, quei ragazzi.

E poi c’era la loro cara mamma.

Andavano a trovare gli zii, i cugini, un’altra famigliola.

Il sole era andato a coricarsi, la luna vegliava nel cielo.

La macchina era ferma. I quattro si muovevano nel buio.

Ma quella strada era pericolosa: retta, lunga, un invito irrinunciabile alla velocità.

L’ebbrezza era al volante, con accanto la sua anima gemella: non guidava sulla destra ma a sinistra. Un motore anglofono, roboante, indefesso, travolgente.

Il conducente perse il controllo.

Volava, l’autovettura: non più un veicolo, un deltaplano…

Neanche: una mina vagante, un bolide sfrenato.

E loro? Facile: si tenevan per mano.

Davanti c’era lui. Spavaldo, sicuro, ignaro. Il pericolo? Un mistero…

Lo seguiva il fratello, medio, innata emulazione, copia conforme, pedissequa simultaneità.

Poi la mamma, tramite indispensabile di tutte le sue gemme.

Da ultima la sorellina, piccola, indifesa, tenera e splendente.

Uno dietro l’altro, sicuri del loro amore, convinti di una vita inestirpabile.

Quella catena era il simbolo della loro sicurezza: anelli stretti, uniti, compatti.

Ma il lampo li raggiunse.

Non c’era più tempo.

Non un mezzo di trasporto: un disastro contundente, un urto proteso contro l’alito vitale.

Il mostro era arrivato.

Piombò d’un tratto sulla piccola comitiva.

All’attimo seguì l’eternità.

Il tempo era indistinto, impalpabile, irreale.

Lo spavaldo capì che esitare era la fine.

Raccolse le sue energie e si tuffò in avanti, senza pensare a ciò che si lasciava alle spalle, sperando solo di evitare l’impatto.

Il fratello era lì, pronto a seguirlo, come sempre.

Quante volte avevano percorso i viali, senza mai separarsi…

Il grande si pavoneggiava, lui si riparava alla sua ombra. Il grande sceglieva, lui imboccava il suo stesso sentiero. Il grande esagerava, lui lo seguiva.

Come quando, quella volta, la strada aveva ospitato i rotoloni dei suoi avversari, mentre il piccolo assisteva, acquisiva, incamerava, razionalizzava, attutiva e vagliava.

Fu allora che la madre capì.

Non c’era margine, il primo aveva osato, il secondo almeno andava salvato.

Lo tirò a sé, con tutte le sue energie, con un’angoscia prorompente e disperata.

Fu un gesto istintivo, non meno del primo: se quello era azzardato, questo era difensivo.

Salvezza, non audacia.

Criterio, non avventatezza.

Testa, non cuore.

Se la prima equivale alla ragione, il secondo al pericolo.

Fu come un flash immediato.

L’auriga capì che la sua Formula Uno diveniva ferale.

Frenò, sterzò, fece tutto il possibile.

Ma riuscì a fermarsi solo cento metri più avanti.

Intanto aveva incrociato il suo ostacolo: semovente, vitale, inatteso.

Lo aveva letteralmente sbalzato.

Quella folata improvvisa, come una sferzata impietosa, gli aveva imposto il ciglio della strada.

Solo una frazione di secondo gli aveva evitato l’impatto fatale…

La mano della madre aveva ritratto il medio, ma non il dito, bensì il figlio.

Tra gli anelli si era creato un piccolo varco, il pilota neppure l’aveva notato.

Il grande era volato in avanti, gli altri due erano rimasti stretti, ancorati alla Mater.

E lei urlava.

Due le erano accanto, il terzo mancava.

Il buio nascondeva tutto, e lui era lì, che mordeva la terra.

Anzi, no: era l’erba cingente l’asfalto, benedetta, a inumidirne la diafana essenza.

Il pallido conducente, inebetito, uscì dal veicolo.

Tornò sui suoi passi, le mani nei capelli, il terrore sul viso.

Era sicuro del disastro, di aver massacrato innocenti.

Fu allora che li vide.

Una donna, desolata, continuava ad urlare, disperata.

Attorno i suoi virgulti, tranne uno, fatalmente discosto; ma illeso.

Decide tutto il destino.

Possiamo organizzare, sistemare, gestire quanto vogliamo. Basta un istante.

Quel reo virtuale, già convinto di aver commesso un misfatto, capì di esser salvo.

Tornò sui suoi passi, l’orrore sparito, il sorriso sulle labbra.

Lo scortava un senso di colpa meramente virtuale.

La famigliola era di nuovo riunita.

La chioccetta piangeva, avvolta dal suo firmamentario pigolìo.

Mai più li avrebbe lasciati.

Uniti, addestrati, avrebbero visto il mondo con occhi diversi, coscienti che nulla è scontato.

Il rischio ci accompagna, ci pedina, ovunque noi andiamo.

Sta a noi depistarlo, ma non basta.

Ci vuole la sorte.

Quella che non solo fa rima con l’altra, ma la storna, l’abbatte.

E ci fa narrare le cose, rendendo il passato un puro ricordo, un monito perenne, un magistero comune.

La vita è una lezione, experientia docet.

Un commento su “In medio stat Salus”
  1. Tutto d’un fiato… come a volte la vita impone… e spesso c’è chi ne farà l’unica vitesse… del suo essere umano. Umano… umanoooo!! ..umano è aver consapevolezza… abbiamo un corpo perfetto… una macchina regolata per armonizzarsi con la natura… ma non abbiamo muscoli striati per avere a fuoco la mira come un rapace. Agire a velocità inumana… è fallace per struttura il nostro fisico… è solo questione di tempo l’urto demoniaco… con cui ci confronteremo.
    Ben venga il tempo giusto e umano quello si di assaporarsi in amore e all’unisono con chi ci appartiene. Grazie Dino… si legge d’un fiato e si rallenta a pensare.

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