Quando era nato, a soli venti mesi dal fratellino, i suoi genitori lo avevano chiamato Daniele, che in ebraico vuol dire “Dio è il mio giudice”.
Era un bel bambino, figlio di adolescenti che si amavano come solo i ragazzi possono, con quella ingenua incoscienza che tutto spera e tutto può.
La madre aveva diciotto anni, un figlio già in braccio e la scuola superiore da finire.
Il padre ne aveva ventuno, era rimasto orfano di entrambi i genitori, periti in un disastro aereo, ed era sempre vissuto con la nonna che lo aveva allevato con affetto.
Lella e Giovanni erano compagni di scuola, lei minutina, una di quelle donne che conservano per tutta la vita un aspetto da bambina, lui un bel ragazzo grande e grosso, di quel genere di uomo che appare come protettivo e pronto a difendere la sua compagna.
Quando si erano visti per la prima volta, guardandosi negli occhi, si erano riconosciuti, si erano amati, sposati ed avevano avuto il loro primo bambino, Alessandro.
Avevano stupito i familiari per quella loro determinazione disperata che aveva abbattuto ostacoli e superato ogni difficoltà.
La nonna di Giovanni era morta all’improvviso, la madre di Lella aveva compreso che i due giovani vivevano serenamente il loro amore e la loro vita; si limitava, quindi, ad offrire il suo aiuto pratico quando ne era richiesta, senza essere d’ostacolo.
Farlo sarebbe stata una inutile crudeltà verso i due ragazzi giovani, ma responsabili che avevano deciso di vivere una vita solo loro, fatta d’amore e di soluzioni inattese.
La loro era una bella famigliola.
Crescevano i bambini e crescevano essi pure trovando in quel mondo di affetti la compensazione.
Nulla poteva far presagire il dolore che si sarebbe abbattuto su di loro, quella lunga malattia di Giovanni che avrebbe sconvolto gli equilibri raggiunti, turbando Alessandro e Daniele e la loro adolescenza delicata, privandoli di certezze e attenzioni, trascinandoli per strade diverse fino alla perdita di sicurezza e identità.
Se Alessandro in breve tempo divenne grande conoscitore di birre e dei loro effetti disastrosi quando eccedeva in bevute smodate, Daniele trovò nella droga una facile via di fuga dal dispiacere quotidiano di vedere suo padre sofferente e perso in se stesso.
Fu così che conobbi Daniele.
Prepotente, sfacciato, arrogante, oltraggioso, inaffidabile e solo.
Gli amici a poco a poco lo abbandonarono e nessuno volle più avere a che fare con lui.
Per sua fortuna, quando fu sul punto di diventare un rottame umano, la morte del padre prima e della nonna dopo gli diedero quello scossone che lo indusse ad affrontare il lento e durissimo percorso verso la sua redenzione.
Riuscì a ritrovare se stesso, ma nascondeva nello sguardo, a volte sfuggente, il dispiacere per quello che era stato e per ciò che si era perso.
Non mi sarei ora ricordata di lui se non avessi incontrato casualmente sua madre, una donnina fragile e addolorata che, dopo i primi convenevoli, mi racconta della tragica fine di quel figlio in un incidente stradale assurdo che ha messo fine alla sua vita sfortunata.
Una moto di grossa cilindrata prestata e mai guidata prima, l’imprevisto ostacolo, i soccorsi inutili e un ragazzo che muore.
Non credo che nel nome Daniele sia la chiave del suo destino.
Dio non è stato il suo giudice.
Credo, invece, che un Dio misericordioso lo abbia accolto a sé, prendendolo con tutte le sue contraddizioni e difficoltà, con tutta la sua tristezza e solitudine, con tutto il suo desiderio di riscatto e di rivincita e con tutta la sua voglia d’affetto.
Questo io credo…
Addio, Daniele!

 

5 pensiero su “Dio è il mio giudice”
  1. Molto bella e triste Anna. A volte la partenza é ottima, ma la strada difficoltosa, ciottolosa, spinosa.
    Credo anch’io come te, in un Dio giusto, i cui disegni ci é dato difficile capire, ma questo, credo si legga bene: gli ha dato pace fra le sue braccia. Un abbraccio a quella mamma…
    sandra

  2. Cara anna a volte alla vita che ti rema contro si puó reagire, altre volte non si trova la forza… io ho due braccia da rematore!
    Un bacio
    Tilly

  3. Quanto dolore…
    quanta ingiustizia….
    quanta rabbia…
    una vita spezzata fa male anche il solo …leggerla!
    Ciao Elisa

  4. Una storia molto triste. Un mio amico mi disse una volta che c’è chi è nato per vivere e chi per morire. Si riferiva ad un amico comune che si drogava, smetteva, ci ricadeva. Una vita confusa, una grande solitudine, un modo per dire basta alla sofferenza troppo grande.
    Un abbraccio

  5. Dio è il giudice che ci lascia liberi di vivere, che ci indirizza e ci invita a percorre stade, siano esse difficili o meno. Comunque ci segue e continua nonostante tutto ad essere nostro giudice. Osserva e ascolte le nostre pene e i nostri dolori. Ma a volte stentiamo a riconoscerlo e scegliamo strade sbagliate. Lui comunque non ci abbandona. Non ha abbandonato di sicuro nemmeno Daniele. Comunque bisogna sempre ricordare che al giudizio nessuno può sottrarsi.
    Il racconto è molto bello, molto vicino al mio stile malinconico.
    Ciao Anna

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