Ferruccio era un uomo fortunato.
Era l’unico figlio nato dal matrimonio del capitano Albino Borghetti con Maria Ortensia Ravelli.
La signorina aveva conosciuto l’allora giovane capitano negli anni dell’immediato dopoguerra, intorno ai suoi trentacinque anni, quando non sperava quasi più di incontrare l’uomo dei suoi sogni.
Vagheggiava, infatti, l’incontro con un eroe, del tipo dei personaggi descritti dalla sua autrice preferita, la marchesa Liala, un uomo, cioè, che fosse capace di suscitarle sentimenti d’amore e di passione a lei sconosciuti nella realtà, ma immaginati con virgineo pudore.
Eppure in un pomeriggio di settembre, durante un rinfresco offerto dalla carissima zia Clara nel giardino della villa “Il sogno dorato” che si affacciava sulla riva del lago Maggiore nel tratto di costa che da Ranco va verso Ispra, tra gli ospiti apparve lui, il capitano.
E apparve veramente, dal lago, sudato e con fiatone, dopo aver remato vigorosamente nella iole con cui era partito dal porticciolo antistante la via del Mu di Angera per coprire la distanza Angera – Ispra, unendo all’allenamento il piacere di andare per acqua in un giorno di fine estate.
Maria Ortensia, su suggerimento della zia, gli andò incontro con un asciugamano e un bicchiere di limonata fresca.
Fu un colpo di fulmine.
Gli occhi azzurri, i bicipiti allenati e l’energia del capitano incontrarono il garbo e la tranquilla bellezza di Maria Ortensia, cosicché nel giro di pochi mesi i due convolarono a nozze e generarono Ferruccio.
Questi, figlio desiderato ed amato, fu allevato nel decoro non ostentato, ma riconosciuto da quanti frequentavano la famiglia Borghetti
Orbene, Ferruccio, di bell’aspetto e di buon carattere, aveva studiato prima presso i Padri Rosminiani di Stresa ed aveva quindi completato la sua formazione a Zurigo.
Era, perciò, un ingegnere svizzero, come dicevano con una punta di malizia i suoi amici, ma parlava con disinvoltura inglese, francese e tedesco, piaceva alle donne, si occupava dei suoi affari e non disdegnava quattro chiacchiere tra uomini, seduto sul muretto del porticciolo asburgico di Angera la mattina del sabato, prima dell’aperitivo.
Discutevano le fortune dell’Inter, del Milan o della Juve, meno amata quest’ultima sulla sponda lombarda del lago per un’ostilità spesso nata sui banchi di scuola.
I ragazzini locali, infatti, lombardi, si alzavano e si alzano presto al mattino per raggiungere Arona sulla sponda piemontese dove ci sono e c’erano scuole rinomate e ben frequentate.
Nell’attesa di entrare, ogni lunedì, quando non teneva banco la paura di interrogazioni e compiti in classe oppure il ripasso furioso o addirittura la prima lettura di una lezione che avrebbero dovuto aver ben studiato, l’argomento di conversazione tra i ragazzi erano le fortune calcistiche delle squadre del cuore e i piemontesi, più numerosi, la facevano da padroni.
Ferruccio se ne intendeva di calcio, teneva all’Inter, dai tempi della scuola seguiva le partite con passione, ne parlava con cognizione di causa e pativa quando la sua squadra subiva sconfitte.
Proprio un sabato a mezzogiorno, quando la discussione si era fatta più animata tra lui e Guerrino Bianchi, milanista convinto, mentre gli altri amici presenti sostenevano l’uno o l’altro contendente il calore della conversazione subì un momento d’arresto: dalla direzione dell’imbarcadero se ne veniva pedalando sulla sua bicicletta quella gran bella donna di Romilde Marelli.
Ferruccio distolse la sua attenzione dall’amico Guerrino e si concentrò sulle gambe di Romilde vestite solo in parte da un paio di pantaloni bermuda che lasciavano all’aria e al sole di fine estate un paio di cosce e polpacci ben torniti.
Il suo pensiero volò con un po’ di rimpianto a quella notte d’agosto di quell’estate della loro giovinezza, quando ballavano abbracciati sulla terrazza del ristorante “La noce” e una cantante un po’ arrochita intonava “…besame, besame mucho….”.
Ripensò a quella promessa rimasta nell’aria, ma il tempo era passato e le loro strade si erano divise.
Romilde aveva sposato Amilcare Polacchini, figlio del famoso Oreste, detto “il trombetta”, che si era gloriosamente conquistato il soprannome non certo quale membro della banda locale, ma in una famigerata gara sonora che aveva coinvolto il gruppo dei coetanei della classe 1909 dopo un pranzo di coscritti con un menu a base di pasta e fagioli, polenta, cassòla e cigutìn, completata da una bella torta sbrisulona, innaffiato il tutto dal vino locale che aveva poi ispirato la non così nobile gara.
Al di là delle inclinazioni musicali di famiglia, Amilcare, gran lavoratore e con il bernoccolo degli affari aveva riorganizzato il cantiere nautico paterno, rendendolo efficiente e funzionale, cosicchè negli anni aveva incrementato il benessere della sua famiglia e raggiunto soddisfazione personale, agio e una posizione assai rispettabile in seno alla comunità.
Non gli era stato, perciò, difficile conquistare Romilde, avvenente, ma quarta dei sei figli di Doriano, il ciabattino, che in un paese in cui quasi tutti per la maggior parte dell’anno portavano gli zoccoli aveva pochi clienti e troppe bocche da sfamare a casa.
Così, se non fu proprio un matrimonio d’amore per la ragazza quello che ne seguì, generò contentezza per molti in famiglia e per motivi diversi.
Ma in quel giorno di settembre, Ferruccio, a cinquant’anni suonati da un pezzo, con una bella fama di conquistatore alle spalle e un presente in realtà ricco unicamente di lavoro, amici del sabato per l’aperitivo, chiacchiere animate sulle vicende dell’Inter e del Milan e serate trascorse perlopiù in casa, avvertì d’un tratto tutta la sua solitudine di uomo di mezz’età.
Romilde gli apparve come la mela rosseggiante e matura che occhieggiava non colta sul ramo più alto.
Non gli importava nulla del povero Amilcare.
In quel momento gli interessava solo di sé, di ciò che avrebbe potuto essere e non era stato e si disse che avrebbe potuto essere quella l’ultima occasione per lui e che doveva prenderla al volo.
Ora o mai più.
Ritornò a sentirsi quel ragazzo audace che era stato, quel giovane bello e con lo sguardo malandrino cui era difficile dire di no, quell’uomo che aveva avuto tutti i suoi desideri realizzati.
E il suo desiderio ora era Romilde e le sue gambe belle che pedalavano lente in quel mezzogiorno di fine estate.
Si diede coraggio, le sorrise e agitando una mano la salutò con un fischio di ammirazione che gettò incredulità in molti: innanzitutto in Romilde, che non si aspettava un complimento smaccato alla sua età, più abituata ormai a parlare di menopausa che di corteggiatori; in Guerrino Bianchi, in suo fratello Ernesto, in Candido Belotti e in Ernesto Invernizzi, testimoni allibiti di questa intemperanza dell’amico Ferruccio, sempre cavalleresco e compito nei confronti del gentil sesso e per finire in Ferruccio stesso che aveva lanciato il dado e ora non sapeva cosa ne sarebbe seguito.
Romilde sorrise, la sciagurata…
Rallentò, si fermò, occhieggiò gli uomini e pose infine il suo sguardo su Ferruccio.
Naturalmente salutò tutti con cortesia, in fondo erano tutti più o meno coetanei e avevano condiviso giochi, amicizia, speranze, ma Ferruccio era sempre stato per lei un qualcosa di diverso, un punto interrogativo rimasto nel cuore della ragazza che era stata e che in fondo era ancora, una finestra aperta su non sapeva bene cosa e talvolta si era chiesta se lo avrebbe mai saputo.
Da quel giorno Ferruccio e Romilde trovarono la loro intesa e ne conservarono bene il segreto.
I compaesani credono che nessuno ne avrebbe mai saputo niente se la Proloco non avesse organizzato una gara ciclistica.
Il volantino pubblicitario diceva: “Prima pedalata lacustre Angera-Laveno-Angera. Venite tutti, pedaleremo in compagnia” e più sotto prometteva “portate gli amici e i familiari, trascorreremo un giorno in allegria. Salamelle e vino per tutti”.
La cittadinanza rispose copiosa all’invito e mezzo paese si ritrovò in piazza.
I molti in sella salutarono i moltissimi venuti a salutarli e i gitanti partirono.
Tutti, tranne due, che tornarono a casa confidando in una giornata di tranquillità per il loro amore con una facile ed ovvia scusa: la ruota bucata.
Non avevano, però, pensato ai possibili sospetti di Amilcare e all’amicizia sincera di Edvige che, appena passato il molo di Ranco, non vedendo più nel gruppo Romilde aveva cominciato a cercarla con lo sguardo e fatto passare poi la voce tra i ciclisti domenicali che la sua amica non si trovava più.
Ogni membro del gruppo, che era partito festoso, voltò la propria bicicletta e tornò in dietro, dapprima preoccupato e poi sospettoso allorchè si diffuse anche la seconda notizia: pure Ferruccio Borghetti non era dei loro.
Le salamelle potevano attendere.
Amilcare, novello Coppi, tirava la volata, il gruppo dei gregari lo seguiva, nessuno fiatava, ma tutti avevano già tirato le somme e non si volevano perdere lo spettacolo.
La corsa finì tre chilometri più avanti proprio al porticciolo del rione del Mu che nel dialetto locale vuol dire Amore, in omaggio alla via che dal lago risale verso l’antico borgo dei pescatori.
Lì, davanti alla casa di Ferruccio, c’erano in bella vista le due biciclette dei fuggitivi, semplicemente accostate e lasciate alla vista di tutti con l’incoscienza di chi si sente al sicuro.
Il maresciallo della locale stazione dei Carabinieri, che aveva assistito alla partenza del gruppone dei ciclisti, non si era ancora allontanato e fu presente anche al loro ritorno.
Fu lui che convinse Amilcare a prendere le cose con calma, che suonò al campanello di casa Borghetti e accompagnò all’interno il poveretto.
Al flagrante tradimento seguirono separazione e divorzio.
Ferruccio liquidò i suoi affari e andò a vivere con la sua Romilde a Locarno, in Svizzera, ma ogni estate veleggiava verso l’Italia con la sua “Bicicletta III”, una bella barca che ormeggiava alla boa al largo del Mu.
Quando i due anziani innamorati scendevano a terra e passeggiavano mano nella mano sul lungolago, sembravano proprio due ragazzini…..
Il diavolo fa le pentole e no i coperchi!! E…, come disse il Dio Nettuno, gli affari propri non li fa più nessuno…, ma meglio così, l’amore é l’amore e fa pure tornare indietro con gli anni, cosa che non riesce a nessuno!
brava.
Ciao. sandra
Che bella stroria! Ok, brutta cosa il tradimento, ma lei non si era sposata per amore, non é una giustificazione, ma la vita é una sola, vale la pena viverla solo se si ama e si é riamati. Sei sempre bravissima, novello Coppi… bellissima, mi é suonata come una piccola vendetta (da quello che só era lui che tradiva la moglie)
Tilly
Il tradimento, di solito, provoca sentimenti di rabbia, di disprezzo e di disapprovazione, nel tuo racconto passa in second’ordine. Finito di leggere il tuo racconto mi son ritrovata un bel sorriso stampato sulle labbra e la leggerezza che ho provato spesso dopo la visione di un vecchio film interpretato dal grande Vittorio De Sica
Grazie
Ciao Elisa