Ce l’avevano fatta, alla fine. Avevano scavalcato l’ultimo ostacolo: uno strano muretto, soffice come spugna e di colore grigiastro (a dire il vero, l’impressione era stata quella di passarci attraverso), ed ora si ritrovavano lì, seduti dall’altra parte, un poco stanchi ma con la momentanea soddisfazione di essersi guadagnati uno scampolo di libertà.
Quale libertà?
In effetti, entrambi convenivano che il tutto aveva qualcosa di strano. Non si erano mai sentiti imprigionati; tutt’altro. Il posto, poi, non gli sembrava nemmeno una prigione (“Corteccia”, così la chiamavano). Eppure, in quel lasso di tempo che divide il buio profondo della notte e le prime luci dell’alba, in entrambi era nato un’irresistibile, estemporaneo impulso di fuga al quale non avevano saputo resistere. L’avevano fatto senza nemmeno consultarsi a vicenda, quasi avessero condiviso lo stesso pensiero e fossero pervenuti alla medesima conclusione.
Ed ora, eccoli qui, i due soci. Dopo un minuto di silenzio, uno dei due prese la parola:
– Bello qui, eh?
– Bello e strano… mi sembra di respirare un po’ meglio. Voglio dire, non che si stesse troppo male di là… Clima gradevole, alimentazione sana e corretta, per carità. Però…
– O senti, per favore!! Ci vuole ogni tanto, di evadere. E dai, sù. Non ce lo lasciano mai fare. Talvolta fa bene. O no?
– Sì, beh, in effetti… A parte il fatto che in questi momenti il sistema forse “dorme” ancora.
– Alt! Non lasciarti ingannare, che non si può mai dire. È vero, in questo momento gran parte dell’ammasso è ancora inattivo, ma la centrale qui fuori è più attiva che mai. Non la senti ronzare? In questo momento della notte, poi, lo sai anche tu, l’attività elettrica già si trova a un certo livello…
– Intendi per quello? La riorganizzazione delle informazioni?
– E per che cosa, se no? Chissà poi che cosa starà sognando, quello lì…
– E be’, se ci fossimo anche noi magari lo potremmo sapere!
– Ci conti così tanto? Ah, beh, tu torna pure dentro, se vuoi. Io, per il momento, me ne sto troppo bene qui. E che diamine. Ci vuole un po’ di stacco ogni tanto. Mica sempre si può…
– Ma sì, ma sì! Io sono con te. Perfettamente d’accordo. Ci siamo sempre dentro. Lavoriamo sempre. Sempre, cazzo. Tutte le volte che “lui” vede, sente, cammina, respira, noi ci siamo sempre dentro, porcaccia la miseria. È sufficiente che “lui” anche solo pensi, rifletta, decida qualcosa; che faccia partire un ragionamento, anche semplice, e noi eccoci lì a sgobbare come degli stronzi, a darci dentro, senza orari. Senza un’ombra di ricompensa. Senza niente. Solo lavorare, punto e basta. Non mi sembra giusto, ecco!
L’altro rimase in silenzio, metabolizzando lo sfogo del collega. Osservava semi ipnotizzato una curiosa lucina azzurrognola e sfumata, la quale contornava tutto ciò che i due avevano in quel momento davanti a sé. Anzi era l’unica percezione visiva che in quel momento permeava entrambi, dal momento che in effetti non c’era quasi nulla da vedere.
Dopo mezzo minuto, numero due riprese la parola. Parlava lento e a bassa voce.
– E non è la cosa peggiore. Ciò che mi alza di più certi livelli energetici, e mi manda in bestia vedi, è il fatto che sia “lui” a prendersi sempre tutto il merito. Qualsiasi cosa abbia fatto, detto, pensato. Qualsiasi cosa abbia combinato, se gli è riuscita bene e gli altri suoi simili lo riconoscono… il merito è tutto suo. Sempre.
– Ehi, ascolta questa. Te lo immagini un bello sciopero generale, con tanto di rivendicazioni sindacali né più né meno come quello che si vede lì nel mondo esterno? Quella paralisi che ogni tanto i suoi simili mettono in atto quando vogliono più giustizia nel mondo del lavoro?
– Ma… sei matto? E chi dovrebbe mettere in atto questa bischerata? I nostri fratelli? Dovresti saperlo, che non è fattibile. Noi siamo le cellule neuronali! Se davvero noi, cellule grigie, mettessimo in pratica una cosa del genere sarebbe la fine. Di tutto. Non solo nostra… Guarda solo che cosa succede in certe centraline anche solo per un leggero guasto o un mancato afflusso di ossigeno. O di linfa vitale. “Loro” lo chiamano ictus. Lo chiamano aneurisma. Lo chiamano ‘lesione cerebrale’. Comunque lo chiamino, molti di noi muoiono, mio caro. Questo proprio no. E anche l’ammasso ospite non se la passa molto bene. Lo sai anche tu. Se sopravvive, conoscerà l’inizio di un incubo che sarà ben al di là da finire. Te lo dico io. No, no, tanto vale che continuiamo a fare quelli che remano nella stiva. Non è poi così sporco, il lavoro…
– … E la salute, se pure non ci guadagna perlomeno si mantiene. Giusto?
– Lo vedi che ci sei? A questo punto, che “lui” si prenda pure tutto il merito, a ben vedere. Meglio così. (Comincia a muoversi)
– Che ne diresti di rientrare? Sono stanco di fare pausa, e del resto non sono abituato a rilassarmi più di tanto…
– Ottima idea, fratello.
Non dovettero sforzarsi più di tanto, veramente, per tornare in sede. Il sistema, un processo dopo l’altro, si andava riaccendendo. Lento ma inesorabile. Volenti o nolenti, i nostri furono risucchiati senza tanti complimenti da una forza tanto inaudita quanto invisibile. Senza nemmeno accorgersene stavano già pedalando. Riconnessi in automatico. L’ammasso, ormai in piedi, stava pensando a come programmare la “sua” giornata.
Buon lavoro, tesori belli…