Una donna definisce il proprio fato sulla base del senso che ha del mondo.
Sono un frammento di vita notturno rimasto in bilico sul picco del mio passato; non per rimpiangerlo, ma per desiderio di destinarlo all’infinito.
Il primo biancore dell’alba comincia a staccarsi strisciando sui marciapiedi, per strofinarsi contro le pareti delle case.
Posso guardare ovunque e vedere strade piene d’automobili in corsa: una geometria filante che taglia l’aria in sonorità stridule e fastidiose.
Le carrozzerie d’acciaio sfilano aerodinamiche e sorprendentemente affusolate; nessuna scia di fumo dietro. Guidare in queste condizioni è sicuro come respirare.
Posso prendere la macchina e correre veloce; magari scontrarmi contro qualcosa, solo per il gusto di farmi ancora male.
Come nuova forma di protesta.
Per tutta la vita, sono voluta entrare in ampiezza in un’altra vita.
Varcare lo spazio intermedio dove il passato rimanesse leggero, il presente importante e il futuro scartato di grandiosi progetti.
Godo dell’ebbrezza del viaggio travestita di lineamenti perduti.
Corro lungo il nastro antracite prostrato sul vuoto della strada, dove la pioggia obliqua ha reso luminoso il raggio oramai smorto degli ultimi lampioni.
Mi sono lasciata alle spalle una notte insonne d’ostinati fantasmi, stravolta dalla piattezza degli angoli deserti ed umidi della mia piccola e semplice casa.
Non ho nemmeno voglia di accendere la radio.
Nella mistica della rassegnazione sono rimasta fedele al tuo disegno primitivo; sopravvivere sino all’estremo attraverso la degradazione totale dell’urto e della perdita.
La scelta d’orgoglio di svilire la mia anima, in una sorta di solitudine più imperdonabile del piacere dei sensi.
Riaffiori in un intervallo di Luce.
Tu che hai preso parte alla mia cospirazione, pensando che le donne forti fossero allenate all’unanime indifferenza.
La tua convinzione è rimasta contagiosa e per questo mi hai suggestionato.
Ti avevo già incontrato, o mio Re, nel suono diatonico di due clacson.
Uno assordante e pungente e l’altro squillante, più basso.
Mi hai descritto uno stato di rivoluzione permanente ed io, avventuriera e temeraria, sono rimasta infissa nel quadro magistrale d’imperiose pulsioni, che ha alimentato la coincidenza fortuita, singolare e appassionante.
Ricordo come fosse ora.
La luce accecante dei fari aveva trapassato i miei occhi.
Così ho fatto il mio ingresso nella solitudine infestata della tua vita, dove noi due, chiusi in quelle stanze asettiche e fragranti di tabacco, abbiamo tracciato il nostro destino.
Mi hai mangiato, bevuto e corrotto.
Con gli occhi della fosforescenza sinistra dei lupi mannari; l’appiglio gelido di uno sguardo d’ambra liquida come puro agente provocante.
La tua vista era una telecamera nascosta che sapeva ingrandire vuoti e forme, per poi rimpicciolire e rendermi così piccola da rimanere invischiata nel tuo turbine sconvolgente.
Mi hai adescato spazzolandomi i capelli con denti di pettine devastatori; scalpato l’entusiasmo irruente nell’intendimento ossessivo di convergere in una Storia che raccontava solo scabra magnitudine.
Ti ho aspettato dal primo momento che c’ero, con l’infinita pazienza delle creature selvatiche che hanno davanti tutte le stagioni del mondo.
Una ragazzetta magra, diritta su agili gambe e con il naso puntato all’insù.
C’era una luce bianchissima quel giorno, quasi fosse fatta di neve.
Ti ho investito a grande velocità per farti sapere che ero arrivata.
Quando ho riaperto gli occhi, mi hai sorriso; con rughe ferree che solcavano la desolazione del percorso dissestato; due torce vive, rovi in fiamme che correvano ardenti verso il fato che le nutriva.
Il tergicristallo sta ritagliando energico i pensieri e i silenzi.
Oramai ha cessato di piovere.
Ovunque gli incroci sono stati sostituiti dai tortuosi giroscopi, molto più pericolosi dei crocevia tradizionali.
Niente è piu’ armonico di due strade che s’incontrano e niente è più ridicolo che due percorsi che guidano a rotolarsi per sfuggire l’uno all’altro, votando il viandante ad un eccesso di segnaletica straordinaria e inutile.
Assurdità delle moderne tecnologie, funzionalità d’occasioni che si sfiorano appena, senza toccarsi.
Ma la teoria dello svincolo questa volta assume un senso mistico e calligrafico destinato ad un rullino di una pellicola stabile e intatta.
Di mobilità immota.
La mia auto si addentra con prudenza in una rotatoria che circonda un’aiuola muschiata, adornata dai primi cenni di pelargonium zonali rosseggianti.
Sto per imboccare la curva, quando dei fari d’auto mi offuscano la vista.
La striscia grigia ondeggia avanti e indietro come una nave; ho la sensazione di vomitare il mio stesso corpo, di essere abolita.
Il vuoto è fuori e adesso mi appartiene.
Sotto di me il cofano mi appare come una cavità buia da bypassare; la mente grida vendetta, mentre le gambe chiedono di essere liberate.
Un mosaico di memorie e umiliazioni; forse la mia vita dovrà finire adesso, in questo fatale sinistro. Spogliata fuori come materia sospetta e prostrata, abbandonata.
Riapro le sfere sulle linee e le ombre di un volto sconosciuto.
Mi chiede qualcosa con gli occhi umidi di pianto.
Sono ancora qui.
Il tempo e il sole hanno soppiantato la mia tristezza, le notti rovistato la mia angoscia.
Le ultime reminescenze mi truccano ancora gli occhi per serbare il tuo odore.
In uno scrigno rugoso di un’elitra color del fiele.
Sotto,
a due metri da me.
RG.
Bella, intensa da dare i brividi.
Sublime, Greta.