La desiderava con tutto sé stesso, una bicicletta. Tutti i suoi compagni l’avevano, chi più o meno bella; chi con il nuovo cambio con quel nome giapponese così strano, che faceva fatica a tenerlo a mente; chi montava in sella a uno sfasciame; tutti comunque l’avevano. E tutti lo prendevano in giro, perché lui ancora a dieci anni, se voleva muoversi poteva contare solo su un mezzo: le proprie gambe. Non era giusto!
Alla famiglia non mancavano i mezzi di sostentamento. I suoi genitori – due brave persone – entrambi lavoravano. Per fortuna. Papà faceva l’autista per una ditta di trasporti, mentre mamma, più robusta del “vecio”, due avambracci da scaricatore, impegnava quasi quotidianamente le sue energie nel curare con successo un orticello dietro casa: pomodori, cavolfiori, patate e zucchine, belli e rigogliosi, venti metri quadrati di croce e delizia (specialmente la prima per Marchino, che come tutti quelli della sua età mal sopportava le verdure). Tipico di quelle parti.
Di bici,spiacente, nemmeno un centimetro.
Asiago (“Sleghe” per la comunità Ladina) è una stazione di soggiorno piccola ma accogliente, incastonata nelle montagne dell’Alto Vicentino. Nota come il capoluogo dei sette comuni, sorge sul famoso altopiano, ai piedi del Monte Ortigara. Qualunque sia la strada che il turista sceglie per arrivarci, il viaggio in sé è già uno spettacolo; vale la pena gustarselo. Che si salga da Bassano del Grappa o dalla vicina provincia di Trento, l’occhio attento si lascia catturare, alla vista della vallata sottostante: ad ogni tornante sembra allargarsi, sempre più. Ma ecco che d’improvviso, anche complice la grigia foschia della mattina che ormai nasconde la vista da basso, la curva decisiva fa sparire quasi di colpo il paesaggio di un secondo prima. Un nuovo panorama si apre, adesso. La strada, una volta raggiunta la quota dell’Altopiano, prosegue per qualche decina di chilometri, attraversando paesini e frazioni tra qualche piccolo saliscendi che non mette più paura a un motore già caldo e prevenuto. Le valli si allargano, il verde dei prati incanta. Ecco Foza, che vale la pena di una sosta per un caffè e brioche al baretto del paese; scendi dall’auto, respiri l’aria sana e fresca di primo mattino, e se hai azzeccato il giorno giusto (sabato, solitamente) puoi pure incappare in un bel mercatino con le relative bancarelle.
La fotocamera dello smartphone già freme per due scatti, solo immaginando quali emozioni tra non molto catturerà. Si riparte…
Qualche curva dopo, circa una dozzina di chilometri, il saluto ospitale di Gallio (“Ghèl, Paes Ladin”), per chi ama gli spazi aperti, il verde, le lunghe salutari passeggiate, un inusuale shopping alla locale erboristeria. Praticamente si è arrivati. Subito dopo Gallio, quasi attaccata a quest’ultima, la nostra destinazione.
Al profano, il nome Asiago evoca distrattamente soltanto l’omonimo formaggio… O tutt’al più, chi apprezza le confetture, avrà sicuramente sentito parlare di quel noto marchio. Ma questa è soltanto una piccola punta di iceberg. Qui si parla, signori, di una cittadina che al giorno d’oggi non significa soltanto turismo. Le vie dello struscio, il trenino che porta a spasso te e i bambini, un latte fresco che ha dato il ‘la’ ad un’infinità di gelaterie artigianali, camminano fianco a fianco con la cultura, con l’arte e l’artigianato, con le tradizioni, con la buona cucina. Appena fuori città, un Osservatorio astronomico attende gli appassionati agli orari convenuti, per uno spettacolo che non passerà mai di moda.
Asiago è ricca di Storia (doverosa, una visita al Sacrario della Grande Guerra); la guardi, ne avverti gli echi remoti in certe vie.
Ed è anche, manco a dirlo, sport. Che si ami camminare oppure pompare sui pedali, il sito di certo non delude.
E venghino signori, venghino. Qui ce n’è per tutti i gusti.
Loro s’erano dati appuntamento per le quattro circa, dopo i compiti di scuola, al vicino Laghetto di Lumera.
Così viene chiamato, si tratta in realtà di uno specchio d’acqua veramente molto piccolo; qualcosa più di uno stagno. Una strada lo collega alla principale Piazza Carli – dalla quale dista poche centinaia di metri – per poi perdersi nei boschi.
Ed eccoli qui, due dei nostri tre eroi: Luca, detto il Volpe, che vince sempre le scommesse con i compagni di scuola (forse l’unico a non spendere più di tanto per le brioches a ricreazione… bello, campare di rendita con gli altrui soldini eh?), e Matteo, alias il Teo, alias il Fischio, perché forte come lui non sa fischiare nessuno della sua età, da quelle parti. In perfetto orario, all’angolo che la via Dante forma con la Ecchelen, ecco apparire Marco, da qualche mese oramai invariabilmente, per la disperazione sua e le sghignazzate dei compagni, Marchino l’Appiedato. Un terzetto a prova di bomba. Amicizia mai apertamente dichiarata, nata spontanea come è giusto che debba essere, durante quell’intervallo di tempo irripetibile e meraviglioso, ancora carico di bei colori e scevro da vere preoccupazioni, che separa la quarta classe elementare dalla quinta. Le tempeste ormonali ancora non s’intravedono, sono oltre la linea dell’orizzonte. Oh, a loro tempo le ragazze sarebbero arrivate. Ma per ora…
Tra un lazzo e l’altro, tra vezzi e scherzetti, compiti di casa fatti da sé o sbagliati a vicenda a casa di qualcuno, i nostri hanno finito per stabilire una routine consolidata: terminato l’impegno scolastico, di solito appunto verso le quattro, è obbligatorio uscire e vagabondare. Gelateria se d’estate, Bar Paninoteca nella stagione fredda… il che da quelle parti, significa ben quasi sette mesi su dodici. Un po’ di paghetta se ne va tra un dolciume, un toast, due risate su una barzelletta. Gli argomenti non mancano: chi ha la collezione più bella di sassi di fiume, chi è più veloce nella corsa, chi ha mangiato la pizza più grande l’ultimo sabato sera, chi l’ha mollata più puzzolente in classe, tu guardi Raiplay? No, ogni tanto scarico le canzoni da YouTube e però ti devi abbonare. Sì per forza, sennò è come rubare, papà dice che si chiama pirateria…
E si cammina, tra un discorso e l’altro. Terminata la Oberdan, ecco la via che porta al Laghetto. Solo qualche mese fa i nostri avrebbero passato almeno mezz’oretta a tirare sassi sull’acqua per esercitarsi al rimbalzello e spaventare le due anatroccole facendole correre da una sponda all’altra e godendosi le loro strida di indignazione. Ma ora lo smartphone ha trasformato i ragazzini in tristi statue da museo delle cere. Tre lucertoline in vesti umane sono chine, ciascuno sul rispettivo apparecchio, intenti a navigare verso lidi che offrano loro qualcosa di più rispetto alle sponde di quel silente, noiosissimo laghetto. Qualche spiritosaggine capita ogni tanto sulla bacheca WhatsApp o Facebook di qualcuno di loro, e allora ecco a intervalli quasi regolari un “ehi, guarda qui!” e, dopo avere guardato qui, tutti giù a ridere davanti all’ennesima stupidaggine multimediale (Immagine: due peperoni. Didascalia: “Ecco la birra più amata dai balbuzienti!”).
Si sono fatte le cinque. Se passa, anche se non fai un cazzo! E’ già ora di rincasare. Dai, che se no li senti, quelli. Uffa che palle. – I tuoi non ti dicono mai niente? – Seeeh, come no. “Muoviti vai a fare ‘sti compiti, lazaròn”. E io: – Ehh! Un attimo!; – Sì anch’io! Chissà quante volte mi sono beccato del lazarus. E vabbè che cosa ci vuoi fare? – Ma tu “dopo” che cosa vorresti fare? – Boooh.
(passa un leggero odorino da intestino sovraccarico)
– O brutti bigoli, avete scoreggiato?
– No. Chi?
– Se siamo all’aperto!
– Di cosa ti lamenti…?
– Ma tu ti sei mai trovato nella cameretta di Teo?
– Solo con la maschera antigas!
– Ma andate a cagare! (piccola spinta risata generale e un piccolo rutto; copyright anonimo)
L’erba verde riveste i prati, verdi di fresca pioggia, i bei colori della primavera inoltrata cantano il loro inno.
Sono belli questi momenti. E’ bello essere amici e stare insieme, così.
Eccetto quando, fra gli argomenti di conversazione, ne capita giusto uno…
– Marco, ma quando i tuoi ti compreranno una bici?
Ahia, eccoci. Di sicuro il mal di denti sarebbe stato peggiore. Ma quella domanda… Qui bisogna salvare all’istante.
Giù una balla!
– Emm… Mi arriva adesso, quando sono sicuri che sarò promosso.
– Insomma fra tre settimane!
– E non possono prendertela prima? – Tanto ormai è fatta, no? – Tu, secchia come sei.
– E sì, vaglielo tu a dire!
– Dai: quando ce l’avremo tutti, dobbiamo andare a Gallio; ve l’ho già detto no?
– … Che poi da lì ci facciamo tutti i sentieri sotto l’Ortigara…
– Proprio TUTTI?
– E dai per dire, no?
– Ah.
Sì, tutti e tre. Che bel sogno a occhi aperti.
Sarebbero partiti di mattina e, genitori permettendo, via per un giorno intero.
Zainetto, panini, bibite, aria aperta! Libertà! Ci poteva stare, no?
Ci stava, e come. Cavolo.
Peccato che per qualcuno la bici sarebbe rimasta un lungo sogno.
Altro che tre settimane.
Nel tornare a casa, prima di dividersi e istradarsi ciascuno nella propria via, bisognava necessariamente passare per Via Monte Mosciagh dove si trovava la Bottega dell’Antiquariato, gestita dal Boson, uno alto, in carne quanto poteva esserlo uno stuzzicadenti e di poche parole. Il piccolo negozio sopravviveva pur con un risicato guadagno. All’interno, in quel momento, due potenziali clienti si aggiravano con fitta curiosità in mezzo a lampadari, cimeli delle due guerre, vecchi rotocalchi, una quantità indecente di porcellane dalla dubbia utilità, qualche musicassetta e DVD con film da effetto sonnifero. Fuori, in un cortiletto malamente recintato da rete metallica che aveva urgente bisogno di intervento, riposavano placide due cucine economiche, un artistico cavalletto a
dondolo, un curioso aggeggio in legno che non si capiva a cosa fosse servito, una mai fuorimoda bandiera della pace. Tex Willer teneva compagnia ai fumetti della Marvel dentro una cassetta da frutta.
E, quasi per caso, in fondo al cortile e appoggiata al muro…
Gettando un’occhiata distratta, i tre lì per lì non ci avevano fatto caso.
Ma il Volpe si era fermato d’improvviso. Gli altri due per poco non gli erano finiti addosso. Marco: – Ma che cazzo f…
Non finì la frase perché l’altro gli indicò col dito. -Secondo te quanto potrà venire?
– Ma è un ferrovecchio! – Chissà chi l’avrà usata, ma dai! – Chi se ne frega, posso almeno andare a guardare?
Entrarono in cortile e si avvicinarono all’oggetto che aveva richiamato l’attenzione. Osservarono, rapiti…
Era una Carnielli. Non si presentava male dopotutto; la vernice blu appena segnata dall’età. I freni sembravano passabili, anche se i pattini
denunciavano ormai l’usura di anni di servizio e di chissà quante avventure. La ruota dentata dietro (cambio di velocità a cinque rapporti, Suntour) aveva quasi un’espressione umana: quello strano sorriso a tutto tondo reclamava con parole sue una spruzzatina di olio. Le gomme, gonfie ma parzialmente pelate conferivano al mezzo un che di triste e di nobile nello stesso tempo.
L’ anziana, solitaria signora sembrava essersi arenata sopra quella linea di confine che separa vecchi ricordi e il dinamismo dei tempi moderni.
Trascorsero dieci secondi di silenzio riverente. Quel mezzo apparso quasi d’improvviso. Un simbolo, un pezzo di memoria. Omaggio a tutte le due ruote del mondo, e alla fatica, alle gioie, ai sacrifici, alle vittorie.
Fu il Fischio a rompere il piccolo incantesimo. Una sola parola e tutto il mondo tornò giù.
– Prezzo?
Ma vaffanculo, Fischio.
Eccolo lì, il bigliettino. Incastrato nella levetta del freno destro. Cinquanta euro. Un bel gruzzolo. E chi li aveva mai visti, cinquanta euro?
Dai, andiamo, fece il Volpe, cosa ci facciamo qui?
Uscirono dal cortile, e dopo cinquanta metri, -Ciao, -Ciao, si separarono, ciascuno diretto verso la propria abitazione.
In realtà i genitori, che si conoscevano tutti, erano d’accordo sul fatto che i tre uscissero insieme, a patto che le regole stabilite venissero osservate.
Fare gruppo teneva lontano ciascuno di loro da certi guai. Non doveva ripetersi ciò che era capitato a Marco giusto una manciata di mesi prima.
Era uscito per svolgere una commissione, quando, appena svoltato l’angolo della Ecchelen, era stato preso di mira dai due bulli del paese. Senza neanche rendersene conto, si era ritrovato con le spalle contro il muro, e non solo nel senso proverbiale. Mentre Temperino faceva da palo, il Moro aveva avvicinato la bocca a cinque centimetri dalla sua, al punto che Marco aveva temuto con orrore che l’altro volesse farsi una slinguatina. Gli era scappata una piccola scorreggia che per fortuna nessuno dei due animali aveva sentito. Il Moro aveva sì aperto una bocca dai denti marci e, in un puzzo rivoltante di birra stantia e un sorriso da mettere paura a un serpente, aveva bisbigliato una semplice richiesta: Tira – Fuori – I – Soldi. Marco si era ritrovato a dover effettuare una specie di bonifico di beneficenza con il contante che papà Carlo gli aveva affidato perché andasse ad acquistare una ricarica Wind alla vicina Piazza Duomo. Dopo un “e bada bene di non andare a piangere dalla mamma” pronunciato sempre a distanza ravvicinata (Dio che schifo, che alito di merda) i due lo avevano lasciato andare.
Marco si era sì spaventato, ma dentro di lui, ancora ragazzino, i cromosomi paterni già cominciavano ad alzare un poco la testa. Gli erano venute le lacrime. Ma non avrebbe lasciato perdere. Mai. Tornato a casa di corsa, aveva riferito ai genitori la disavventura, pur tra un singhiozzo e l’altro.
Il padre si era trasformato in una bestia. Dopo due minuti impiegati a benedire a suo modo la Famiglia Celeste (“Basta Carlo, ti prego! Calmati! Il bambino sente!”) aveva convenuto il programmino per il giorno dopo: approfittando di una consegna che doveva effettuare nelle vicinanze, avrebbe atteso, verso l’una, l’uscita degli insegnanti assieme agli alunni. E così fece, infatti. Ma dopo avere atteso per un quarto d’ora invano, dei due disgraziati non vi era traccia. Informatosi al riguardo, venne a conoscenza di una penosa storia di servizi sociali, di due coppie di sciagurati genitori eternamente sotto spirito e due ragazzi sui quattordici-quindici, ormai randagi, che si erano costruiti a modo loro un modello tutt’altro che invidiabile di vita e di educazione. Uno dei professori gli disse che quei due “risultavano comunque seguiti e sotto osservazione”. Carlo aveva espresso i suoi dubbi in proposito, ma tant’è.
Se solo lui li avesse pizzicati in flagrante, ieri pomeriggio, ah, Diobòn…
Un’oretta di Playstation. Cena con minestra e patate lessate col prezzemolo, di cui era ghiotto. E un pensierino, un piccolo chiodo fisso… Ci sarebbe stato, un girettino su due ruote. Anche mezz’oretta su quel ferrovecchio, come l’aveva chiamato il Volpe. Una vocina birichina comincia piano piano a fare capolino, dapprima un accenno di sussurro, poi più su, fino a farsi sentire bella, conclamata rimbombante: Ma perché no. Perché no. Perché non prenderla semplicemente a prestito? Uscire, farsi un giretto, riportarla. Il tutto senza farsi accorgere. Il Boson teneva chiuso, la domenica pomeriggio. E c’era quell’apertura nella rete metallica semiarrugginita, un bel buco da farci passare un vitello. Figuriamoci una bici. Combinazione, l’indomani era giusto domenica. Bastava che uno dei suoi due amici facesse da guardia, in due sarebbero riusciti in un attimo a prelevare quella vecchia Carnielli e a sgusciare fuori. Tanto per fare due giretti appena fuori paese; un buon dieci chilometri di sali e scendi… Avrebbero tranquillamente fatto ritorno molto prima dell’ora di cena, se tutto fosse andato bene. E perché non avrebbe dovuto? Al termine della scorribanda, la bici sarebbe tornata al suo posto. Garantito. Diversamente
(…timo non rubare settimo non rubare tenete presente, eh, tosi? settimo non rubare settimononrub)
sarebbe stato come rubare, e quello non era giusto. Non andava bene.
E poi, anche avesse optato per un simile gesto, in quale posto avrebbe potuto nascondere un corpo del reato di quelle dimensioni? A casa, di certo non avrebbe potuto portarcela. I suoi avrebbero preteso spiegazioni. E ciao! Mica voleva fare la fine di quei due sciagurati, che erano sempre in giro a fare un cazzo e chiedere soldi per il caffè (così dicevano, ma Marco aveva abbastanza zucca per intuire che il caffè c’entrava come i cavoli a merenda).
In questo vortice di pensieri si addormentò.
In sogno, rivede sé stesso. Non è solo. Ci sono i suoi amici abituali, assieme ad una nutrita schiera di ragazzi della loro età. Sono tutti in bicicletta, fermi sulla piazza principale, vicino alla fontana. Un gruppo conversa di chissà cosa, non si capisce; la più parte di loro, rimane china sullo smartphone a chattare.
Anche Marco è in bici. E’ seduto su Qualcosa di nuovo, di un bel blu elettrico che manda riflessi scintillanti al sole del mattino. Eppure nell’aria qualcosa di storto ondeggia, vero? Tutti, lui compreso, sembrano stranamente all’erta, quasi si aspettassero un qualche tipo di segnale. Ma cos…
“…’FANCULO FIGLI DI PUTTANAAAA!!!”
Si risvegliò di soprassalto, con il cuore che gli batteva forte, come quella notte in cui nelle vicinanze era scoppiato un grosso petardo. Sapeva di chi era quella vociaccia sguaiata, anche se aveva colto solo la seconda parola, e neanche quella per intera. Poi, dopo circa una ventina di secondi, il rumore di una finestra che si apriva e una voce di donna risentita che grida di rimando: -Ma va’ a ca’ tua, mona,(*) Lazzaròn!. La risposta: un rutto da far tremare i vetri. La signora preferì non replicare.
Finestra che si chiude; tutto il mondo ritrova la pace. Signore e Signori, buonanotte e a domani.
(*) In tutti i dialetti del Veneto: “idiota”, “coglione”
Ore otto
E’ una bella domenica mattina. Colazione assieme a mamma e papà, che almeno oggi può svaccarsi per l’intera giornata. Di solito le domeniche d’estate, o anche quelle di tarda primavera anziché no, vedono la famigliola riunita per una bella grigliatina sul prato dietro casa. Qualche costoletta, patatine, birra per i “veci” e coca light per l’erede, e la vita sorride. Anche oggi non fa eccezione. Il sole, appena sorto, già promette il suo dono. Il silenzio fuori, a quest’ora è qualcosa di impagabile. E, a proposito…
– Carlo, ma ti gà sentì stanotte? Quel gran genio che urlava? Che ora ‘jera? La una?
– E sì, so chi ‘l xè. – E scommetto che lo conosce anche il nostro Marco. Vero? (sorride, ma senza allegria, e scuote la testa)
– Sì, sì, ma lascia stare pa’, non ho voglia.
Carlo alla moglie: – Mah! Quando ho parlato con uno dei professori mi sono sentito dire che quei dò slandroni (*) j’era seguiti, ma mi pare il contrario, guarda.
– Lo g’ho visto, sa’, prima di abbassare la tapparella, zigzagava da una parte all’altra della strada… ‘sto poro mona.
– Ossignore!
– Bah!
Il discorso cade. Carlo accende la TV, Marco finisce i sui cereali, attacca una banana, dopodiché si fionda nella sua cameretta. Deve fare una telefonata.
(*) lo stesso che “fannulloni”
Ma il telefono gli vibra in mano prima ancora che si appresti a fare il numero. Non serve chiedere chi è, perché già lo vede sul display. E’ il Fischio.
– Pronto, Teo?
– Ciao, Marco. Ti ho disturbato?
– No, no! Ho appena finito adesso colazione.
– Ah, perfetto. Oggi vai via?
– No! Oggi facciamo le braciole in cortile, ma rimaniamo a casa. Perché?
– Perché io avrei un’idea, a proposito di quella bici. Ti interessa, vero?
– Cosa, la bici?
– Certo, cosa se no?
– Beh… Sì, io la vorrei, ma…
– E allora ce la prendiamo.
Prego?
Che cosa intendeva dire, l’amico? Forse che ne aveva parlato con suo padre, e quest’ultimo, il papà di Teo beninteso, avesse deciso di fare un regalo a lui, Marco? Ma no. Improbabile. O forse…
– O svegliati, mona. Sei ancora li?
– Sì! Ma cosa vuoi dire, non capisco…
– E dai che capisci e che magari l’hai pensato anche ieri sera. – Veeero?
Bingo!
– E be’, sssì…
– Ecco vedi? Adesso, ascoltami bene.
L’intesa passò veloce come la luce, da un capo all’altro della linea telefonica.
– Ma il Boson?
– Mi sono informato. Oggi pomeriggio andrà fuori città con i suoi amici e noi ne approfittiamo. Va bòn?
– Ah… Sì va bene. E’ per oggi pomeriggio allora.
– E certo che sì, Diobòn! Facciamo questa cazzata e poi la riportiamo prima di sera. -Ci vediamo alle quattro con Volpe, al solito posto. Ti va bene?
– D’accordo.
– Allora ci vediamo. Ciao uomo!
– Ciao.
Marco buttò il telefonino sul letto, in preda a una leggera inquietudine. Nella testa, una specie di film. In buona sostanza, in due sarebbero entrati nel cortile del negozio mentre il Fischio, bravo appunto nel mestiere che gli era valso il soprannome, avrebbe fatto da palo. Sempre approfittando del varco nella rete, avrebbero poi dovuto passare il corpo del reato al complice, in tempo zero. In sella, e via tutti e tre! Sperò che tutto andasse bene. Cercò di distrarsi caricando un video game.
Ore undici e trenta
Tutta la mattina senza vedere un cane? A parte do’ veci che tra l’altro no ‘j me gà comprà gnente?
E no, po’. Allora basta. Via. Boiacàn!
Il Boson decide che ne ha abbastanza. Ha aperto dalle nove ma la cassa del negozio è ancora a denti asciutti. Capita purtroppo, qualche volta. Quella mattina nessuno ha voglia di venire a dare un’occhiata. E sì che qualcuno per la strade c’è. Certo, il suo esercizio un poco fuorimano resta, però, dai.
E pazienza. Come ogni tanto qualche botteguccia fa quando il gestore vede scarseggiare la clientela, anche lui stamane chiude in anticipo. Azzera quindi il registratore, spegne tutto, chiude l’ingresso, mette il cartello, e scappa in casa a preparare un pranzo decente. Ormai, mezz’ora più mezz’ora meno.
Di domenica pomeriggio il negozio è chiuso. Lo aspetta un programmino di tutto rispetto per essere un single: dopo le pappardelle al ragù di cervo (vasetto comprato al super, siamo onesti), mezz’oretta di relax e musica aspettando gli amici cui ha dato appuntamento sotto casa. Uno di loro arriverà con il furgoncino pickup, sul cassone del quale prenderanno posto le biciclette. In tre partiranno, destinazione ValMaron. Non sono particolarmente impegnativi, quei sentieri, ma l’appassionato ci si perde volentieri. E allora Buona Pedalata.
Ore quindici e trenta
Che mangiata, ragazzi. Era certo di avere un poco esagerato, ma chi se ne frega. Lo diceva anche il vecio che si vive una volta sola, no? Ma forse non era colpa delle patatine o di una melanzana grigliata in più. Erano la maledette bibite gassate. Glielo diceva sempre anche la mamma di non esagerare con quelle cose, che dopo fai le puzzette, che ti fanno ingrassare, ma uffa non era colpa sua! Il fatto è che più la bevevi, più ti faceva venire voglia, quella roba lì! Doveva sgranchirsi le gambe. E poi, IL momento era ormai giunto.
Calzine, scarpe ginniche, berretto, e
– Mamma, io esco con Volpe e Fischio.
– Sì, va bene. – Torna almeno a un’ora decente sai?
– Sì, va bèn. Ciao.
– Ciao.
Si allontanò veloce, non abbastanza da evitare l’ultima raccomandazione qualche centimetro sopra la testa:
– E non sti’ a tirar sassi a’e anatre del laghetto, save’?
– Nooo! Uff!
Maria!
Perché gli adulti dovevano sempre rompere così?
Ore sedici e quindici
In effetti, tutto andò come da copione. L’impressione che il Boson aveva ricavato quel mattino, era esatta: quella era una domenica davvero straordinariamente deserta. Sembrava che il mondo fosse ammutolito di colpo: perfino lo Yorkshire della vicina dirimpettaia, quel piccolo bisbetico scassacazzi che di solito esplodeva a tutto decibel quando un altro rappresentante della razza canina osava invadere il territorio, a tutt’ora non si era fatto sentire. Strano davvero.
I tre passarono fuori la bicicletta nella tranquillità più assoluta.
Detto, fatto. Bene.
E adesso, eccoci qui.
Tre ragazzini, tre biciclette. Una senza il campanello, guarda.
Eppure una vocina, insistente da qualche parte squillava
(mi rubano, aiuto, mi stanno rubando, aiuto, mi)
– Aiuto!
Marco si scosse, il suo cuore perse un colpo: per un attimo aveva creduto che la vecchia bici avesse parlato davvero. Ma era il Volpe: infilandosi sotto la rete per afferrare il mezzo, una scheggia di quest’ultima gli aveva artigliato una gamba dei pantaloncini, strappando via un pezzetto consistente. Anca destra, kaputt.
Solo adesso, a missione compiuta, Luca si era accorto del danno. Si prese in mano quella tessile ferita, che contemplò incredulo per due secondi prima di profferire in un lento: – Porca puttana! – Come farò a spiegarlo a mia mamma! Ma cazzo noo!
– E dai! (Fischio, ridendo assieme a Marco) – Ti sei arrampicato su un albero e sei caduto, no?
– Sì, così mi becco anche del mona!
– E dov’è la novita? Tu SEI un mona!
– E grazie!
E dopo questa chiusa, salì sul suo mezzo, prontamente imitato dagli altri due.
– Com’è, Marco?
– Va bene. – Anche il cambio mi sembra buono!
Si trovavano nel parcheggio del centro sportivo, e stavano girando in tondo affinché Marco potesse provare il suo onesto acquisto. – Il cambio del ruotone è un po’ duro ma i rapporti dietro sono buoni. Non aveva mai avuto una bici tutta sua, ma se ne intendeva comunque poiché gli amici l’avevano talvolta fatto salire sulle loro. Fischio:
– Tieni il rapporto di mezzo, ti conviene.
– E le gomme?
– Non belle dure, vedo. – Ma può andare? – Sì, sì, va benissimo! – E allora andiamo, via!
– Sì ma dove?
– Partiamo per l’Osservatorio. – E poi là decidiamo. – OK, via. – Via! – Vaaai.
Partenza.
L’Osservatorio Astronomico di Asiago distava due chilometri circa dal punto dove si trovavano. Avrebbero dovuto allungare un poco il percorso, aveva consigliato il Volpe. Bisognava evitare assolutamente la centralissima Via Matteotti, principale via dello struscio. Non si poteva mai sapere. Se qualche conoscente li avesse visti…
Uscirono dalla città tenendosi sulla statale che portava giù in pianura, verso Bassano. All’ultimo bivio, con manovra che avrebbe suscitato invidia di un kamikaze, infilarono a sinistra la Cesare Battisti, che li riportava in centro, tenendosi però verso Santa Maria Maddalena. Nel giro di un minuto erano già in mezzo al bosco. Viva la libertà!
Pedalavano tranquilli, uno dietro l’altro. L’aria dell’ombroso bosco, fresca nonostante la stagione (a quota mille sul mare, il clima te lo trovi sempre un po’ sul capriccioso andante) soffiava gradevole sulle gambe nude; i tre mezzi rispondevano bene; la strada pianeggiante invogliava a cambiare sul rapporto grande senza chiedere grossi sforzi: avrebbero solo rallentato un po’ in ragione della resistenza meccanica del mezzo, che sarebbe leggermente aumentata.
Gli alberi ai lati passavano via osservandoli con i loro occhi di saggezza, nessun adulto ti diceva in quel momento che cosa dovevi fare e la vita era bella.
Prima che prendessero velocità, tra un respirone e l’altro il Fischio andava consigliando a Marco l’uso del caschetto, qualora il padre davvero avesse avuto la possibilità di regalargli la bici. “…Perché il berretto non ti serve a niente, e se cadi, la testa la batti tu, mica io. Giusto?” Giusto. E sì.
Giunsero all’ultima curva prima del bivio che li avrebbe condotti, dopo circa mezzo chilometro, a destinazione. Una breve discesa di duecento metri li separavano dall’incrocio. Senza consultarsi, i tre picchiarono di più sui pedali, quasi all’unisono. Bisognava acquisire velocità: all’incrocio si girava a destra e la strada saliva per un cento metri circa.
Fu tutta colpa di un sasso, tanto tagliente quanto traditore, parente stretto e subdolo di quelli che è facile trovare ai lati di certe strade dell’ Alto Veneto, per quanto ben tenute siano. Come già detto, i tre procedevano in fila indiana: in testa, Volpe. A seguire Marco, e in ultimo, il Fischio.
All’approssimarsi della discesa, questi aveva ulteriormente accelerato, affiancando Marco e portandosi alla sua sinistra. Gli stava parlando, elargendogli per l’appunto il consiglio di cui sopra, quando ecco a destra aprirsi la via dell’Osservatorio. Senza pensarci più di tanto, Fischio aveva sterzato, chiudendo Marco, il quale, per evitare la collisione con l’amico, era stato costretto alla stessa manovra. Le ruote della sua bici si trovavano praticamente a cinque centimetri dalla cima del terrapieno, quando il sasso intervenne per dire la sua. La ruota anteriore della bici di Marco fece uno scivolone verso destra, il mezzo perse la sua stabilità e Marco partì allegramente per imprevista destinazione: il fossato destro, che chiudeva dopo cinque metri di una discesa non da Toboga ma quasi. Fu questione di tre secondi. Prima che il resto del gruppo si rese conto di avere perso un elemento, si udì un “pok!” subito seguito dal fruscio di due ruote sull’erba, accompagnato dall’ “oh! oh! oooohh!” di un ragazzino in preda al panico. Che ebbe comunque la presenza di spirito di azionare i freni (funzionavano, e bene, Grazie a Dio). L’errore che commise fu, nella paura, di premere le levette a fondo: le ruote inchiodarono e il mezzo proseguì la breve discesa, picchiando l’anteriore contro un grosso masso che mise provvidamente la parola fine all’imprevisto itinerario.
Cavallo e cavaliere furono sbalzati di colpo. Marco si ritrovò per terra quasi senza rendersi conto.
Passarono due secondi.
Che botta di fortuna, era il solo pensiero che gli rigirava dentro.
Si trovava ancora sdraiato, come a letto, solo che qui si trovava all’addiaccio, perfettamente sveglio, al posto delle coperte il telaio di una bici… la vera vittima di una bravata, se proprio vogliamo andare a vedere.
Un leggero ronzio nelle orecchie e il fondoschiena un poco stressato. Dolori? No. Meno male. Che culo. Il conto era stato ancora leggero. Marco si tolse la bici di dosso, si rizzò a sedere, e prima di accorgersi dei sopraggiunti amici, che torreggiavano ora preoccupati sull’orlo della breve scarpata, qualcos’altro catturò la sua attenzione. A circa un metro e mezzo sulla sua sinistra, un cartoncino raffazzonato. Vuoto. Un contenitore da sei bottiglie di birra di una nota marca. Anzi: tre dei vetri erano ancora lì, sparsi in mezzo all’erba, e, giusto proprio lì, tra una bottiglia e l’altra…
Il ragazzo strabuzzò gli occhi.
MARIA VERGINE! NO!
IL MORO!!
Il suo socio, da qualche giorno sparito per chissà dove.
E così era arrivato da solo. Si era scelto quel posto per potersi ubriacare in santa pace.
Doveva avere comperato le birre dopo avere ottenuto qualche “bonifico” alla sua maniera, dopodiché si era incamminato in quel posto isolato, e… ma certo. Guarda lì che roba, Diobòn. Stava russando come un mantice, girato sul fianco sinistro. Ai piedi, qualcosa di pestifero che una volta erano state un paio di scarpe, quelle tipiche di tela. Il resto dell’abbigliamento era tutto sommato passabile. Marco rimase per qualche istante ipnotizzato da quella visione, finché
– Oh – Là!! – Va tutto bene??
Girò la testa di scatto e i suoi amici furono di nuovo suoi, un pezzo di mondo tornò a posto. Non proprio tutto, ma…
– Zitti! Non gridate. Marco si portò un dito alla bocca, producendo un gesto universale. – Guardate! E indicò col dito. Gli altri fecero come diceva, e subito una smorfia di disgusto passò in entrambi. Altro cenno inequivocabile, stavolta da parte dei due: Torna su! Vieni via! Ma Marco già stava risalendo il pendio.
Cinque minuti dopo. Tre ragazzini seduti sopra un masso. Due biciclette. Un ubriaco ai piedi del fossato. Fine dell’appello.
– Cosa facciamo? Fu Il Fischio a rompere il silenzio per primo.
– Io direi di lasciarla lì, riprese il Volpe. – Si vede già da qui. – Vedete? E indicò con il braccio. – L’anteriore destra è tutta storta. Andata
– …E impossibile capire, ma anche la gomma è a terra. Nessuno aveva voluto scendere per controllare. Se il Moro si fosse svegliato e li avesse visti…
Al Volpe arrivò un’improvvisa ispirazione.
– Sentitemi bene, disse, – Sapete che cosa significa prendere due piccioni con una fava?
– No. Cosa? Fece Marco
– Semplice: che la bici la lasciamo qui, è fuori discussione. Si chinò verso gli altri due, e, a voce più bassa, aggiunse:
– La bici l’ha – rubata – il – Moro. – Chiaro per tutti? Ci siete?
– E’ venuto qui per bere, ma evidentemente aveva già l’elica su di giri, e così la bici si è sfasciata contro il sasso, lui si è rialzato, si è accomodato là a godersi quel che gli rimaneva del carburante, e ciao mondo. – Può andare?
Altroché se andava. Più ci pensavano, più calzava a pennello!
Presa così questa risoluzione, i tre girarono i mezzi supestiti verso la via del ritorno. Al termine di quei cento metri di discesa che ora, a prospettiva invertita, era diventata salita, il Fischio permise a Marco di salire dietro, Quarantacinque chili di zavorra in più, ma pazienza. Alla fine il tassametro avrebbe segnato due merendine in più a scuola, da parte di Marco. Un prezzo minimo: per costui, l’averla scampata bella due volte era già tanto…
Due settimane dopo
Meno sette alla fine, ennesimo Grazie – al – Cielo. Tanto ormai era fatta, e lo sapeva. Era promosso, i voti erano pure superiori alla media scolastica. Grande. Abile arruolato per la classe quinta.
Marco trotterellava, tutto solo e sereno, diretto verso casa. Quel pomeriggio non c’erano nemmeno i compiti. I prof si erano comunque raccomandati: ragazzi non passate tutta l’estate a bighellonare, ripassate, ogni tanto, ci vediamo in quinta, facciamo i bravi eh? Sì, sì, sì.
Passò rasente al negozio di Antiquariato. Resisté alla tentazione di girare lo sguardo verso il cortile, immaginando che nel farlo, un fantasma di bicicletta gli avrebbe puntato il manubrio contro a mo’ di dito ammonitore, mentre un faretto che lampeggiava cattivello in codice Morse gli andava dicendo: Ti – ricordi – eh – di – due – settimane – fa? Di sicuro, solo dieci giorni prima, se la testa l’avesse girata, avrebbe scorto all’interno un ragazzone sulla trentina, pura razza Piave, che andava su e giù per il bancone mormorando a basso volume cose irripetibili. Come che no! Si era accorto del furto della bicicletta; dopo un rapido quanto inutile controllo (e sì, proprio scomparsa, can de l’ostia) era corso a sporgere regolare denuncia presso la vicina caserma dei Carabinieri. Mezz’ora buttata via tra firme e timbri, in alto i calici e un brindisi all’era Internet. E meno male che davanti a lui non aveva nessuno!
Ma ‘orpo de un can!
Gli si agitavano emozioni contrastanti; si sentiva strano davvero, quella mattina.
Rimorsi? Sì, qualcosa albergava dentro di lui, di non ancora sopito. Una vocina gli sussurrava in continuazione che anche se i due stronzi erano quello che erano, non era comunque giusto incolpare una persona, fosse pure il Moro, di una cosa che non aveva commesso. Se i suoi avessero saputo, non avrebbero approvato. Gesù stesso non avrebbe approvato. Perché, come aveva loro insegnato Padre Gianmario durante l’ora di religione (a sua insaputa, i ragazzi lo chiamavano Montecristo perché era alto quasi due metri e pure bello grosso, correva voce che gli piacesse mangiare), se c’è una cosa che rende la nostra religione troooppo forte, vedete ‘tosi’, questa è il perdono sincero. E già.
E be’, ci avrebbe lavorato sopra. Forse un giorno sarebbe riuscito a perdonare perfino uno come il Mo…
Non finì quel nome, perché mentre lo pensava, in quel preciso momento anche aprì la porta di casa, che dava sul disimpegno. E rimase di sasso.
Proprio davanti a lui. Bella, lucente, rossa. Un miraggio? No.
Era una Colnago. Cambio Shimano, sette rapporti dietro, telaio in titanio e un caschetto bianco e rosso appeso per la cinghia alla manopola destra.
Un profumo mai sentito prima. Le gomme, che sapevano di nuovo.
Sembrava anche leggerissima. Perfetta. Proprio come il sorrisone di suo padre, che si trovava subito dietro.
– Allora, campione. Che te ne pare? Ti piace?
Marco rimase due secondi interdetto, incapace di profferire verbo. Ma alla fine ce la fece.
– E’ bellissima, papà. Ma come…?
– Un affare, disse Carlo, parlando anche alla moglie che nel frattempo era tornata sorridente dall’orto con un cesto di zucchine appena raccolte.
– Un collega mi ha passato una dritta. – E’ venuto a sapere che al negozio sportivo di fronte al cinema, lo conosci, vero, il tipo aveva sottomano un’occasione unica. – E’ una seconda mano, ma ha fatto pochissimo però, guarda. Chilometro zero, come si dice al giorno d’oggi. – E un bel risparmio (pollice e indice sfregati e strizzatina d’occhio alla “vecia”, entrambi sorridono).
– Allora, giovane, va bene? – Dopo pranzo te la provi, dai, adesso sèra ‘sta porta che ora magnémo!
Marco obbedì, chiuse la porta dando una mandata e seguì i suoi in soggiorno. Aveva di nuovo perso le parole. Troppe emozioni per quel giorno, ma dai. Appena le avesse ritrovate naturalmente avrebbe ringraziato il vecchio per il bellissimo regalo. Non gli avrebbe mai detto che l’idea della bici era da qualche giorno passata in secondo piano; non gli sembrava corretto, visto ciò che suo padre aveva fatto per lui. Il fatto è che… Sì, insomma…
Era che due giorni prima, la ragazzina dai capelli rossi che sedeva due banchi più avanti si era accorta di lui. Un paio di meravigliosi occhi acquamarina gli avevano rivolto un sorriso, di quelli che non si possono non ricambiare.
Il cuore di Marco aveva dato un sussulto.
E stavolta, non per paura.