È normale ancorare i nostri ricordi a una fase dell’esistenza che ha segnato il nostro cammino.
Ciascuno di noi conserva dentro di sé un bagaglio unico e irripetibile di emozioni, sensazioni, talora semplici impressioni, che nel tempo si sono rapprese divenendo concrezioni di vita, gemme incastonate nella nostra memoria.
La mia Juventus è fatta di questo: un’iridescenza di bagliori e scintillii che hanno ravvivato la mia infanzia, tingendo di passione la mia crescita e il mio divenire uomo.
La freschezza della gioventù evocata dal suo nome era anche, simbolicamente, la freschezza della mia gioventù: di me, che imparavo a tirare i primi calci nel praticello vicino casa, dopo aver piantato a terra due rami nodosi, a mo’ di pali, con i quali illudere me stesso e il mio ammirato fratellino di calcare un vero campo da gioco.
Mio padre, dalle mie parti, era stato uno dei più attivi e convinti seguaci della Vecchia Signora: Presidente del locale club juventino, appena nato mi aveva avvoltolato nella sciarpetta bianconera, naturale sostituta delle fasce che allora si usavano al posto dei pannolini; e ricordo perfettamente che raccontava a tutti, gonfio d’orgoglio, che la mia prima parola non era stata, come per tutti, “mamma” o “papà”, ma “Cuccureddu”, associando la singolare circostanza al fatto che quell’anno il ruvido terzino sardo si era inopinatamente dimostrato un goleador, e per questo era sulla bocca di tutti.
E poi ricordo bene quella cartolina da Belgrado con l’immagine di Topolino (l’altra grande passione della mia infanzia), che mamma conservava nella credenza, perenne attestato dell’infelice spedizione contro l’Ajax: doppiamente infelice per papà, che aveva organizzato il pullman e nemmeno aveva potuto guardare la partita, costretto ad assistere (almeno questo con esito positivo) un componente della comitiva colto da un malore proprio all’inizio del match.
Paradossalmente, però, mentre io crescevo scemava l’impegno di mio padre per la vita attiva del club che, in quanto iniziativa legata a filo doppio alla sua intraprendenza, ormai si andava affievolendo con incessante gradualità, per poi spegnersi impietosamente: i vari gadget, le squadre, i gagliardetti, le spilline, i distintivi non si rinnovavano più, erano sempre gli stessi, ogni anno un po’ più obsoleti e distanti nel tempo; eppure, noi li tenevano sempre lì, a farci compagnia, a scartabellarli, a lustrarli, ogni tanto facendone dono gradito ad un amico, a dimostrazione della gloria trascorsa, anzi ormai quasi solo come pegno di un tempo che fu.
La Juve di quegli anni era composta da giocatori importanti, che erano anche l’anima della Nazionale di Bearzot. Io e mio fratello divoravamo i numeri mensili di Hurrà Juventus e dell’altra rivista neonata Noi juventini, identificandoci rispettivamente in Morini e Cabrini, un po’ per somiglianza, un po’ per attitudine pedatoria.
Il nostro cult, però, era Dino Zoff racconta, l’affascinante autobiografia del numero 1 friulano, un autentico modello per tutti noi di serietà, abnegazione, affidabilità e rendimento, e per questo faro indiscusso della nostra personale visione romantica del calcio. Il primo Mondiale che seguii coscientemente fu quello argentino del 1978, in cui la formazione dell’Italia ripeteva quasi pedissequamente quella della mia squadra del cuore; e d’altra parte quattro anni dopo furono proprio i calciatori juventini a propiziare il trionfo in Spagna, suggellato dall’urlo di liberazione di Tardelli e dallo splendido e inedito sorriso di Zoff che levava la coppa al cielo. Io, ormai dodicenne, avevo già una certa cultura sportiva, che mi ero voracemente procurato con la lettura di annuari e almanacchi: il Campionato del Mondo del 1982 e le Olimpiadi di Los Angeles del 1984 rappresentarono l’apice del mio coinvolgimento nello sport seguito, oltre ad un incentivo straordinario per la sua pratica attiva, che da allora cercai con impegno di affiancare agli studi, sempre più impegnativi, secondo una prassi che con alterne vicende dura tuttora.
Ma erano sempre le parole di mio padre a fornirmi le linee-guida, le coordinate interpretative della storia di questo glorioso club: parole di incondizionata ammirazione per la “sua” Juventus di Charles e Sivori, assi capaci di fondere in una sintesi sublime estro e vigoria atletica, genio e sregolatezza; ma anche per il tiro pulito e impeccabile di Boniperti, che «avrebbe realizzato ben più dei suoi 178 gol ufficiali in bianconero e in serie A, se solo qualche volta l’avesse sporcato appena un po’» (tra parentesi uncinate le mie citazioni di papà, qui come nel prossimo caso…); per la fantasia e lo stile di Ermes Muccinelli, «che avrebbe avuto una carriera ancora più luminosa, se solo la natura l’avesse dotato di un fisico più prestante»; per difensori rocciosi e concreti come Rino Ferrario e Giancarlo Bercellino, rigorista di potenza, e quelli eleganti ma non meno efficaci, come Corradi, Garzena e Salvadore; per i piedi buoni di Stacchini, Nicolè e Castano, talmente caparbio da continuare a giocare anche con un solo menisco su quattro; e per i nostri altri grandi stranieri, “alieni” più che stranieri, nell’epoca della chiusura delle frontiere, in cui aprivo gli occhi sullo scenario del calcio: John e Karl Hansen, Præst, Hamrin, Haller, Del Sol.
Le testimonianze di papà non erano mere considerazioni autoptiche: le sue parole rievocavano, commosse, le meraviglie del Quinquennio aureo, consacrato a una fama intramontabile. Combi, Rosetta, Caligaris, il tris che apriva quasi tutte le formazioni di allora, ma anche il Cesarini della “zona”, Fernando “Mumo” Orsi, dalla classe limpida e cristallina, Vecchina, Monti, Munerati, Bertolini, Sernagiotto, i fratelli Varglien I e II, “farfallino” Borel II e il mediano Depetrini, che negli anni a seguire, con Locatelli e Parola, avrebbe formato una delle più forti linee mediane mai viste.
Oltre a questi nomi – e a molti altri che evito di menzionare, per ovvie ragioni di spazio – io inanellavo in diretta quelli dei fuoriclasse delle mie domeniche calcistiche, in una struggente alternanza di giubilo e sofferenza, costantemente incollato alla radiolina nella speranza di una buona novella.
Mi affidavo ora agli imperiosi stacchi di testa di “Bobby-goal” Bettega, ora alla grinta del gladiatorio Benetti e di capitan “Furin-Furetto”, ora alla freschezza sbarazzina del “Bell’Antonio” Cabrini, ora ai guizzi improvvisi e disorientanti di Tardelli. Campioni in campo, campioni fuori, come dimostrava l’equilibrio di Zoff, o la compostezza del caro Scirea, difensore talmente corretto che non riesco a ricordare un suo cartellino giallo, o la caparbietà di Gentile, deciso e insuperabile, o la classe cristallina del “Barone” Causio, che al Mundial del ’78 insegnò l’arte del dribbling anche ai virtuosi interpreti locali; e ancora i micidiali schiocchi di frusta del principe degli opportunisti, “Pablito” Rossi, e i polmoni generosi di Massimo Bonini, e le lunghe leve del trampoliere Brio, degno erede di Francesco Morini.
E su tutti la nostra meravigliosa coppia d’assi: Zibì Boniek, il “Bello di notte”, e l’ineffabile Michel Platini, interpreti deliziosi e raffinati di un calcio champagne adattato allo spirito moderno, capaci di scardinare ogni difesa con i loro dialoghi elettivi: un rapporto che continua incessante nel tempo, anche nella diversità delle loro scelte di vita, a conferma di come un’amicizia speciale non possa conoscere il declino.
Un insigne erede di questa illustre prosapia è stato Alex Del Piero, il “Pinturicchio” che, a dispetto dell’età e dei tremendi infortuni patiti in carriera, ha sempre dilettato le platee, pur essendo ormai totalmente cambiato, intorno a lui, il mondo del calcio. Il dio denaro ha preso il posto dell’attaccamento alla bandiera, il consumismo e la cultura dell’immagine hanno impietosamente travolto il fascino di uno sport fatto di cuore e sudore, impegno e passione.
E in più, per noi bianconeri, una lacuna insanabile: l’arguzia e lo spessore umano dell’Avvocato, uno tra i più fini intenditori mai apparsi sulla scena del calcio italiano, straordinariamente capace di condire con garbato umorismo le gesta dei campioni che si sceglieva di persona.
Ora che non ci sei più, Avvocato e non ci sei più neanche tu, caro papà, e comunque la nostra squadra prosegue incessante a mietere successi, io mi permetto di affidare a queste poche righe il sincero anelito del mio cuore innamorato; io, che fin da piccolo provai un sentimento così ardente che non avrò mai bisogno di rinfocolarlo, finché percorrerò i viali dell’umana esistenza.
PS. Scrissi tutto ciò in tempi non sospetti, ante Ronaldo. Ma non toccherei una virgola. Semmai, offrirei un attestato di stima al nostro caro Raffaello, alias Codino. Chi, si chiederanno i più piccini? Subito, rispondo io: il mitico Roberto Baggio…
Onorato di aver preso parte a quelle partite in cui con un pallone scalciato ed una porta finta sognavano di essere i nostri idoli. Devo a te, tuo fratello e l’amato zio la mia fede juventina che tanta gioia mi ha dato e tanta sono convinto me ne darà. In più sono avvocato e spero di aver ereditato un po’ della classe e sagacia dell’Avvocato. Sempre forza Juve.