Capisco. Ora è tutto mera illusione, nebbia innanzi agli occhi, che confonde il senso, ammesso che ci sia un senso. Qualsiasi aspetto della vita tu voglia comprendere e di cui tu voglia cibarti, è un essere subdolo che tortuosamente ti si mostra e ti inganna. “Dov’è l’accendino? Ah eccola”. Stappo questa birra, le gambe penzoloni. Siedo su questo muretto, lei affianco parla, sotto le luci della città. Ghiacciato il primo sorso, lei ancora parla, ma io non l’ascolto, se ne accorge, interrompe la sequenza mitragliata di vocaboli superflui, pretenziosi. Bulbi oculari ora mi rivolgono finta delusione, ma è soltanto compassione.

<Perché non mi ascolti?> lei mi dice stringendo le parole fra i denti <E’ inutile ascoltarti ora, mi stai lasciando, e nello stesso momento in cui mi hai comunicato la tua decisione le tue parole hanno perso la ragione di essere pronunciate> il secondo sorso è polare, mi congela l’esofago. <Le parole non smettono mai di avere una ragione per essere pronunciate. Sono l’unica cosa che ci resta.> controbatte lei camminando sul piccolo muretto che separa noi dal vuoto. Io ho quasi l’intenzione di ignorarla perché so che il suo muovere pericolosamente i passi fianco a fianco allo spiaccicamento è soltanto un modo per attrarre l’attenzione, ma non ce la faccio. <Scendi di lì e siediti. Lo sai che mi dà noia vederti fare questi giochetti stupidi>. Si siede e mi abbraccia, piange. Lacrime che in fondo non comprendo e forse non comprenderò mai. Un angelo languido, si consola sulla mia spalla, dopo avermi trafitto. <Non cercare di essere la protagonista anche ora. Mi rubi anche le lacrime. Sei orribile>. Trasale alle mie parole, scostandosi bruscamente da me e iniziando di nuovo a volteggiare sul muretto, in piedi, cercando di mantenere l’equilibrio. <Sei proprio una bambina. Una bambina viziata.> le dico, scagliando la birra, che ormai come noi è troppo calda per essere bevuta, nel vuoto. <NON MI HAI MAI AMATO. MAIIIIIIII. I TUO OCCHI SONO SOLO GLI OCCHI DI UN INFAME BUGIARDO. DI TUTTI SONO LO SPECCHIO DELL’ANIMA, SOLO DI TE SONO LO SPECCHIO DELLA FALSITA’> improvvisamente mi urla questo, flagellandomi la carne quasi schegge di vetro scagliatemi contro, un dolore lancinante mi percuote la testa. Scende con un salto dal muretto, senza togliermi lo sguardo isterico da dosso e ricomincia a urlare <Ho parlato tutto questo tempo, per farti capire, ma tu neanche mi ascolti. Sei troppo impegnato a riflettere sul perché io mi sia permessa di lasciarti. LASCIARE TE, LA PERFEZIONE IN PERSONA. Ho cercato di smuovere qualcosa, perché sei diventato atroce, un carnefice, il mio amore per te è immane e tu lo spiaccichi con le tue scarpe pesanti, come quando schiacci i mozziconi delle tue sigarette. SEI UN BASTARDO ECCO CHE SEI. VAFFANCULO>. Silenzio. Cosa si può dire dopo che qualcuno ti ha fatto notare i difetti di cui hai più paura?

In macchina nessun commento, lei ha incollato lo sguardo al finestrino da quando eravamo su, in collina. Il portone di casa sua si chiude dietro di lei ed ho come l’impressione che una porta blindata si sia interposta fra noi. Sto iniziando a pensare che le incomprensioni siano il vero motore delle relazioni.

Sono due giorni che non chiama ed io ho fatto altrettanto. La luce nella stanza entra fioca, e gli esigui raggi che filtrano dalle tapparelle semichiuse, rivelano la polvere che aleggia invisibile. Il cellulare è zeppo di chiamate perse degli amici, avranno saputo la notizia e hanno deciso che ho bisogno di conforto. Ma nessuno sa niente, nessuno comprende a fondo, l’essenza del mio essere, dell’essere di chiunque. Io in fondo non sto male per lei, sto male per me. Ma nessuno lo sa. Nessuno sa realmente niente di me, degli altri, di se stesso, del perché le cosa vadano in un certo modo, di quando si è sinceri, di quando si è falsi, di quando si è spinti dai sentimenti o dalla convenienza. Quante cattiverie si concepiscono nel minuscolo spazio della mente. Pochi capiscono realmente quanto si è egoisti, quanto si è soli. Vorrei sviscerare tutti i miei pensieri a qualcuno, vomitargli tutte le verità che ho nascosto dentro, disegnargli tutto il mio candore, il mio orrore, il mio paradiso e le mie tenebre. Ho paura di questa solitudine. Devo andare. Mi vesto rapidamente, esco dalla stanza e prendo le chiavi della vespa. Aprendo la porta mi ritrovo mio padre che rincasa e che mi chiede <Ehi dov’è che vai?> <In nessun posto> faccio io <Com’è possibile andare in nessun posto?> <Papà tu non hai mai capito cosa vuol dire andare in nessun posto. Per questo sei così combinato. Non aspettatemi per cena, anzi non aspettatemi nemmeno per colazione. Ciao> Lo lascio così, di stucco, consapevole di averlo tramortito con le mie parole più affilate di una lama, per il gusto di farlo soffrire, per espiare un po’ del mio dolore, frasi catartiche. Ci si sfoga sempre con le persone che si ama soltanto perché si sa che comunque, il giorno dopo, è tutto dimenticato. Soltanto un altro atto di vigliaccheria cui siamo soliti fare. Salgo sulla vespa parcheggiata in strada e parto verso nessun posto. Voglio donare le mie lacrime al vento, lasciarle fluttuare nell’aria per mostrarle alle persone, per sentirmi meno solo, per non sprecarle sul solito anonimo viso, per non asciugarle. Comprerò una rosa e scriverò un biglietto “La mia prossima sfida sarà quella di ascoltare la tua anima e di raccontarti la mia, per divenire indissolubili, per essere gli unici, su questo mondo, ad aver vinto l’innata solitudine che ci attanaglia. Ti amo”. Non sono d’accordo con lei, le parole non sono l’unica cosa che ci resta, ma l’unica cosa che abbiamo. Glielo darò all’uscita da scuola. Per ora mi limiterò ad andare verso “nessun posto” svolazzando con la mia vespa e cospargendo di lacrime questa miserabile città.

 

3 pensiero su “Lacrime al vento”
  1. mi piace quell’idea dello “svolazzare” in vespa.
    un po’ come levarsi in volo sulla tristezza di un amore forse finito e su quella città “miserabile” che fa da contorno insensibile all’incomunicabilità giovanile e all’incomprensione di chi pure ama, ad ogni livello, e non riesce a dirlo.
    buon onomastico, Antonio!
    ciao
    anna

  2. Io sono colpito dal dilemma “essere o non essere”. Credo che chi ha la fortuna o la semplicità di sapere chi è, di vivere seguendo se stesso e non gli altri, nè idee nè bandiere, ma al contempo consapevole che se non si vuol restare solo, esistono dei compromessi, sinceri o per convenienza.
    Mi hai fatto pensare, mi hai lasciato delle domande.
    Bravo.

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