Percorrevo strade, ponti e viali. Camminavo per i parchi e salivo miriadi di gradini scendendone altrettanti. Scorreva il tempo di queste giornate e io percorrevo e camminavo soltanto. Attraversavo stanze noiose e rincorrevo pensieri sperduti nelle menti che avevo di fronte. Tutto scorreva e passava, tempo e vita che adesso non ho. Volavano i mesi e fluivano i giorni. Un caos di eventi violenti e felici: sempre gli stessi. Sere pensose e mattinate indaffarate con l’orologio maledetto che mordeva l’anima. L’ufficio, le segretarie vecchie e incompetenti, i pazienti, i fogli scritti, la poltrona, le domande, i problemi, i libri e forse in mezzo a tutte queste cose c’ero anch’io.
Sì, forse esistevo, ma ero nascosto, coperto da scartoffie e infinite parole che laceravano la mia mente. Seduto a prendere appunti ponevo rituali domande e ascoltavo. Stavo attento di capire ogni minima cosa di quella gente che aveva bisogno di me. Ascoltavo tutto tranne la mia anima. È questa la monotonia di un lavoro che, pensandoci bene, non avrei mai voluto fare. Ma adesso ero in trappola e sentivo il bisogno di stare accanto ai miei pazienti, a scavare nelle loro anime, ad aiutarli a credere di più in se stessi. Non sanno però che il primo ad arrendersi lo hanno in quel momento davanti. Arreso a movimenti ormai meccanizzati, conducevo un’esistenza gelata e freddamente anche il mio fedelissimo cane non mi considerava più. Mi rendo conto di essere stato distante da tutto, soprattutto da me, che spostavo ogni oggetto non perché volevo ma perché dovevo. Non ebbi amici solo conversazioni noiose ed anch’esse monotone col gran sambernardo che corre dietro un povero pazzo smemorato. Ma a volte dal fondo del baratro ti accorgi di una piccola luce che si fa sempre più vicina.
Una luce, un abbaglio di sole mi svegliò una mattina di non molto tempo fa e strapazzando gli occhi mi accorsi di aver dimenticato la finestra aperta. Anche la memoria era stanca ed esausta. Un risveglio insolito, con un pungente freddo mattiniero che però non destò Lucio, il mio amico quadrupede. Fu la prima volta dopo non so quanto che mi misi ad osservarlo, mentre dormiva sbuffando. Tutto il resto fu identico al giorno prima finché dopo il solito angosciato per il divorzio dalla moglie fece il suo primo ingresso nel mio studio una quindicenne. Non ebbi mai giovanili visite e restai molto stupito. La ragazza era bella, ma il suo viso non era luminoso. La invitai a sedersi e dopo un paio di domande, che ricordo sono sempre le stesse per tutti i pazienti, iniziai a parlarle per investigare, per sapere come mai il faro dei suoi occhi si era inceppato. Gli chiesi di tutto, dei suoi amici che, però non aveva, dei suoi desideri… tutti svaniti e lontani, delle sue passioni… impossibili, di se stessa… semmai riuscisse a capirla. Mi fermai all’improvviso. Un lampo attraversò la mia mente. Di fronte a me non avevo una dolce adolescente alla ricerca di sé, ma fu come se avessi davanti uno specchio. In lei e nelle sue poche parole rividi me stesso. E adesso che la seduta stava terminando io non sapevo che dire. Non avevo una diagnosi da scrivere, né una cura per me o per lei che si accorse di questo dubbioso disappunto. Mi chiese se andasse tutto bene, che dirle? Un si smorzato o un sincero no? Niente andava bene, e me n’accorsi quella mattina. Cercai di spiegarle che nella nostra testa c’è un calderone grandissimo e le nostre anime ci vagano liberamente e capita che si perdano, ma finita la frase ella si mise a sorridere. Io stranito ancor di più di come lo ero inizialmente gli domandai perché ridesse. La giovane mi rispose guardando per aria, fantasticando: <<Ho sempre voluto essere un’anima libera>>. Per la prima volta mi accorsi che il paziente stava curando me. Continuò a parlare, mentre il faro dei suoi occhi ricominciò ad illuminarle il viso ed io questa volta non avevo fatto nulla, e disse: <<Si, siamo anime libere, ma non sappiamo di esserlo>>. Io non prescrissi nulla ne continuai la terapia, semplicemente le assicurai che era guarita. Lo ero anch’io. Lasciai la mia cattedra e chiusi la porta del mio ambulatorio sentendomi come non mi ero mai sentito. Ora sono qui, a finirmi questo bicchierino di rhum sul mio terrazzo accarezzando di tanto in tanto Lucio e guardando il cielo mentre mi abbandono ad un rilassante sonno. Domani niente lavoro, ho già disdetto le visite, porterò a spasso il mio amico sperando di allargare le mie conoscenze magari di trovare un altro spirito libero in cerca di compagnia. Adesso la mia anima non chiede che questo.
Mi é piaciuta. Credo che la prima persona con la quale star bene in compagnia dovrebbe essere noi stessi. Essere uno spirito libero per me é anche questo. Avendo l’unione con il proprio io, il resto viene da sé.
Ciao.
Sandra
un bel testo su un argomento difficile; il senso della vita, la stima di sè, il rapporto con gli altri.
ho notato nell’ultima parte qualche imperfezione correggibile (un pronome gli che non va, più che cattedra direi scrivania, un nè senza accento )
ma la narrazione fila ed è molto interessante nell’epilogo.
ciao
anna
Un bel testo, di effetto. Tutti possediamo un’anima libera ma siamo bravissimi, negli anni, ad imprigionarla nelle convenzioni, in quello che razionalmente crediamo sia il meglio per noi. Ascoltarci è una cosa che dimentichiamo presto. Solo i bambini sanno farlo… peccato che la fanciullezza duri così poco.
Mary
Sì, esatto, spesso l’ho pensato anch’io: molte volte, sanno più cose i bambini di noi “adulti”. Secondo me, però, in fondo non si cresce mai. C’è sempre un bambino nascosto da qualche parte, dentro di noi, solo che quel bambino, crescendo, lo soffochiamo con la scusa che “cresciamo”: non inseguiamo i nostri sogni, ci limitiamo a seguire ciò che nel futuro sarà meglio per noi, senza ascoltare ciò che quel bambino voleva veramente. A volte bisogna solo imparare a guardarsi dentro, solo così potremmo essere degli “spiriti liberi”. Saluti.