La pioggia cadeva, fitta, sospinta da un vento gelido che struggeva la pallida notte di gennaio. Le strade deserte. L’unico movimento percepibile era quello di un uomo, che camminava curvo guardando il marciapiede, sotto l’acquazzone, senza meta. L’eco di una porta che sbatteva, dura e definitiva, gli risuonava nelle orecchie, assieme ad una voce di donna arrogante che gridava parole forsennate nella sua direzione. Lacrime calde gli solcavano le guance. Era freddo fuori, era fredda l’aria, la terra, l’anima, il cuore.
Arrivò di fronte all’unica vetrina illuminata della via. Si fermò. Il negozio era chiuso, i tre manichini erano illuminati da un faretto giallo; li osservò: un uomo sapientemente vestito, con borsello appeso e cravatta a pois; un ragazzo dalle lunghe trecce in jeans e zaino sulle spalle; una donna dai lunghi riccioli scuri, coperta da un cappottino, dal cui spacco si intravvedeva un vestito rosa, corto, sopra al ginocchio; portava appesa alla spalla una valigetta rossa. “Strano” pensò, “Una valigetta…”
La luce proiettava un rettangolo giallo sul marciapiede e proprio sul bordo di una panchina di questo alone di luce, l’uomo decise di sedersi, semicoperto dalla chioma frondosa di un albero. Un’auto passò correndo: osservò i fari che si allontanavano e proprio in quell’attimo di distrazione, qualcosa sfiorò la sua mano. Abbassò lo sguardo e vide delle dita lunghe e affusolate appoggiarsi al suo braccio. Una donna era seduta vicino a lui, lo sguardo spento e gli zigomi spigolosi. Aveva qualcosa di familiare quella donna, che forse aveva visto un attimo prima; come d’istinto, si rigirò a guardare la vetrina e vide solo due dei tre manichini: l’uomo ed il ragazzo. Si alzò di scatto, spaventato e guardò la donna, che aveva fatto lo stesso. I suoi occhi, ora sgranati per lo stupore, erano ancora completamente vuoti, come morti.
“Non spaventarti, non ti farò nulla”, disse la donna sorridendo con dolcezza e tendendo una mano verso di lui. L’uomo non la prese, ma si risedette sulla panchina, fissando la donna-manichino che si era risistemata serenamente accanto a lui canticchiando. La pioggia continuava a scrosciare con furia, l’albero li riparava dalla maggior parte dell’acqua; la lampadina del lampione che sovrastava l’albero, man mano andava spegnendosi.
“Non conosco il tuo nome, così ti chiamerò Valòs” disse piano il manichino a labbra serrate. L’uomo voltò il capo di scatto, mentre una leggera ombra di diffidenza ombreggiò sulla sua fronte.
La donna bellissima sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. Poi si alzò e la guardò avviarsi trotterellando verso il fiume; era bella. Dalle spalle le scendevano i riccioli bagnati e lucidi. Aveva il passo deciso di chi conosce bene il posto; sorrideva tra sé Valòs, un po’ stranito da questo sogno reale, che sarebbe svanito da lì a poco; la raggiunse. Camminarono per un po’ vicini, in silenzio. Arrivarono al fiume, che scorreva impetuoso nel suo letto, la cui acqua si mischiava con fragore alla pioggia.
Si appoggiarono al bordo del ponte accanto a un lampione spento, inzuppandosi fino alle ossa. Valòs non sapeva se fosse più freddo il suo cappotto o il suo cuore. Ripensò alla sera appena trascorsa e affondò il viso nel petto, disperato; la donna gli sfiorò il volto e lo prese per mano, tirandoselo dietro attraversò il ponte e raggiunse la riva del fiume; correndo si infilò sotto il ponte per ripararsi. Sull’altra sponda dormiva un uomo, sicuramente un barbone. Il suo fiato formava candide nuvolette di vapore bianco e viscido.
Ansimando Valòs scosse i capelli bagnati e stese il cappotto sulle pietre per far scivolare l’acqua che grondava da esso, poi si sedette accanto alla donna, mentre il fragore di un tuono esplodeva nell’aria. Rimasero per un po’ in silenzio osservando il lento respirare del vecchio.
“Come ti chiami?” chiese dopo un po’ Valòs. La donna alzò le spalle sorridendo.
“Sono una bambola vuota come una casa abbandonata, come potrei avere un nome?” sbottò lei. Valòs annuì lentamente.
“Però”, rispose lui, “Mi piacerebbe chiamarti Zianìc!” annuì ancora. Un’altra pausa.
“Allora, visto che sei un manichino, dimmi, com’è la vita senza alcun tipo di problema?” disse poi con rabbia. Zianìc non rispose, sorrise con dolcezza e lo strinse a sé, carezzandogli i capelli umidi e guardandolo negli occhi. Una brezza di vento portò loro l’odore della pioggia, avvolgendoli tra mille gocce invisibili. La donna si allontanò e gli prese la mano. Se la poggiò sul petto e Valòs sentì il battito di un timido cuore di plastica, forte, inattaccabile, intriso e combattuto d’ amore.
“Valòs senti, tu mi rendi davvero viva, solo parlandomi!” gli sussurrò, mentre gli occhi verde nocciola acquistavano vita. Con le labbra gli sfiorò la fronte, le guance e le labbra. In quel momento i cuori palpitarono l’uno per l’altro; sentirono entrambi l’alito bruciante provenire dal petto. Si baciarono. Valòs e Zianìc. Mille colori si presentarono ai loro occhi chiusi, mille pensieri fecero sussultare le loro anime: timori, paure, amore. Zianìc raccolse le gambe al petto e riprese a fissare il vagabondo. Valòs la osservò per un po’, poi guardò la pioggia oltre il ponte. La luce dei lampioni si specchiava nell’acqua spumeggiante del fiume. “Cosa porti in quella valigetta rossa?” chiese Valòs; “Tutta la mia esistenza” rispose Zianìc con aria triste.
Un campanile vicino battè le tre di notte.
Il barbone si svegliò di colpo e si guardò intorno confuso prima di vedere Valòs e Zianìc persi nei loro pensieri.
“Ehi! Voi, chi siete?” esclamò “Questo è il mio ponte! Andate via!”
L’uomo fece per ribattere, ma Zianìc gli toccò la spalla facendogli cenno che era meglio andare via. Lui prese il cappotto e insieme si allontanarono abbandonando la dolce penombra asciutta per tuffarsi nel temporale. Passeggiarono ancora senza badare troppo alla pioggia. Le stradine si snodavano tortuose tra palazzi bui e locali affollati da gente poco raccomandabile. Ad un certo punto Zianìc afferrò il braccio di Valòs e guardandosi intorno deviò in un vicolo stretto e opprimente. L’uomo la seguì correndo, mentre attorno a loro si snodavano palazzi fatiscenti con minuscole finestrelle, da cui ogni tanto si intravedevano occhi luccicanti nell’oscurità.
Corsero veloci, tenendosi per mano, finchè arrivarono in una piazzola.
“Dove siamo?” ansimò Valòs guardandosi intorno. Ai lati della piazza, in un parcheggio, c’erano una decina di furgoni; di fronte a loro invece si ergeva una piccola costruzione in parte metallica, il cui intonaco era sgretolato e il tetto cadente; la pioggia batteva sulle loro teste mentre correvano verso i portoni in legno, che aprendosi cigolarono sui cardini arrugginiti, mentre loro due si infilarono nel capannone. Le porte si chiusero e piombarono nel buio. Zianìc si mosse nell’oscurità con fare sicuro e accese una lampadina che pendeva dal tetto in un angolo.
“Dove siamo?” ripetè Valòs guardandola. Zianìc non rispose, si allontanò. L’uomo la seguì.
In fondo al capannone erano messi in fila tanti manichini, nuovi, finti, senza espressione, senza anima. Zianìc sfiorò con dita tremanti il volto anziano di quello più a destra; egli non era più; era stato dismesso perché si era rotto, non serviva più.
Una lacrima triste le accarezzò il viso; era stato rimosso dalla sua vetrina. Da tanto tempo aveva condiviso con lui lo sguardo di persone indecise, aveva condiviso albe e tramonti, pioggia e vento, sole e calore; aveva il viso stanco quel manichino che a lei mancava tanto. Abbassò gli occhi e si allontanò.
Valòs incredulo la guardò; guardò ancora intorno. Si avvicinò a Zianìc per abbracciarla, per confortarla, per dirle che ora c’era lui nella sua vita; ma proprio in quell’attimo il portone si spalancò e una voce urlò: “Chi va là?” I due sussultarono e si nascosero dietro a delle casse impilate, mentre il custode camminava verso di loro. Il silenzio era spezzato solo dai passi pesanti dell’uomo e dalla pioggia pesante che scrosciava sul tetto. Aveva il berretto calcato sulla fronte, un sigaro acceso in bocca e in mano brandiva una torcia elettrica; diede un’occhiata, poi borbottando qualcosa sui maledetti gatti, spense la luce e uscì.
Zianìc sospirò e tirò Valòs fino alla lampadina, la riaccese e si sedette. L’uomo la imitò. Lei tremava da capo a piedi. Valòs le passò un braccio attorno alle spalle e la strinse a sé. Guardò dentro quegli occhi luminosi e quella bocca socchiusa che aspettava tremante il bacio che li unì. Era dolcissima Zianìc, la pelle morbida, profumata, calda, inebriante. Si amarono guardandosi negli occhi, mentre il tempo si era fermato assieme alla pioggia che non sentivano più.
L’orologio segnava le quattro e l’alba si avvicinava inesorabile.
Per Valòs era l’ora di tornare a casa e per Zianìc quella di riprendere il suo posto nella vetrina. Smise di piovere.
Quando, tenendosi per mano, uscirono nell’azzurrina luce dell’alba, un sole tondo e pallido occhieggiava già basso sull’orizzonte. Lo osservarono mentre riprendeva il suo posto nel cielo, per poi avviarsi nella città ancora addormentata.
Davanti alla vetrina, si strinsero in un abbraccio che sapeva amaro di fiele e dolce di miele. Valòs cercò di trattenere la sua mano; Zianìc, come per incanto, riprese il proprio posto nella vetrina accanto all’uomo ed il ragazzo. Aveva fatto la sua scelta.
Piangeva Valòs, piangeva.
Aveva toccato con mano la donna da sempre desiderata anche se capiva che essa apparteneva ad un mondo diverso; viveva in una dimensione diversa: era un manichino che doveva stare nel suo ambiente, creatosi forse in un tempo troppo giovane per avere una giusta definizione. Lo capiva. E soffriva tanto.
Si risedette sulla panchina deciso ad aspettare di nuovo la notte, mentre piegandosi in due per il freddo, i suoi occhi stanchi si chiusero in un sonno ormai da lui latente da tanto, troppo tempo.
Sentì qualcuno, forse un passante, dargli una pacca sul petto; il rumore della città e il sole ormai già alto nel cielo svegliarono Valòs, che con la schiena dolorante si voltò a guardare la vetrina, speranzoso di non trovarci Zianìc e di avercela accanto.
Lei era lì, rigida, con le mani protese e la sua valigetta rossa, lo sguardo assente a guardare il nulla e la bocca sorridente.
Forse aveva sognato; era confuso, umido e tremante ancora per il freddo della notte;
si erano cercati o si erano semplicemente trovati in una realtà forse non vera?
Una pesantezza ossessiva gli piegò in avanti il corpo e specchiandosi non volutamente nella vetrina, si accorse di avere le mani rugose, le unghie sporche e il cappotto sfilacciato, rattoppato; la barba lunga, trascurata da mesi e il berretto sporco che copriva la testa ormai senza i capelli; sulla fronte rugosa si disegnò il dubbio che vide riflesso: “Sono trascorsi così tanti anni? Quanto ho dormito? Dov’è Zianìc, questo mio adorato, desiderato e agognato amore?”
Alzandosi e non facendo caso agli acciacchi, borbottò ancora tra sé: “Meglio ritornare sotto il mio ponte, accidenti, aspetterò la notte per ritornare sull’amata panchina, come sempre, finché morte non arriverà; accorata attesa di una nuova vita, di una nuova esistenza insieme”.
Forse questo racconto surreale, molto ben scritto, è completamente il frutto della penna di un bravo scrittore. Oppure è del tutto allegorico, e solo le due persone direttamente coinvolte, ne conoscono il significato reale…
Il nibbio è un uccello bello e solitario, minacciato di estinzione come quasi tutti i rapaci a causa dell’azione distruttiva dell’uomo. Ottima scelta e buon volo.
Ciao Ronja. A dire il vero pensavo (non trovando commento alcuno), che forse è piaciuto solo a me e in ogni caso ne sarei stato contento comunque. Ti ringrazio per il commento, molto acuto direi, perché hai centrato l’argomento in più parti. Voglio ancora aggiungere, che il vero fulcro del racconto è proprio il barbone; ti chiedo di rileggerlo da questa ottica.
“Beh…succede anche questo” è il titolo del prossimo che invierò.
Grazie ancora… e… al prossimo commento.
A me e ad un mio amico “Damon” è piaciuto molto.