Un frugoletto riccioluto.

I piedi camminavano da soli, nessuno riusciva a stare al passo.

Cercava, guardava, curiosava: due occhioni giganteschi incorniciavano quel viso, mentre una congerie di boccoli glielo guarniva, cornice folta e ondulata.

La porta di accesso al piano superiore era aperta: e lui cominciò a inerpicarsi per le scale, gradino dopo gradino. Quanti erano? Una ventina? Più o meno, comunque tanti.

Giunto in cima, cominciò a imperversare, in lungo e in largo.

Non gli importava nulla dei pericoli che avrebbe potuto correre:  quel che contava era solo curiosare.

Stanza dopo stanza, aveva ormai perlustrato tutto. Mancavano i bordi: quelli no, erano ancora illibati.

Del resto la casa era ancora in costruzione. Non esistevano le ringhiere, le porte andavano fissate.

Pecchecco a quel punto si fermò. La ragione era più d’una.

La prima, che poi era quella che lo aveva fatto arrestare, era lo spettro insito nel vuoto.

Quando ci troviamo di fronte al vacuum tutta la nostra energia si assottiglia, ci sentiamo persi, avvolti dall’horror.

Librarsi in volo sarebbe stata l’unica soluzione concreta per andare avanti, ma lui non poteva, gli mancavano le ali.

Eppure gli occhioni… quelli sì che lo assistevano: coprivano il tratto intercorrente, assottigliavano le distanze. Immensamente scuri, avvolgevano tutto.

La seconda ragione erano le urla stridule che cominciavano a levarsi dal piano terra.

In realtà quella era la prima ragione, perché sgorgavano dal petto di colei che lo aveva messo al mondo, appena due anni prima.

«Scendi, scendi giù, ti prego!»

«Scendi, mamma sta male…»

«Scendi, non c’è niente lassù…»

Certo, si era fermato, ma ora era perplesso, quasi inebetito.

Quella voce non era una come tutte le altre, aveva qualcosa di speciale.

L’aveva sentita echeggiare mentre prendeva forma nel tiepido alveo materno: a tutto tondo le carezze di quell’amore embrionale, dolce scorta verso la fattura levigata di una fisiognomica d’eccezione.

In ogni caso ormai l’aveva capito: non aveva senso proseguire, contava solo tornare da colei che lo aveva messo al mondo.

E fu così che la trovò, afflitta e disperata, riversa sul letto, pronta ad accoglierlo in un abbraccio infinito.

Si deve saper dare il giusto peso alle voci degli affetti.

Tante volte udiamo ma non ascoltiamo: non riusciamo a fermarci.

Il dono prezioso dei padiglioni auricolari è il tramite necessario per gli ambienti circostanti: ma poi bisogna saper distinguere tra il Bene e il Male, il Giusto e l’Ingiusto, il Sano e il Malato, il Positivo e il Negativo, il Giusto Mezzo e la Hybris.

Pecchecco era piccolo, ma aveva le idee chiare: seguiva la voce dell’anima, evitava i rischi e dopo il primo dei suoi innumerevoli viaggi tornava sano e salvo tra le braccia accoglienti della sua Alma Mater.

Un commento su “Pecchecco”
  1. Per un bambino curioso e non consapevole dei pericoli che la vita può presentare solo un richiamo è più forte del suo istinto: quello dell’amore filiale. Con una prosa poetica e una scrittura pregna di figure retoriche senza però essere retorica essa stessa hai ben messo in luce questo dualismo (istinto/amore), che si risolve grazie all’amore materno, che si fa istinto di sopravvivenza. Da piccoli per fortuna i conti tornano quasi sempre, le cose si complicano quando il tempo presenta il conto. Ma certi affetti resistono anche agli eventi contingenti, morte compresa. Ottimo scritto, descrittivo e assieme attento alle sfumature psicologiche e sociologiche dell’infanzia e dell’individualità.

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