Era felice, quel papà.

Non sapeva nuotare,

ma amava quel mare.

Sulla riva custodiva

tutta la famiglia:

piccoli e grandi,

senza eccezioni.

Oltre le creature,

oggetti utili, sicuri,

piccoli orpelli,

comunque belli.

Tra questi, i braccioli.

Lepidi anatroccoli,

leggeri e colorati,

fulgevano istoriati.

Ma uno si staccò.

Prese il largo.

Il papà non sopportava

la sua mancanza.

Era una deminutio.

Si levò in piedi,

corse verso il mare.

Rapido, furtivo,

volava via.

Non aveva capito.

Sicuro di sé,

credeva di controllare,

tutto,

anche il mare.

La terra era sicura,

altro che i marosi.

Protervo,

si mise in moto.

Sentì lo sciabordio,

petulante,

all’altezza delle ginocchia.

Imperterrito,

proseguì.

Elevato il suo ardire,

oltre ogni dire.

L’acqua toccò il bacino,

poi il torso,

robusto,

scolpito.

Ma il bracciolo era lontano.

All’ultimo passo,

in punta di piedi,

il limite era arrivato.

Le colonne d’Ercole.

Un attimo immenso.

Indecisione.

Restare o osare,

vivere o ardire.

Scelse la vita,

sicuro.

L’oggetto era perduto,

non i suoi cari.

Ancora oggi ricorda

quell’istante:

o tutto o niente.

Un saltello pertinace

sulla punta dell’alluce:

un, due, tre. Ahimé!

L’acqua era con sé.

Sarebbe bastata

la carezza d’un’ondata,

impetuosa,

impietosa.

Lo avrebbe prelevato,

una tantum,

fino alla fine.

Capì, frenò:

non era il caso.

Il bracciolo era sul mercato,

non l’esistenza.

La diamo per scontata,

ktema es aei.

E il carpe diem?

Fugace,

meravigliosamente seduttivo,

ma perfido e rapace.

La vita è una sola.

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