svegliati in fretta, indossa i pantaloni, corri nella grande stalla e fa il tuo dovere
(antica nenia lomellina)
La campagna arsa scorre davanti agli occhi. Torrenti di immobilità rovente scivolano fuori dai finestrini come immagini colorate di quelle nuove televisioni piatte che costano una fortuna.
Campi, alberi, strade. Lo sguardo viene beffato dal fluire del mondo. Al di là dei vetri, l’impasto della vita abbaglia i sensi e ipnotizza i ricordi, in questa estate da segnalare al collezionista di stagioni indimenticabili, quel rigattiere, pieno di belle cose, che ognuno di noi porta dentro di sé, nascosto chissà dove.
TRA – DUECENTO – METRI – GIRATE – A – DESTRA.
La voce metallica del navigatore vibra nell’abitacolo insieme ai lamenti delle sospensioni alle prese con buche così grandi che potrebbero ospitare un caimano, su questa riga di asfalto sperduta, appesa come una lacrima nel mezzo della grande pianura.
Elena ha insistito perché lo accendessi. “Così non sbagli strada…”, aveva detto, prima di tornare a far correre le dita sottili sullo schermo dello smartphone.
Tolgo gli occhi dalla strada per un attimo e la osservo. E’ bellissima e i suoi occhi sono come un pozzo profondo di cui non si vede la fine e dove si può precipitare e perdersi per sempre.
E ha ragione. Sbaglio sempre strada. Deve essere l’eredità di mio padre.
Anche papà sbagliava strada. Sbagliava sempre strada, papà, ci si poteva regolare l’orologio sopra. Ma non dava mai la colpa a me, se ero io a consultare la cartina. Quando se ne accorgeva, sbraitava, faceva il pagliaccio e si dava dei grandi pugni in testa. Poi si inerpicava in manovre assurde, al limite del Codice Penale, per tornare sulla strada giusta.
Succedeva sempre. E lui ogni volta decantava, con voce fiera, le mie lodi di navigatore. Lo faceva così bene che quasi finivo per convincermene anch’io. Mamma fingeva di crederci e mi guardava orgogliosa, mi baciava sulla guancia come ricompensa e, intanto, sgridava papà dicendogli che era un gran pasticcione e che non sarebbe riuscito a trovare la sua testa neanche se ce l’avesse avuta attaccata al collo.
ALL’INCROCIO – GIRATE – A – SINISTRA.
Il navigatore l’ho acceso, ma non lo ascolto. Quando cresci tra quattro case macilente, in mezzo ai campi, dove anche l’ombra sembra restare appesa ai muri per sbaglio, i posti non li dimentichi, anche se ormai non ci passi più da decenni.
Certe cose non te le scrolli di dosso.
Chiaroscuri, muri scrostati e polvere, un erpice arrugginito e il crepitare dei sassolini sotto le ruote, mi accolgono mentre l’auto sfila accanto ad un cortile dove due grovigli di rughe appaiono come statue che mi fissano dal buio dei fazzoletti annodati al mento. Rallento, il cortile mi viene incontro. E’ un microcosmo d’emozioni che mi assalgono peggio della canicola che c’è fuori. Il condizionatore pompa ma il sudore scorre forte. Vorrei fermarmi per uscire, per cercare un po’ d’ombra, ma questa sembra la strada che porta dritto all’inferno e l’asfalto brucia e sfrigola come il barbecue che papà faceva a Pasquetta, quando eravamo ancora tutti insieme.
Il posto è rimasto uguale a sé stesso. Sembra un gatto addormentato, raggomitolato sopra un tappeto scuro che svetta nel nulla di questo silenzioso mare agreste. Strade vuote, case solitarie e sbilenche, stesso caldo afoso della mia giovinezza, che stemperavo tuffandomi nei fossi di acqua limpida e gelida con Mario, Adolfo e tutti gli altri.
Le case sono rare e risaltano come piccoli dadi gettati su di un grande tavolo verde. Finiscono quasi subito, poi cominciano i campi e le rive dei fossi, con qualche platano che getta la sua frescura sulla strada.
L’odore del mais e dell’acqua penetra le narici. E’ intenso e fragrante.
Qui si respira ancora quell’aria rustica e paesana, quel semplice senso della vita che in città non esiste più, fagocitato dalla fretta e violentato dall’impeto del progresso. Qui tutto si è fermato, anche oggi, nonostante siano passati quaranta anni e il primo sfavillante centro commerciale sia ad appena una decina di chilometri. Qui non succede mai niente e la stragrande maggioranza delle persone ignora persino l’esistenza di un buco come questo. Poche case, poca gente, perennemente alle prese con fatica e tasche vuote.
Anche la violenza lo ha snobbato. In mezzo a tutta questa desolazione anche quella ha dovuto cercarsi un posto migliore.
ALLA – ROTONDA – PROSEGUITE – DRITTO.
Una volta era diverso. I navigatori automatici non c’erano e le case non andavano in rovina. Il paese brulicava di gente, sempre indaffarata nei campi o nelle stalle. C’era il caseificio e persino una piccola fabbrica e l’unica forma di violenza erano le scazzottate all’osteria, la domenica pomeriggio, quando ormai più della metà del paese sfiorava il coma etilico.
Ma poi arrivò la guerra. Micidiale come una badilata in testa. E, come una badilata, scornò tutta la gioventù del paese.
E sul finire della guerra, quando ormai tutti pensavano di aver salvato il fondoschiena, un drappello di Camicie Nere cadde in un’imboscata nei pressi del ponte.
Un fatto normale, per quei tempi: a volte toccava a quelli con il fazzoletto rosso, a volte a quelli con la camicia nera. Quella volta, a finire sottoterra, toccò a tre di quelli con la camicia.
Ad altri, puntuale, toccò la rappresaglia.
Una storia come tante. La notte successiva una squadraccia di Camicie Nere fece irruzione nella Cascina Torrina, poco fuori dal paese.
Correva voce che i proprietari della cascina Torrina nascondessero partigiani e prigionieri di guerra evasi. Sospetti, più che altro, voci bisbigliate di nascosto ma, dopo quello che era successo al ponte, tanto bastò per segnarne il destino.
Gli abitanti furono prima ammassati nella grande aia. Poi gli uomini vennero separati dalle donne e fucilati contro il muro che dalla stalla andava all’essiccatoio. Fine delle danze.
Finita la guerra, fecero tutti a gara a chi dimenticava per primo. Dopo qualche anno la cascina Torrina rimase disabitata e finì per andare in malora, finché il comune non decise di demolirla.
Mi ricordo che da bambini, quando era ancora in piedi, giocavamo in mezzo a quelle rovine, tra muri in bilico ed oceani di rovi ed ortiche. Mi ricordo anche che, a volte, ad un’ora imprecisata, verso il tardo pomeriggio, quando le ombre iniziano a far capolino da lontano e si sentono fruscii sordi e leggeri rumori tetri, quasi a farti capire che la tua è ansia vera e non il suono sbagliato del respiro, soffiava un vento caldo che sembrava odorare di polvere da sparo e mi portava alle orecchie l’eco delle raffiche e lo strazio, insopportabile, delle urla. E quando passavo davanti al muro, che andava dalla stalla all’essiccatoio, mi bloccavo, ipnotizzato dai fori dei proiettili sui mattoni, che si vedevano ancora bene dopo tutto quel tempo, mentre i miei amici cercavano di scuotermi e di riportarmi alla realtà, perché si stava facendo tardi e non c’era molto tempo per giocare.
Ma io rimanevo lì, impalato, a fissare quei fori che sembravano allargarsi come bocche fameliche pronte a divorarmi. Ma, invece di addentarmi, urlavano, urlavano forte, mentre dai fori mi sembrava di veder trasudare un liquido denso di colore rosso cupo.
MANTENETE – LA – DESTRA.
A parte il grigiore dei ricordi, i colori sono rimasti gli stessi. Il verde delle risaie fa da contrasto al marrone intenso degli argini mescolato al blu profondo dei fossi ed alla pallida striscia grigia di asfalto, dipinti sulla grande pianura da un pennello scorrevole e preciso.
Un vecchio cartello contorto indica ancora il bivio per il vecchio ponte di barche, sostituito da quello in cemento più di cinquanta anni fa. Le lettere bianche pian piano cedono alla ruggine assieme alla vernice blu dello sfondo.
Elena conclude la sua personale battaglia con le App, si stiracchia e guarda fuori. La luce è forte, è quella di un pomeriggio d’estate. Forte e gialla. La macchina corre in mezzo ad un deserto verde. Lei è abituata al ritmo caotico della città e non ha mai visto una distesa simile, accarezzata da un vento secco che la fa ondeggiare come se fosse davvero la superficie di un oceano, dove anche un piccolo albero appare come un piccolo atollo, sperduto e lussureggiante.
“E tu come ci sei capitato in un posto come questo?”, mi chiede e la sua voce è come la melodia di un ruscello di montagna, che scivola leggero tra sassi e prati fioriti.
E’ una storia vecchia. I miei nonni paterni erano di qui ma, sul finire della guerra, mio nonno improvvisamente morì. Un colpo secco, a poco più di quaranta anni, e con una salute di ferro da farlo campare per altri duecento. Nemmeno il medico era riuscito a capirci qualcosa, e neanche lui era riuscito a sostenere lo sguardo vitreo dei suoi occhi sbarrati. La bocca deformata dal terrore, come se avesse visto Belzebù in persona, e i capelli diventati bianchi come panna montata.
Rimasta vedova, e con mio papà praticamente in fasce, la nonna dovette trasferirsi in città, presso alcuni parenti.
Al paese ci tornò solo parecchi anni dopo. Quando io facevo le elementari. Ci fermavamo qui durante le vacanze estive e mamma e papà ci raggiungevano al fine settimana.
Qui mi sentivo il padrone del mondo, anche se gli altri mi guardavano storto, forse perché venivo da fuori, forse perché avevo modi e vestiti diversi dai loro. Attribuivo questa diffidenza alle tipiche rivalità di bambini, quelle che, di solito, durano fino al rintocco del campanile che sancisce la fine della partita o delle scorribande in bicicletta e l’ora del rientro a casa.
TRA – TRECENTO – METRI – SIETE – ARRIVATI – A – DESTINAZIONE.
Una domenica papà decise di andarsene a pescare giù al fiume. Non mi ricordo perché non andai con lui. Forse perché dovevo giocare a pallone, forse perché dovevo finire dei compiti. In ogni caso fu un bene.
Il tragitto durava una manciata di chilometri ma lui, puntualmente, sbagliò strada.
E, anziché andare giù al fiume, finì per andare giù nel fiume.
Lo cercarono dappertutto e quando scoprirono cosa fosse successo erano già passati tre giorni.
Mamma pianse. Io no.
Io volevo solo capire, ma non ci riuscivo.
Non capivo perché non mi avessero fatto vedere papà, per l’ultima volta, nella camera ardente.
Lo capii più avanti. Probabilmente il tempo trascorso in acqua era stato sufficiente a ridurre il mio papà ad un cadavere gonfio, bluastro, con occhi e naso divorati dai pesci e capelli appiccicati sopra il cranio venoso come alghe su di un sasso.
Era così che, alla fine, dovevano averlo ripescato. Ed era per questo che nella camera ardente la bara non era stata aperta.
Certe cose non te le scrolli di dosso. E’ meglio per tutti non vederle.
Morto papà, mamma e nonna non vollero più tornare al paese. Troppi ricordi dicevano, ma io non capivo perché questa decisione fosse stata presa così velocemente, così… drasticamente, tanto da sembrare quasi una fuga. Una volta la nonna ha cercato di spiegarmi qualcosa ma la mamma l’ha zittita subito ed io continuavo a non capire, finché non lasciai che la mia adolescenza prendesse altre strade.
“E allora come mai hai deciso di tornarci proprio oggi?”.
“Mi ha telefonato il sindaco. E’ il mio vecchio amico Luigi, compagno di tante scorribande in mezzo ai campi. Mi ha supplicato di fare un salto perché è il momento buono. Dice che c’è un tizio che è interessato alla mia vecchia casa di campagna e me lo vorrebbe presentare….”.
SIETE – ARRIVATI – A – DESTINAZIONE.
Fermo l’auto in uno spiazzo dominato da rovi ed erbacce, accanto ad un fosso che disegna una perfetta curva a gomito, seguita da un ponticello e da una grande quercia, e quindi si insinua tra i campi come un grosso serpente. Attorno, verde a perdita d’occhio e nessun essere umano in circolazione. Sparute case coloniche, sperdute tra i campi, isolate, appaiono contro la luce come sagome di relitti. I pali della luce sono alberi di navi che affondano in uno sconfinato oceano verde.
“Siete arrivati un bel paio di….!”, mi agito, “Il paese è là in fondo… si vede il campanile, la ciminiera del caseificio… ci saranno ancora almeno cinquecento metri…!”.
SIETE – ARRIVATI – A – DESTINAZIONE.
“Ancora! Ma che razza di…!”.
Maledico il navigatore e giro la chiave per ripartire. Ma il motorino di avviamento tace. Riprovo, una, due, tre volte, ma ottengo solo di restare inchiodato più di una barca a vela in montagna.
Vorrei scendere, aprire il cofano e controllare ma, rapida e velocissima, incombe l’ombra tetra di un enorme nuvolone nero.
Attraverso il parabrezza lame distorte di luce sfumano sulla vernice della carrozzeria e sull’asfalto in ombre grottesche e cangianti.
Non ho mai visto una nuvola così grossa.
E così nera.
Un muro di nero, compatto, che sembra non avere né inizio né fine. La sensazione di un brivido serpeggia lungo la spina dorsale, il petto è oppresso dalla stretta di un panico che non provo da lungo tempo.
SIETE – ARRIVATI – A – DESTINAZIONE.
Sono passate da poco le quattro del pomeriggio ma sembra che il tempo si sia fermato. Anche il mondo che mi circonda sembra essere diventato statico, cristallizzato in un singolo, immutabile, istante.
Attribuisco questa sensazione alla luce obliqua del sole che i pioppeti cercano di ingoiare.
All’improvviso il navigatore si spegne. Da solo.
Nell’abitacolo cala un silenzio innaturale che cerco di stemperare accendendo nervosamente la radio.
Ma la radio trasmette solo rumore di statica. In tutte le stazioni.
La spengo con una bestemmia e controllo il cellulare. Non c’è campo.
Poi scoppia il temporale. Inizia come una marea che si alza sempre più, portandosi via un pezzo di spiaggia alla volta, fino a trasformare la strada in un torrente.
Gocce pesanti come cubetti di ghiaccio crepitano sul tetto dell’auto, come le interferenze di una radio rotta, e si infrangono sul parabrezza trasformandosi in rigagnoli. Sui finestrini laterali grondano in una cascata incessante, simile ad una tenda di perle di vetro. Come schiaffi nell’aria, tagliano il paesaggio. Lo violentano e lo squarciano in mille pezzi.
L’odore che viene da fuori è umido e forte. Invade l’abitacolo ed impregna l’aria, i vestiti, la pelle: una sensazione atavica di… morte? No, qualcosa di più profondo. Qualcosa di estremo, di contorto, che lascia in bocca il sapore della paura.
Elena armeggia nervosamente con lo smartphone, bofonchiando perché neanche il suo prende. Spera che il temporale se ne vada in fretta, come è arrivato, che il sole torni a splendere e che tutto questo finisca.
Finché non arriva l’eco.
Un eco di suoni lontani, di voci. Voci confuse, lamenti che non si riesce a distinguere.
All’inizio sono solo mugolii appena percettibili, quasi dei rantoli, poi diventano via via più vicini, fino quasi ad un passo da noi.
Poi si fermano e rimangono sospesi, in mezzo ai campi.
E subito inizia la nenia.
…svegliati in fretta, indossa i pantaloni, corri nella grande stalla e fa il tuo dovere, svegliati in fretta, indossa i pantaloni, corri nella grande stalla e fa il tuo dovere, svegliati in fretta, indossa i pantaloni, corri nella grande stalla e fa il tuo dovere, svegliati in fretta, indossa i pantaloni, corri nella grande stalla e fa il tuo dovere…
Conosco quelle strofe. Me le cantava sempre mia nonna da piccolo. E’ un vecchio canto dialettale di contadini che si preparano ai lavori giornalieri della campagna. Lo cantavano tutti, qui, una volta.
Ma la melodia è diversa. Non ricorda per nulla la voce calda di mia nonna, che cercava di farmi addormentare, né quelle forti e vigorose, ma fraterne, dei contadini che si incitavano ad iniziare i lavori.
E non è per niente allegra. Sembra un’imitazione grossolana, un lamento, e trasmette famelica crudeltà.
Entra nelle ossa e secca la lingua, incollandola al palato, fino a trasformarsi in un urlo stridulo, gelido come una notte d’inverno.
Poi vedo arrivare quella gente.
Un’espressione deforme si congela sulla faccia, il corpo si pietrifica, le mani si annodano, man mano che li vedo sopraggiungere. Si materializzano dalla radura che c’è proprio accanto a dove ho parcheggiato.
Arrivano alla spicciolata. Dapprima uno, poi un altro e dietro un terzo e così via. In fila, distanziati di un paio di secondi l’uno dall’altro.
Procedono a passi lenti, spigolosi, barcollanti. Sembra che ballino il twist e non hanno esattamente l’espressione di chi sta tornando da una trasferta in paradiso.
Elena ora si stringe forte a me. Le sue paure sono carta carbone con le mie.
Circondano l’auto. Sono una decina.
Ci sono vecchi e giovani e indossano abiti da contadini.
E sono tutti maschi.
Guardando bene, attraverso il sipario d’acqua, mi pare di scorgere che i loro abiti siano sforacchiati da qualcosa che sembra tanto….(proiettili….? Ma cosa vado a pensare!). Ad uno manca mezza faccia, strappata via da…(una raffica…?), un altro non ha più la mandibola, un altro ancora ha perso completamente la calotta cranica. L’ultimo arrivato, un ragazzino, che potrebbe avere una decina d’anni, ha un solo foro al centro della fronte.
Iniziano a colpire ripetutamente l’auto, con pugni grossi e pesanti come pietre, che fanno schizzare sulla carrozzeria e sul parabrezza schizzi di acqua, sangue e materia organica. Il cielo è ancora di un vago colore grigio, morto e impenetrabile e la pioggia cade sempre forte ma non riesce a lavare via quella schifezza.
E intanto gridano.
La loro voce sembra emessa da qualcosa che non abbia a vedere con la gola, sebbene muovano le labbra ed articolino le parole.
Volti deformi e bocche spalancate mutano repentinamente in un’orribile maschera di putrefazione. Ora l’espressione di quegli… (uomini? Per carità!) diventa un ghigno che mostra zanne gialle e consunte, incastonate nelle gengive nerastre e gonfie, mentre occhi vacui mi penetrano come una lama arroventata.
Continuano ad urlare, li sento benissimo. Riesco a distinguere i loro gemiti carichi di accuse, incorniciati da visi stravolti dall’orrore.
Elena volge ancora il suo sguardo al mio, come se fossi l’unico punto di riferimento di un mondo che sta per andare a puttane. E magari fosse solo quello. Il mascara le è colato sul viso in lunghi rivoli neri, simili a lacrime velenose.
Il suo volto è una maschera viola, zuppa di lacrime e terrore. Mi supplica di portarla via da lì. Da qualsiasi parte, purché lontano da quell’abominio vomitato da chissà quale girone infernale.
Ma io guardo fuori e rifletto: la radura, accanto a dove ho parcheggiato, che risalta in mezzo ai campi perché è l’unico fazzoletto incolto ed invaso dalle erbacce (…è ovvio …perché lì l’aratro si romperebbe, dato che…), il fosso che vi scorre accanto e che fa la curva a gomito, il ponticello, la grossa quercia….
Certi posti non li dimentichi, anche se non ci passi più da decenni.
Certe cose non te le scrolli di dosso.
Appoggio la testa al volante e mi metto a pensare. Le paure di allora si ridestano e si risvegliano demoni addormentati, che sarebbe stato meglio lasciare addormentati.
La mente si riaccende, come dopo un lungo letargo.
I ricordi iniziano lentamente ad affiorare, come alberi spogli che sembrano volermi ghermire. Vedo immagini astratte, diapositive sfuocate, confusi flashback, come se fosse entrata in azione una nascosta macchina del tempo, che proietta un mondo che dovrebbe esistere solo nei sogni.
Mi tornano alla mente, come fantasmi, i sussurri dalle comari dietro le spalle, lo sguardo strano dei più vecchi quando mi incrociavano in giro per il paese.
E tutte quelle altre voci.
Quelle che mia nonna e mia mamma non mi hanno mai voluto raccontare, perché sono cose che non si raccontano, tantomeno ad un ragazzino.
Allora capisco che certe cose fanno parte di te, anche se non le vedi.
Non te le scrolli di dosso.
Non se ne vanno e continuano a marciare con i tuoi fantasmi personali.
Capisco che il TOMTOM non ha sbagliato. Sono veramente arrivato a destinazione.
Penso al mio amico (ma… posso ancora chiamarlo così…?) Luigi, il sindaco, che improvvisamente ha voluto farmi venire qui, fino ad inventarsi un improbabile acquirente per quei quattro muri gelidi, intrisi di umidità e muffa.
Dopo tutto questo tempo.
Penso a come insisteva al telefono e vorrei tanto non averlo ascoltato.
“E’ il momento buono….!”, aveva detto.
E’ il momento in cui la mia strada diventa un viale contornato da cipressi.
Mentre il primo finestrino va in frantumi mi domando solo se avrò tempo per spiegarlo a Elena.
Per dirle che stare con lei era come ammirare una stella che si accende in una notte d’estate, per dirle che mi dispiace di averla trascinata in questo casino.
Perché proprio in questa radura sorgeva la cascina Torrina.
E mio nonno era il capo delle Camicie Nere.