Bianche calle fresche e profumate ondulavano, al centro del tavolo, trascinate dalla brezza timida della sera. Tutto intorno, nella stanza, regnava un disordine disarmante: quadri inclinati, preziosi soprammobili di cristallo caduti a terra, libri ammucchiati sul pavimento senza una logica sistemazione. Sul tavolo, un bicchiere ancora colmo di un liquido color ocra attirava su di sé gli ultimi raggi del sole di un autunno oramai alle porte, mentre dal lato opposto, una scatola di sigari aperta attendeva che qualcuno la spogliasse dell’ultimo toscano. E poi polvere, tanta polvere a mostrare da quanto quella stanza non fosse abitata, a gridare, a chiunque vi avesse messo piede, l’assoluto bisogno di attenzioni.
 
Quando la porta si aprì le narici le si inzupparono di un’aria acre, di un odore così forte da costringerla a tapparle con un fazzoletto di stoffa imbevuto di profumo alla lavanda. Quanto tempo era trascorso dall’ultima volta in cui era stata lì? Settimane, forse mesi. Non lo ricordava con esattezza e nemmeno si sforzò di farlo: il concetto di tempo non era più cosa che le appartenesse.
Era rimasto tutto come lo aveva lasciato. Persino la finestra era socchiusa come al solito e i cristalli giacevano ancora a terra frantumati dall’urto. Tutto immobile, tutto così tetro, così apparentemente privo di vita.
 
Un mugolio trascinato spezzò il silenzio, lacrime taglienti presero a rigarle le guance paffute e le mani iniziarono a tremarle. Ogni cosa era senza anima in quella stanza tranne i fiori che danzavano, con soave leggerezza, per niente intimoriti dalla sua presenza; quei fiori che lei stessa aveva raccolto e portato a casa con gioia, la tragica sera in cui tutto accadde così rapidamente da poter essere rimosso con cinica naturalezza dalla sua mente, ma allo stesso modo ancora del tutto vivido da mostrarsi, crudo, di fronte ai suoi occhi. Adesso.
 
“Aiutami Anna, sento una fitta al cuore…” Si precipitò dove suo marito cadde di colpo dalla sedia dopo averle rivolto le sue ultime parole che suonarono come un triste e disperato grido d’aiuto. In ginocchio su pezzi di cristallo acuminati, con le lacrime che sgorgavano copiose, vide l’uomo che aveva amato per tutta una vita, lottare, digrignare i denti, raccogliere senza riuscirci l’ossigeno che pian piano sentiva mancare ai polmoni. Strillò forte una, due… tre volte: “perché, perché… perché…??” In un attimo tutto quel che aveva rimosso affiorava senza pietà dentro di lei. Tenne la testa china mentre le dita chiuse a pugno si scagliarono violente sul pavimento, incuranti di essere trafitte… Era una donna sfinita quella che di lì a poco perse i sensi…

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“Non so niente di quello che accadde dopo, di come quella vita proseguì; se riuscì a superare quel momento o se ne fu succube per sempre. Penso sia stato  bello anche solo averne sbirciato un attimo disperatamente triste, perché c’era comunque una nota di speranza in quei fiori freschi, nonostante tutta l’angoscia del momento. In quel muoversi incessante ho visto la presenza del marito che stava aspettando senza fretta il ritorno di lei.  Mi piace, è un pensiero positivo e non è certo l’unica interpretazione, per questo ho intitolato e concludo questo breve racconto con una domanda… Chi c’era dietro a quel danzare?”

 

Un pensiero su “Chi c’era dietro a quel danzare?”
  1. un racconto dal contenuto oscuro e logicamente poco coordinato.
    belle frasi, messe qua e là, fini a sè stesse e non armoniche al racconto.
    che senso ha la parte finale?
    manca la sequenza delle risposte chi? quando ? come? dove ? perchè?.
    è vero che non è un pezzo giornalistico, ma qualche chiarimento e qualche risposta l’autore deve pur fornirla a chi legge…
    scusa la schiettezza, ma forse non limitare il testo alle 1200 battute circa, quante credo che siano, e ampliarlo renderebbe tutto più agevole.
    anna

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