Lo si vedeva camminare in maniera goffa, strisciando i piedi a volte o zigzagare tra le cicche per terra, arrivava con un’andatura clownesca e i denti che sporgevano leggermente attraverso le labbra gli dipingevano in volto un eterno sorriso, aveva gli occhi più trasparenti che si potessero immaginare, ma non riusciva a farsi invidiare nemmeno per quelli, ritardato così era chiamato dove abitava, pareva non invecchiare mai, ne aveva trentadue ma era come se il tempo su quel viso si fosse fermato, come se la sua faccia corrispondesse all’età mentale oltre la quale non poteva più andare.
Ciondolava avanti e indietro per le strade del quartiere e lo conoscevano tutti sebbene nessuno avesse mai parlato con lui, ciò che faceva da mattina a sera era camminare, ogni tanto si fermava a fissare il vuoto con quegli incredibili occhi, rimaneva anche dieci minuti immobile e pareva che davvero riuscisse a vedere qualcosa che alla nostra vista veniva celato, solo a sera la madre uscendo dal lavoro lo prendeva sottobraccio e lo riaccompagnava a casa, lui le saltellava a fianco aspettando che lei gli porgesse i rotoli di liquirizia, la srotolava tutta e se la annodava al collo come una sciarpa.
Il padre se ne era andato quando lui aveva solo sette anni, ricordo che lo accompagnava a scuola in macchina e lo lasciava a duecento metri dall’entrata, credo che dallo specchietto retrovisore potesse vedere il nugolo di bambini che lo circondava per canzonarlo, era sempre infagottato in un giaccone grande il doppio di lui, ritardato gli urlavano facendogli rimbalzare il pallone sulla testa, ritardato e gli aprivano la cartella per gettare tutti i quaderni per terra, eppure io non l’ho mai visto piangere, raccoglieva tutto senza fretta e poi alzava gli occhi e il mondo si rifletteva dentro, tutto ciò che c’era di bello finiva nei suoi occhi.
Poi era arrivato il giorno che l’amore era giunto al suo cuore: la bella ragazza del consultorio sociale dove lui andava per imparare a ballare il liscio, ballava sempre con la madre che lo portava nei suoi passi incerti e lo si sentiva ridere forte anche dalla strada, presto si radunavano i ragazzi coi motorini e ridevano di loro che si tenevano per le mani e giravano in tondo finché non si accasciavano sulle sedie esausti.
Avevano cominciato a parlare perché ogni tanto anche lei si univa a questi girotondi, prendeva delicatamente le mani di entrambi e sorridendogli lo fissava scavando nella profondità di quell’uomo così semplice, ed anche lei come tutto ciò che di bello vi era al mondo finiva intrappolata dentro la sua anima, ed era la prima volta che non era stata una nuvola dalla forma strana, una foglia che cadeva dall’albero, un’ape che volteggiava attorno ad un fiore, un gatto che si acquattava sotto un’aiuola, un passero che si riposava sul davanzale, la prima volta che una persona, che un essere umano era entrata in quel mondo fatto di improvvisi aliti di vento e piume che chissà da dove erano arrivate a danzargli tra le scarpe.
Così era capitato che dopo il ballo i tre spesso andavano a prendere un gelato, lui in mezzo tenendo strette le mani e dondolandosi come se fosse stato su di una altalena e quando aveva il cioccolato che gli colava dal mento lei gli alzava il viso e con il tovagliolo lo puliva, oppure si faceva disegnare un paio di baffi con la nocciola.
Cosa significava amore per lui: credo che fosse avere una persona che ti spiegava che le stelle hanno un nome, una persona che gli faceva sembrare così normale e così dolce sentire il suono del proprio nome, qualcuno che per salutarlo gli buttava le braccia al collo e gli dava un bacio sulla guancia e sorrideva quando lui se la asciugava col palmo della mano, una persona che si metteva tra i capelli ogni fiore che lui le porgeva e rideva se la chiamava hawaiana.
Un giorno le aveva detto che erano fidanzati, forse in televisione la sera prima aveva visto qualcosa che gli aveva messo in testa quella idea.
“Siamo fidanzati io e te”
Lei era arrossita ma senza togliere le mani che erano intrecciate alle sue.
“Io ho già un fidanzato” con il tono di voce più dolce possibile e gliel’aveva detto fissandolo e specchiandosi dentro il mondo che stava dietro ai suoi occhi.
Allora lui si era alzato uscendo di corsa ma senza lacrime, poi subito fuori si era fermato di colpo ad osservare quanto brillava una certa pietra illuminata dal sole e tra il vento che spazzava il cielo e le nuvole così bianche che parevano schiuma da barba anche lei che lo guardava attraverso la vetrata si era resa conto che il suo mondo era di nuovo quello di prima.
Triste, bello; una realtà che esiste nel mondo, con i suoi sentimenti di sempre, cattiveria, altruismo, cuore troppo semplice, puro, inadatto a vivere la vita, purtroppo.
Sandra
C’è molta umanità e delicatezza nel tuo racconto OZMA. Hai saputo descrivere e cogliere con estrema sensibilità aspetti e dettagli di un animo puro, costretto a vivere ai margini di una società che troppo spesso non accetta e denigra i meno fortunati.
Bel racconto.
un racconto bello e ben scritto.
anna
Bellissimo questo racconto. Complimenti. Betta