Ieri ho compiuto sessant’anni e un anno fa, primo giorno di primavera, la mia amata mi ha lasciato. Io sono il conte Massimo, Massimo di Fortegrande e mia moglie, fino a quando è stata con me, era una contessa. Non so quanto tempo ci impiegò a prendere la decisione di lasciarmi, ma quando me lo disse avvenne tutto in un attimo. Il giorno dell’addio mi chiamò al telefono e disse che mi avrebbe atteso sotto casa, aveva da dirmi qualcosa di importante; quel mattino si era recata alla solita riunione del Circolo che organizza opere di beneficienza per i poveri della città e io la stavo aspettando per il pranzo che di solito ci viene servito alle ore tredici da Mario, il maggiordomo.

Mi sistemai di tutto punto, riordinai quattro carte sulla scrivania dello studio e indossai la giacca leggera, quella di cotone beige acquistata a Londra due anni prima. Lentamente scesi le scale e mi ritrovai in giardino, il cancello elettrico intanto si stava muovendo e aprendosi, lasciava intravedere l’auto di mia moglie che mi stava aspettando. Aprii la portiera con lentezza e vi salii, lei era al posto di guida.

Era bella la mia contessa…  più giovane di me e fino a quel momento credevo mi volesse bene come se ne vuole ad un dio.

Era imbarazzata la mia contessa… non sapeva come iniziare il discorso e io a quel punto la incoraggiai, dicendole che non doveva avere paura di parlare, le dissi che non mi piaceva vederla così nervosa, non mi piacevano quelle mani che si torturavano.

Mi lasciò così la mia contessa… dicendomi piangendo che le dispiaceva, che da tanto stava meditando su come darmi quella drammatica notizia.

Era stanca di quella vita la mia contessa… disse che la sua era un’esistenza malvissuta e che io non meritavo di avere accanto una donna scontenta. Non le andava più di passare le serate rinchiusa nella nostra grande casa, in mezzo a tutte quelle reliquie, così le ha chiamate. La rattristavano i nostri vecchi mobili, i nostri ricordi incastrati nell’argento e le nostre cianfrusaglie incrostate.

La mia contessa voleva visitare il mondo non solo di giorno e si è assunta delle colpe che per me non sono colpe.

A me quelle serate in casa piacevano, mi piaceva essere circondato dalle mie vecchie cose che esprimevano l’eterno mondo che sarebbe rimasto intatto e intanto mi piaceva guardare lei, la mia contessa.

Tutto questo mi è sempre bastato.

Per un anno mi sono rifiutato di uscire di casa perché desideravo cercare di capire dove si trovavano i difetti. Erano forse i miei libri impolverati, in disordine, vecchi e malandati che le davano noia? O i tappeti lisi e vissuti sparsi dappertutto? Era forse il parquet scricchiolante che la infastidiva? Oppure i muri mezzi incrostati  e da ridipingere che le suggerivano il malumore? Era arrivato il momento di dare una rinfrescata a ciò che mi stava attorno o avrei dovuto cercare di adattarmi io alla vita che si srotolava fuori dalla mia porta di casa?

Anche oggi, come un anno fa, è il primo giorno di primavera e sono qui, seduto ad un tavolino di caffè in pieno centro città, osservando apparentemente annoiato chi mi passa davanti. Non fa molto caldo e i personaggi che attraversano per breve tempo la mia visuale sono allegramente variegati se guardati come si guarda una scacchiera. Le giovani donne, per esempio, nella loro originalità sono tutte indistintamente uguali e parlo della porzione di pancia scoperta e dell’ombelico con appeso l’orecchino. Prima non ci avrei mai fatto caso … anche tutti questi tatuaggi che attirano la mia attenzione non sono poca cosa. Ce ne sono di tutti i tipi: colorati, piccoli, enormi, vistosi, discreti, riusciti bene, riusciti male, tutti però si arrampicano cerimoniosamente sulle parti più inconsuete del corpo come gioielli indelebili, scelti di proposito da chi ha deciso di indossarli fino alla morte. Chi è portatore di tatuaggi li sfodera come opere d’arte vacanti, direi con orgogliosa ostentazione …

Io, fermo, li guardo… e penso che forse basta poco per essere felici. Quello stesso pomeriggio mi fermai dinanzi alla vetrina lugubre del negozio. Sopra una stuoia nera vi erano posati specchi abbastanza grandi per contenere figurine nere pronte per essere appiccicate sulla pelle come medaglie al valore, indelebili. Notai anche bottoncini di varie forme, sicuramente in argento da sparare come proiettili eleganti su nasi, ombelichi  e orecchie nudi…

Senza un perché mi ritrovai all’interno del negozio, se così si può chiamare un luogo dove, anziché acquistare, chi ci entra decide di farsi dipingere per l’eternità. La musica era un frastuono di suoni che si mescolavano a casaccio, non ero abituato a ritmi così incalzanti, inversamente proporzionali alle melodie mozartiane che si celebrano quasi tutte le sere a casa mia, accompagnate da buon brandy e dall’odore di legno antico. Il locale assomigliava più ad un antro oscuro, i fasci di luce densi di fumo che le lampade appese sul soffitto creavano, danzavano lenti e morbidi. L’odore era pungente, puzza di sigarette mal spente, nascoste e dimenticate.

La signorina del negozio nonostante tutto mi era simpatica e mi chiesi immediatamente se con lei ci sarei mai andato a fare una passeggiata lungo l’Arno.

Mi accolse con un sorriso nero perché nere erano le sue labbra; due sproporzionati cerchi riempiti sempre di nero contenevano gli occhi, non vedevo ombra di sopracciglia. I capelli erano inquietanti, di un colore fucsia acceso che mi imbarazzavano.

Mi guardava e non si aspettava la mia richiesta scontata. Le chiesi con gentilezza, senza dare troppe spiegazioni, se era possibile dare un’occhiata ai cataloghi per poter scegliere. La signorina fece un giro di danza avvolta nel suo abito di plastica nera aderente e pizzicò con le unghie lunghissime e scure una cartellina contenente la gamma dei prodotti.

Saltarono fuori impetuosi vampiri, draghi, iniziali con caratteri di tutti i tipi, cuori, delfini, piovre, angioletti, barche, soli all’orizzonte, lune parlanti, fiori di tutti i generi, persino teste di cane e gatti, frasi in lingue sconosciute …

Non mi piaceva niente, ma quel particolare giorno di inizio primavera volevo provare ad iniziare ad essere felice …

Sono un conte, io, dai modi eleganti ma poco disinvolti e in tutta la mia vita non mi è mai successo di uscire da un negozio senza aver acquistato nulla e allora chiesi alla signorina, sussurrandole in un orecchio, se poteva tatuarmi una coccinella piccola piccola proprio qui, nell’incavo della mano sinistra, tra il pollice e l’indice … 

4 pensiero su “Il tatuaggio”
  1. Mi e’ subito piaciuto la prima volta che l’ho letto,e adesso ancora di piu,entrambe sappiamo perche’.

    con affetto
    Silvana

  2. Molto bello e scorrevole, si legge con piacere. Complimenti di cuore. Con affetto
    Gabriella

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