1. Even
La città di Even era arroccata sulla cima di una collina snella e verde, con due uniche strade che, scoscese e sinuose, potevano condurre alle sue porte argentee. Un visitatore disattento non avrebbe riscontrato segni di vita pulsante al suo interno, né confusione sonora. Non vi era ombra di macchine, di nessun tipo, e non c’erano persone che affollassero le sue viuzze strette e delicate: gli abitanti di quell’eremo di legno e pietre, infatti, non avevano corpo, né sembianze definite. Soltanto un’indefinita luce dorata e flebile rivelava la presenza di qualcuno di essi, ed un evenino poteva riconoscere i propri simili unicamente tramite la tonalità del giallo ch’egli indossava. E, lampante, poteva notarsi tutta una moltitudine di sfumature solari: dal color d’oro al paglierino tenue, dal biondo intenso all’arancio su fino al colore dello zafferano.
In particolare, ad Even gli abitanti non possedevano un aspetto estetico ben definito, se non in rare occasioni. Quindi il corso della loro vita si basava quasi unicamente sulla capacità di sentire intimamente la natura dei propri simili, accordando amicizie e affetti solo a quanti si mostrassero lieti e benevoli, privi di malevola invidia e bieco tornaconto.
La peculiarità saliente degli evenini era che essi non avevano la facoltà di toccarsi né, tantomeno, la possibilità di sentire l’odore lieve ed etereo che ciascuno emanava, tranne che in due particolari circostanze.
La prima, legata a condizioni indipendenti dalla volontà e dalle contingenze, comune a tutti, senza distinzioni: nei primi anni di vita un bimbo poteva sentire pienamente le premure della madre, cosa che instillava negli evenini il ricordo suadente e leggero della contiguità, e costituiva l’impulso che li pungolava alla ricerca dei sensi.
L’altra, invece, più complicata: quando due di essi raggiungevano un grado di comprensione reciproca molto alto, e solo in questo caso, allora riuscivano, come per incanto, a travalicare i confini immateriali della loro essenza e sentire, su mani di luce, il calore intenso e stupefacente del contatto.
Tale incanto, però, aveva angoscianti conseguenze per alcuni sfortunati evenini che, essendo di natura poco sensibile ai bisogni degli altri, in tutta la vita non riuscivano nemmeno una volta ad immergersi nell’emozione, fugace ma di straordinario valore, impressa nell’intimo conoscersi.

2. Il viandante
Il nomade Plinio arrivò ad Even in un tardo pomeriggio d’autunno. L’aria, densa dei delicati sbuffi del crepuscolo, gli appariva diversa già al respiro, donandogli sensazioni di suadente e morbida serenità. Il silenzio si presentava ai suoi sensi colmo di cordiale calore.
Entrato dalla porta dell’ovest, illuminata dai rossi ed obliqui raggi del sole calante, si fermò in una piazzetta minuta e graziosa, posta alla periferia di quel dedalo di vicoli che, sollecito, aveva intuito come forieri di misteriosi angoli spirituali. Lievi animazioni di figure sulfuree davano vita ad un etereo movimento ch’egli percepiva calmo e privo di quella frenesia tanto comune nei luoghi toccati dal suo antico peregrinare.
Fu colpito da una luce dalle movenze meno fluide di quanto gli sembrasse notare nelle altre. Incuriosito, la avvicinò con tenue cautela, chiedendo all’evenino, con voce mite, notizie sulla città e sui suoi abitanti, indicazioni sulla natura di quel mondo che sentiva così diverso, eppure istintivamente consono alla propria essenza. Suoni aggraziati e privi di stridule inflessioni arrivavano al viandante da un punto indefinito di quel giallo chiarore che gli si rivelava innanzi.  Quasi incomprensibili al primo ascolto, Plinio dovette avvicinarsi all’evenino fin quasi a farsi direttamente investire dal suo riverbero. Presto si accorse, però, che non la distanza, bensì la propria insufficiente concentrazione allestiva l’ostacolo per la comprensione di quei flebili suoni. Finalmente concentrato, il viandante ebbe modo di costruire un fecondo dialogo con l’essere luminoso.
“Qui da noi, nessuno ostenta le proprie emozioni” continuò l’evenino, dopo aver dato i necessari preludi all’inconsapevole Plinio. “Vige il rispetto delle leggi intangibili della Grande Luce. Ma non imposizioni severe o granitici dettami vi sono esplicate, né punizioni inesorabili o minuziosi divieti. La Grande Luce è ciò che ci permea nel profondo e ci guida senza indicare il percorso. Noi rispettiamo le sue leggi trovando la forza e la sensibilità necessaria in noi stessi”.
Turbato e stupito da questa prima rivelazione, il vecchio Plinio volle sapere come si comportavano nei confronti dei desideri, delle cupidigie e delle avidità tanto comuni nel mondo umano e che intensamente dominavano molti di coloro che pretendevano di considerarsi gli eletti dell’universo conosciuto. 
“Noi non conosciamo la vanità dell’avvenenza, l’illusione della fama e del successo non ci appartiene, estranea ci appare l’ambizione sfrenata di sovrastare gli altri, lontana da noi è la brama della sessualità fine a se stessa.” rispose leggero e calmo l’evenino. “Ignoriamo tali pulsioni. Piuttosto siamo concentrati sul nostro mondo interiore, che, dall’infanzia, cerchiamo di coltivare al modo di un amorevole allevatore di orchidee, affinché si sviluppi lussureggiante e florido. Questo offriamo ai nostri simili e, quando abbiamo la fortuna di incontrare un’anima capace di intendere le nostre particolari emozioni, ci abbandoniamo ad essa senza paure intrise d’ansia, né brame di concupiscenza. Semplicemente, affidiamo l’uno all’altro l’intimo essere che sentiamo sgorgare da noi. Così noi sentiamo la percezione spirituale di quello che voi chiamate amore”.
“Allora, tutti voi vivete nella felicità, immersi in un meraviglioso mondo di gioia e benessere!” esclamò giulivo il viandante.
“Non sempre è così” rispose l’evenino. “Anzi, è raro intendersi in tale armonica guisa. Noi non ignoriamo il male. Accade, a qualcuno, di essere preda del dio Abraxas. E smarrire il ricordo della contiguità rappresenta per lui il più grave tra i lutti, la più grande tra le perdite. Perché è costretto a vagare nel mare dell’oblio interiore, ghermito dall’ansia di affermare desideri infausti e scheletrici. Per tali sfortunati non possiamo far molto, spetta a  loro stessi venir fuori dalle acque fangose e cupe in cui naufragano ad ogni istante, e rinascere consapevoli”.
Le sensazioni che accompagnavano il viandante nella conversazione con il venerando evenino erano decisamente contrastanti. Come era possibile che esseri tanto sensibili e profondi, così limpidi nel loro aspetto immateriale, potessero avvertire anche il male?
“Il motivo risiede nella Grande Luce: non vi è impedimento al male come al bene. Ognuno riconosce la propria essenza per quello che è in origine e la sviluppa nella direzione che più gli aggrada e che avverte come parte di sé, cosciente dell’immutato rispetto dei propri simili, come dello strazio lancinante che da lui proviene ed in lui si compie”.
Il vetusto viandante Plinio pregò l’evenino di conoscere un altro aspetto di quell’estatico mondo, ovvero come potevano intendere il sentire degli altri. Appagavano le parole?
“A volte sono bastevoli, ma solo per infondere alcune emozioni. Quando si entra nella sfera del profondo, bisogna giovarsi di altri strumenti per dar vita all’impresa del comunicare lo spirito tutto. Tu ci vedi immersi in toni gialli, perché questo è il colore del sole e della Grande Luce e noi riflettiamo tali entità. Tra le nostre facoltà vi è, tuttavia, la capacità di effondere colori diversi, ed ognuno con infinite sfumature. Vedi, nei nostri dialoghi più ricchi ed espressivi, possiamo sottolineare la nostra tenerezza con i carezzevoli toni del blu, o il puro affetto filiale con bianco splendore, o il nostro caldo entusiasmo con le nuances briose dei rossi, o, ancora, il nostro  benessere con le vellutate gradazioni del verde e, tutti, con il grado d’intensità confacente al momento. Ogni sfumatura di colore porta in sé la capacità di avvolgere chi ascolta in una fervida  nube di sensazioni. Così, noi, ci compenetriamo”.
Plinio, estasiato e commosso dalla sublime delicatezza di tali straordinari esseri, saziato nell’intimo, salutò senza parole l’evenino, certo di esser stato pienamente compreso nelle espressioni dell’animo profondo.
Prendendo commiato, un’armoniosa luce azzurra invase il suo corpo intero.

 

2 pensiero su “Del giallo ed altri colori”
  1. mi piace il fantasy e il tuo racconto è ben scritto, ma mi vado chiedendo se le colline possono essere “snelle”.
    forse l’accostamento dei termini è un po’ troppo audace.
    ciao
    anna

  2. mi è piaciuto molto il tuo racconto, spero che tu ne scriva altri

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *