Così conobbi Kimpa.

Una bellissima ragazza kongolese, alta un metro e 65 con i capelli ricci e neri ad incorniciare il volto dolce e disteso, gli occhi marroni e caldi come l’autunno ed il sorriso sempre stampato sulle labbra anche nei momenti di nervosismo. Ci incontrammo al parcheggio del bar di Piazza della Libertà e ne rimasi subito affascinata. Mi colpì la risata allegra, il modo tutto suo di scostare i capelli da un lato, la determinazione ed il vigore con cui mi strinse la mano, lo sguardo attento ed orgoglioso. Mi colpì, inoltre, il modo ironico con cui affrontava ogni argomento avendo sempre lei l’ultima parola e l’ilarità con cui pronunciò quella frase…

“La scommessa l’ho vinta io… Un caffè?”

“Che scommessa Kimpa!”

“Per telefono ti avevo detto che saresti rimasta molto colpita nel vedermi… e così è stato, o no?”

E’ vero! Rimasi molto colpita nel vederla… Il colore della sua pelle… I suoi occhi perfettamente delineati… Mi colpì ancor più, però, vedere la sedia a rotelle sulla quale stava… “Quella” sedia a rotelle blu elettrico con le ruote fucsia ed il rivestimento rosso sangue… “Quella” sedia a rotelle con “quel” nastro rosso saldamente legato al bracciolo destro a rappresentare la lotta determinata che lei stava combattendo tristemente contro l’Aids.

Forse è meglio procedere con ordine nella storia.

Un paio di mesi fa mi misi in contatto con un “call-center” alla ricerca di un posto di lavoro. Rimasi immediatamente colpita dalla voce squillante della centralinista che, con pazienza mai incontrata prima, cercava con la pacatezza e l’ironia che solo lei possedeva, di colmare il mio nervosismo.

Riuscì a tranquillizzarmi, al contrario delle mie aspettative, dandomi degli ottimi consigli e, cosa stranissima ed inaspettata, riuscì addirittura a farmi sorridere con delle battute divertenti.

Al termine della telefonata, sempre con estrema tranquillità, prendendomi in giro disse:

“Ora per farti perdonare devi come minimo offrirmi un caffè.”

Ed io…

“Un caffè? Ma nemmeno per sogno. Hai fatto solo il tuo dovere.”

Scoppiammo a ridere divertite ma a quel caffè ci siamo poi arrivate. Quel caffè lo abbiamo consumato, tra risa e discorsi seri, sedute davanti al bar, in una mattina di gennaio, con il freddo pungente che ci sferzava il volto.

Sembravamo due pazze. Nonostante il gelo invernale, eravamo rimaste sedute per delle ore fuori ai tavolini che si affacciavano sulla piazza, con il bavero della giacca rigorosamente tirato su… a sorseggiare caffè bollente e a mangiucchiare pasticcini. Abbiamo parlato e riso… parlato e bisticciato… parlato e riso ancora. Abbiamo parlato… e siamo diventate subito grandi amiche.

A distanza di un solo mese, io e la mia famiglia, abbiamo imparato a capire, ad apprezzare e ad amare quella dolce ragazza arrivata clandestinamente in Italia con i propri genitori ben 25 anni fa ed ora perfettamente integrata nel nostro difficile sistema burocratico… Quella dolce ragazza che è diventata la nostra migliore amica, mentre noi i suoi più pazienti confessori.

Tutto è accaduto circa 4 anni fa quando un triste incidente con la moto l’ha resa paralitica dalla vita in giù… ed una trasfusione sbagliata con sangue infetto… sieropositiva.

Il suo dramma è iniziato in quello sfortunato giorno d’estate.

O meglio… il suo dramma in Italia.

Sembrava quasi aver rimosso le violenze, le angherie, i soprusi vissuti in Kongo il suo paese natale.

Ricordo ancora con le lacrime agli occhi e con il corpo attraversato da brividi di gelo quella sua breve quanto sconvolgente confessione.

“Devo raccontarti un episodio della mia vita. Non ne posso più di tenerlo segregato nel mio cuore. Mi fa impazzire solo il ricordare.”

Pendevo silenziosamente dalle sue labbra.

“All’età di nove anni circa, all’uscita di quella che noi chiamavamo scuola, venni avvicinata da due uomini che frequentavano da un pezzo i fratelli di mio padre e la mia casa. Si offrirono di accompagnarmi a casa sfoderando “quel” sorriso sulle labbra, sincero, dolce… A nove anni tutto sembra puro, sincero. Loro… purtroppo non lo erano.”

Una piccola lacrima solcava crudele e silenziosa il suo volto meraviglioso.

“Ad attenderli c’erano altri due uomini molto più grandi di loro. Sfortunatamente quel giorno i miei genitori che gestivano un piccolo “logo”di rivendita alimentare, si erano allontanati dal paese per gli approvvigionamenti. Ricordo solo mani forti, troppo forti per il mio corpo esile. Mani che mi spogliavano, mi toccavano, mi violavano. I loro volti simili a maschere grottesche. I loro corpi  pesanti, sudati… sul mio.”

Mi veniva da vomitare ma l’amore che avevo per Kimpa mi aiutò a sopportare anche il resto del racconto.

“Devo essere svenuta. Ricordo però il dolore insopportabile nel momento in cui il primo di loro mi lacerò l’inguine nel soddisfacimento dei suoi più ignobili desideri.”

Balordi… Maledetti balordi…

“Il dolore forte che mi riempiva la testa, le urla soffocate dalle loro mani posate sulla faccia che mi toglievano anche il respiro. Quelle risa. Quei grugniti… E poi più nulla.”

Mi sembrava di vivere sulla  mia  pelle quella tremenda esperienza. Sentivo addirittura il respiro di quei maiali nelle orecchie.

“Al mio risveglio solo un lago di sangue e lividi evidenti su tutto il corpo. Dopo solo una settimana mi imbarcai clandestinamente su “un camion della salvezza” …così le persone del mio paese li chiamano, per arrivare clandestinamente in Italia.”

Rabbrividisco ogni volta che ricordo quel suo drammatico vissuto.

In Italia… per lei il destino è stato ancora una volta crudele…

Lei maestra della scuola dell’infanzia, di ruolo da ben 15 anni e capo scout dall’età di diciotto, si è ritrovata a soli trentacinque anni a vedere rivoluzionata tutta la sua vita e questo per colpa di un’idiota che all’una di notte, al centro della città, non ha rispettato uno stop.

Ma… ironia della sorte, non è stata la sua “non-abilità” a cambiarle la vita, quanto quell’errore fortuito avvenuto in un laboratorio di biologia di Roma, mesi prima al suo incidente… Un errore umano nell’analizzare una partita di sangue… Un errore umano che ha pagato con la sua felicità…

La depressione, l’allontanamento dal posto di lavoro, l’esclusione dal gruppo ecclesiastico, il dover forzatamente rinunciare alle lunghe passeggiate in moto… e cosa che l’ha fatta soffrire ancor più… il non potere partecipare alle gare di fondo che lei adorava da impazzire.

Non è stato semplice riprendere a vivere.

Nelle riunioni di gruppo, Silvia la sua analista, la spingeva ad urlare, ad arrabbiarsi, a tirare fuori tutta la rabbia e le negatività che si erano impossessate involontariamente di lei, ottenendo un solo risultato, il suo ostinato mutismo.

Solo Roberto, costretto come lei alla sedia a rotelle a causa di un incidente sul lavoro, riusciva a farla sorridere e a darle la forza per continuare a vivere.

“Ci ho provato tantissime volte a togliermi la vita… Ci ho provato  senza avere mai il coraggio di portare a termine il mio intento.”

…Mi faceva male sentirle dire quelle parole. L’avevo conosciuta con il sorriso sulle labbra e con il suo fare strafottente e mai avrei pensato che dietro a quella ostentata felicità ci fosse un dramma sopportato e vissuto con carattere e sofferenza.

Il certificato di sieropositività che accompagnava inevitabilmente il certificato di invalidità le aveva chiuso le porte della felicità per un lungo periodo della vita. La direttrice della scuola si era affrettata a convocare una riunione del collegio dei rappresentanti per decidere della sua sorte. Era pur sempre una “malata di AIDS”… Una sieropositiva che avrebbe dovuto lavorare a stretto contatto con i bambini della scuola materna. Il responso non poteva che essere negativo.

Il ben servito le fu dato con un comunicato scritto… molto freddo ed impersonale.

“Gentilissima signora siamo spiacenti nel doverLe comunicare che a causa di una sofferta decisione presa in sede di riunione collegiale la presente per comunicarle che a partire dal giorno…… Lei deve ritenersi esonerata dall’insegnamento a causa di…”

Non avrebbe mai più lavorato con i bambini che lei adorava e questo… per una colpa non sua. 

Non avrebbe più vissuto dei loro sorrisi, dei loro pianti, dei loro nasi colanti, dei loro capricci, dei loro abbracci, delle loro carezze e del loro sguardo curioso e dolce.

Non avrebbe mai più esercitato la sua adorata professione.

“Quando mi risvegliai in quel freddo ospedale, con tutte quei macchinari che mi circondavano, ho pensato d’istinto… La vita, nonostante tutto, mi sta sorridendo… Sono viva. Ho alzato la testa, ho provato ad alzare le mani, le gambe… Le gambe! Non sentivo più le gambe! Ho provato, riprovato…urlato e provato ancora… Niente! Le gambe rimanevano incollate a quel maledetto letto ed allora ho pensato… Non è stata la vita a sorridermi ma la morte…

La morte si è presa gioco di me e ridendo alle mie spalle mi ha fatto questo disgustoso regalo. Si è presa le mie gambe e con loro la mia esistenza.”

…Quando si confidava con noi, il volto d’istinto le diventava duro ed inespressivo. La sofferenza e l’impotenza nel non aver potuto controllare la sua vita la consumava dentro.

“Roberto, il suo sorriso, le sue attenzioni ed i suoi consigli sono stati l’unico stimolo alla mia vita infelice.”

…Solo quando parlava di Roberto gli occhi le si illuminavano e tutto anche la sofferenza sembrava passare al secondo posto.

Roberto ed il suo sorriso… Roberto e la sua pazienza… Roberto ed il suo amore… Roberto… Solo  pronunciare il suo nome la faceva star bene.

“Per merito di Roberto ho trovato lavoro. Per merito suo ho ritrovato l’amore ed il sorriso.”

Siamo giunti sino ad oggi 8 Marzo 2008, giorno della festa della donna. Giorno di ricordi e di rivendicazioni, di felicità ma anche di morte.

Seduto sulla sedia a rotelle, in una stanza d’ospedale, c’è Roberto che ha chiesto Kimpa in sposa e che, con le mani strette sulle sue, attende che lei con un filo di voce riesca a dire “Sì, lo voglio”.

…Roberto è lì che attende con le lacrime agli occhi un cenno, un sorriso… “Il suo risveglio”…

Lui che vorrebbe gridare pur di farla tornare in vita.

Lui che vorrebbe maledire l’AIDS e le sue conseguenze.

Lui …e la morte.

Kimpa ci ha lasciato.

Ha aperto gli occhi per sincerarsi della nostra presenza, ha socchiuso le labbra, ha accennato un sorriso sofferto e… se ne è andata.

Silenziosamente… Come silenzioso è stato il suo ingresso nella nostra vita.

Dagli occhi una sola lacrima… La lacrima di una felicità infranta per la seconda volta in una breve manciata d’anni.

Addio Kimpa.

 

3 pensiero su “Dagli occhi una sola lacrima”
  1. Spesso le storie sulla vita delle donne contengono particolari che fanno rabbrividire…
    hai ben reso lo sgomento che accompagna chi si avvicina a storie simili.
    ciao
    anna

  2. Ci sono persone che nella vita sono meno fortunate di altre, purtroppo. Fra errore umano e nefandezze del'”uomo”, la povera Kimpa ha avuto una vita breve. Eppure era una combattente, sarebbe riuscita a trovare ugualmente la sua fetta di felicità, ma non ce l’ha fatta.
    Una realtà umana, per niente patetica ma cruda e vera che fa parte dello scenario del Mondo, purtroppo.
    Buon Anno, Nadia, e tanta serenità.
    sandra

  3. Ciao Nadia, mi hai davvero commossa con questo racconto! E’ un vero peccato che Kimpa non ce l’abbia fatta a vincere la sua battaglia contro l’aids, speriamo che almeno lassù, abbia trovato quella fetta di felicità, che quaggiù non ha trovato. Un pensiero va anche a Roberto, che ha perduto il suo amore, l’amore con cui magari sognava di comprare una casa o di avere dei figli, invece la vita glielo ha impedito.
    Auguri di un sereno anno nuovo.

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