12 LUGLIO 2004
Un quaderno, nero con le bordature rosse, troneggiava sopra una scrivania d’inizio secolo.
Il vento artificiale di un ventilatore sfogliava con rigore, ad una ad una, le pagine all’interno, fermandosi, infine, sull’ultimo foglio prima della copertina dove in bella evidenza appariva una firma ed una data: “Giuseppe Proietti Pannunzi, Egitto – Cairo, ore 19 e minuti 1943”.
La rotazione automatica del ventilatore continuava a sfogliare avanti ed indietro il libretto, che occhi attenti l’avrebbero subito riconosciuto come un DIARIO DI GUERRA.
Mi ricordai, allora, tanti anni fa quando ero ancora bambino, di quella volta in cui mia madre decise di raccontarmi la storia di nonno, che peraltro riconobbi subito in quella firma.
Mai prima d’ora avevo preso in mano quel diario e, nonostante quella esperienza, avevo sempre avuto la sensazione di non dover violare quella sacra e nostrana reliquia; oggi, invece, complice il vento, sentii che era l’ora di conoscere il suo diretto pensiero e finalmente lessi…
– Sono arrabbiato per quello che sta succedendo, deluso dallo scrivano con la divisa, che usa la baionetta solo come elenco di nove lettere senza che il suo reale peso gli rovini la spalla o l’anima.
Sto scrivendo per non so quale motivo, forse solo per ricordare qualcosa di quanto è successo veramente quella notte del ‘43, prima che altri militari in gonnella decidano loro, cosa ho fatto o detto.
Allora ti lascio queste carte, questo diario di poche righe… così provo a raccontarmi…
cara Lucia ti lascio questo anche per la nostra piccola Anna. Spero di vedervi presto.
Il sole era già alto da almeno un paio d’ore e ormai negli ultimi giorni tutti cominciavamo a perdere quello stato di certezza che ci faceva sentire un po’ marines ed un po’ super eroi.
Il nostro piccolo comando contava circa dieci uomini e seppur esiguo teneva in ostaggio silenzioso una piccola cima altamente strategica.
Sotto di essa si stendeva una piccola valle ed un paese, Al-Shallal, strategicamente vicino ad una stazione e proprio lì sarebbe transitato nei giorni a venire un treno con un carico d’armi indispensabile alle forze nemiche per sostenere l’attacco finale ad Al Alamein. Dovevamo distruggere quei vagoni, ma prima di tutto conquistare la cima senza essere notati, scoprire la data dell’arrivo del treno e mantenere la posizione fino all’arrivo delle truppe speciali, che a quel punto avrebbero compiuto la parte finale della missione denominata “Operazione Cugnot” dal nome dell’inventore francese della prima macchina a vapore.
Sai Lucia, ho sempre trovato divertenti i nomi delle missioni, permettono di immaginarti come un eroe ancora prima che le azioni vengano compiute.
Tornando a noi, in quei giorni, studiammo turni di attenzione molto serrati per permettere alle forze alleate di raggiungere senza imboscate il paese, per poi proseguire verso la stazione vicina; ma i viveri cominciavano a scarseggiare.
Il capitano Checchi, era un ufficiale giovane nell’età, un ragazzo casertano con una lunga esperienza alle spalle, ed era il nostro capo; decise che era arrivato il momento di scendere di notte a prelevare nel paese del cibo per alimentare le nostre già scarse riserve e dispose un turno notturno in più.
Ci fu un sorteggio quella sera, un banale sorteggio; un pari e dispari che, però, mi fu fatale.
Giuseppe Proietti era stato sorteggiato per la missione, io… che ero soldato semplice… quasi caporale. Un quasi che mi ha sempre inseguito e determinato dalla mia continua voglia di solitudine; la solitudine non è una virtù ammirata dagli ufficiali.
Devo dire che, a volte, facevo fatica anche a seguire spontaneamente gli ordini, però sii orgogliosa perché devo essere stato un buon soldato se mi hanno onorato della possibilità di partecipare a questa operazione.
La mattina della vigilia c’era chi approfittava della bella giornata per prendere il sole o per fare ginnastica, più per lo stress che per la forma fisica, e chi, come me si faceva la barba. Mi piace ricordare i particolari, la schiuma fatta con un semplice sapone, la piccola ciotola in metallo con l’acqua calda all’interno e sulle spalle un piccolo asciugamano precedentemente riscaldato dai raggi del sole, che mi serviva ad ammorbidire la pelle prima di radermi. Lo sguardo, però, sono sicuro tradiva la sicurezza del volto; lo sguardo perso nel vuoto era tipico di chi aveva paura.
La luna si era da poco posizionata al suo apice ed ero già pronto, vestito con l’impegno di chi partecipa ad una serata galante; pronto ad uscire già da qualche ora.
Non sentii saluti tra i miei compagni. Forse erano veramente addormentati, ma questo non l’ho mai saputo.
Fuori avvertivo la strana luce bianca della luna, che rendeva estraneo tutto il paesaggio con il quale avevo convissuto fino a poche ora prima.
In quel momento arrivò il primo pensiero lucido; una frase del capitano che mi diceva “scòrdate ‘o passato”.
Mi stava ricordando di non ricordare, mi stava preparando alla mia prima missione da solo e voleva che fossi freddo, lucido, che non commettessi errori e per questo, anche se in maniera rozza, cercava di desensibilizzarmi. Il capitano Checchi era solito affermare: “un uomo che non ricorda il passato è un uomo pronto a giocarsi il suo futuro”.
La guardia all’esterno non mi salutò, nessuna distrazione, questo era l’imperativo; nessun cedimento, un solo obiettivo: difendere strenuamente la cima.
Un rapido sguardo indietro, un lungo sospiro, e sistemato lo zaino mi apprestai a scendere. In circa un’ora e mezza mi trovai alla periferia del paese; un tempo da professionista della montagna, non certo da escursionista o da semplice amatore.
Credo fosse solo la paura di non tornare.
Trovai, all’inizio inspiegabilmente, coppie di persone ed anche piccoli gruppi che mi sfilavano davanti. Avevo il pensiero rivolto sempre ai cecchini o alle ronde a controllo del paese. Nutrivo la speranza che la mia immaginazione fosse eccessiva, ma non potevo concedermi il minimo lusso.
Erano solo cittadini inermi?
Me ne accorsi dopo poco; direi, quando smisi di vedere fucili che non esistevano e un po’ di musica arrivò alle mie orecchie. Mi tranquillizzai. Quella notizia si rivelò, però, anche portatrice di guai. Era festa ad Al-Shallal e questo voleva dire molta gente per le strade, esattamente quello per cui non ero preparato.
Ad un certo momento sentii da lontano cantare una canzone con un suono così melodioso ma al tempo stesso strampalato. Seppur nascosto dietro una casa riuscii a scorgere sulla destra una piccola via e decisi di entrarci.
La voce melodiosamente sgraziata, si avvicinava. Una persona ciondolante, con non solo la voce alterata dall’alcol, era sempre più vicino a me. La sua statura era decisamente più bassa della mia, ma decisi che l’unica cosa da fare era quella di tentare di confondermi tra gli abitanti di Al-Shallal e non certo di entrarci mostrando la divisa del nemico, sperando di intrufolarmi in mezzo ad un paese sveglio e pronto a far baldoria.
“Mikail” pronunciai ad alta voce. Un nome qualsiasi, solo per attirare l’attenzione. L’uomo, seppur stordito, si girò a sinistra alla ricerca di quel suono. Smise di cantare, sembrava aver perso la non lucidità dei minuti precedenti; si fermò, guardandosi intorno. Pronunciai, allora, una serie di sillabe senza senso simulando il verso arabo. L’egiziano mostrò tutta la sua sbronza, stampando un sorriso ebete sul volto e, ciondolando, si avvicinò verso il posto dove ero in agguato; dopodiché il sonno gli sopraggiunse prima del tempo, aiutato da un buon destro. Le nocche mi facevano male.
Lo spogliavo senza guardarlo, i miei occhi erano puntati tutto attorno a me per garantirmi che non ci fossero altre persone. Fortunatamente per me lui era un po’ cicciottello e così, seppur corti, i vestiti potevano sembrare i miei.
Creai una buca per infilare i miei abiti militari, poi, mi diressi verso il centro del paese; fu facile arrivarci, il rumore della musica, l’alto vociare delle persone erano segnali inconfondibili.
Purtroppo, però, anche le botteghe erano aperte e così venivano a mancare i presupposti per la seconda parte dell’impresa, ovvero il recupero semplice ed indisturbato delle provviste alimentari.
In effetti un po’ tutta la missione era partita con il piede sbagliato: dovevo trovare un paese addormentato, mentre il paese era in festa; dovevo rapidamente e con gli attrezzi del mestiere scassinare un negozio ed invece mi ero addirittura dovuto spogliare degli indumenti militari e dovevo ancora riuscire a prendere le provviste e poi dovevo tornare indietro ed affrontare la risalita, che a questo punto mi appariva particolarmente difficile.
Ebbi un conato di vomito; per un attimo pensai addirittura di urlare e farmi prendere. Lo stress era elevato e cominciavo a sudare non più solo per il caldo. Ero seduto ed il piede mi batteva sul selciato ritmicamente. Stavo patendo. Cominciai senza nemmeno accorgermene a pregare mia madre. Da Ponzese quale era, con l’animo sempre incline al sorriso, aveva sempre la soluzione pronta in tasca, tipica poi del popolo partenopeo.
D’improvviso un lampo, un’idea.
La mamma aveva partorito per me, ne ebbi la netta sensazione.
Dovevo spostare l’attenzione della gente verso la parte opposta della piazza e mantenerla per almeno 10 minuti, approfittando del caos sarei così tornato senza clamori verso la via del ritorno.
Questo era il mio piano!
Una bomba incendiaria.
Entrai in un locale e scelsi una bottiglia a caso, facendo però attenzione che sulla etichetta, illeggibile nella sua quasi totalità, ci fosse segnata almeno la gradazione, per avere qualcosa di sicuramente infiammabile. Così iniziò il mio piano. Per fare la miccia presi un pezzo della maglietta che indossavo, che accesi, grazie alla mia vocazione di fumatore, con un cerino. Mi sedetti in un angolo e poi, scappando, gridai qualcosa in quello che io amo definire “il mio egiziano”.
La gente dapprima non capì, poi qualcuno cominciò a correre a gambe levate. Non per tutti fu una serata di festa e per questo ancora passo notti insonni, ma almeno riuscii nell’intento di intrufolami nel negozio adocchiato e, presa una grossa busta, cominciai a gettarci dentro più cose possibili, senza fare una vera e propria cernita.
Mi precipitai verso l’uscita e mi fermai solo qualche istante per capire la situazione all’esterno. Il trambusto era notevole. Il sudore mi imperlava la fronte ed il respiro si faceva corto; sentivo tutti gli occhi puntati su di me. Tre minuti di corsa mi separavano dal centro del paese, al luogo dove avevo seppellito i vestiti militari. Corsi a più non posso e credo anche di aver gridato.
Raggiunto il luogo della buca e non me ne vergogno, mi accorsi di essermela fatta letteralmente sotto dalla paura.
Mi ricordo che mi girai di scatto e che proteggendomi il viso, ancora in preda alla tensione, cominciai a sferrare pugni e calci a vuoto intorno a me. Dopodiché esaurita l’adrenalina accumulata e accortomi di essere solo, mi buttai a terra, piangendo.
Mi apprestai a risalire verso la cima facendo molta attenzione a non essere notato, ma l’uomo che avevo precedentemente steso con pugno era rinvenuto ed era dietro di me.
Le sue mani, nude come il suo corpo, mi afferravano la gola. La paura non prese subito il sopravvento, ma solo quando il suo fiato vicino al mio collo cominciò ad essere più pesante e quando al posto dei rantoli di rabbia emise grida spaventose. L’orco che da bambino agitava le mie notti si era manifestato e stava per prendersi definitivamente e realmente la mia vita. Cominciai a paralizzarmi. Ripensavo quando da bambino, a questo punto del sogno, mi svegliavo tutto sudato in preda allo spavento, attendevo solo questo momento. Poi, quando mi resi conto che così non mi sarei svegliato, presi il coltello nascosto nella tasca sulla coscia e lo affondai dietro di me una volta ed ancora un’altra e così altre volte, mentre le lacrime si confondevano con il sudore ed il corpo dell’aggressore scivolava dietro di me. Credo di aver gridato con molta forza, perché ricordo ancora il dolore delle guance per la forte contrazione.
Mi girai di scatto non appena sentii mollare la presa… era anziano; assomigliava a mio padre, forse solo per l’età. La vita è molto dura quando deve farti imparare qualcosa che non sai, ma di cui ti senti sicuro.
Vita ti odio.
Penso ancora con la stessa forza all’odio che avrei potuto provare se qualcuno avesse ucciso così barbaramente mio padre. Il mio gesto, colpevole comunque, non aveva ucciso una sola persona ma forse qualcuna in più e sicuramente ne avrà ferite molte altre.
Non avevo più lacrime per questo dolore più sordo di qualsiasi altra cosa provata prima. Salii senza accorgermene ed una volta arrivato crollai dal peso dello stress.
Il resto è storia. L’operazione Cugnot fu un successo tecnico. La nostra cima fu tenuta in ostaggio segreto nonostante l’episodio della bomba. Poi arrivarono le truppe speciali; ancora me le ricordo, arrivarono trionfanti come conquistatori, mentre noi, stanchi e sfatti alla fine, sembravamo i vinti, i disperati.
In seguito arrivarono le medaglie, i riconoscimenti e la gioia dei parenti.
Eppure avevamo vinto solo la battaglia e non la guerra.
Per questo, forse, sono arrabbiato.
1 GIUGNO 1995
– Hai preso le tazze per il the?
gridò Anna comodamente seduta sul divano di casa, mentre una voce, che mostrava i chiari segni di un’adolescenza che non vuole ancora arrivare, le rispondeva che non era ancora pronta.
– d’accordo, allora lascia stare, sennò non ti racconto più nulla, OK? –
– eh no, mamma, me lo avevi promesso –
Stefano si avvicinò velocemente alla parte posteriore del divano dove la mamma si era accomodata. Non voleva perdersi nemmeno un minuto del racconto, pertanto ci saltò sopra, atterrando vicino alle gambe della mamma, per poi accomodarsi.
– ci sono, – disse – inizia che poi tra un po’ ti vado a prendere il the, … dai INIZIA PER FAVORE!
chiese con aria implorante e fu così allora che Anna, una signora di mezza età, ma con un chiaro e visibile rispetto del suo corpo, prese un diario nero con le bordature rosse, dall’aspetto molto scomposto e vecchio, e cominciò a raccontare:
– la storia che ti racconto è la storia vera di mio padre, vedi laggiù quelle medaglie, gli sono state date per onori di guerra. Stefano, …vedi nonno era un eroe. Ed ora ti racconterò perché deve essere un modello da seguire.-
– ma non leggi mamma?
– no, non leggo, l’ho fatto così tante volte, che lo so a memoria, ma ti assicuro che sarà come leggerlo. –
Prese il libricino e lo ripose accanto a sé aperto, vicino alle gambe del figlio.
– nonno Giuseppe faceva parte di un gruppo di militari altamente specializzati in azioni di guerra, al quale fu ordinato di partire per porre la basi di quella che fu l’azione risolutrice della seconda guerra mondiale …
– ma mamma non perdemmo la guerra? – incalzò avvedutamente il ragazzino –
– beh, certo che la perdemmo, però, lasciami raccontare quella che fu la battaglia di Cugnot. Tutto iniziò quando i servizi segreti dei nostri alleati, seppero dell’arrivo di un rifornimento d’armi, così imponente, da mettere paura alle alte sfere militari. Decisero che fosse necessario distruggerlo, ma sapevano anche, però, che sarebbe stato trasportato con un treno e che sarebbe partito in segreto, viaggiando nel più assoluto riserbo attraverso i territori amici, fino ad arrivare in Inghilterra per l’attacco finale; almeno così doveva essere.
– perché così doveva essere?
– adesso fammi andare avanti. – rispose un po’ seccata la madre – Insomma, ti dicevo che dovevano bloccare il convoglio ma senza operazioni eclatanti, insomma troppo in vista, perché sarebbero state troppo pericolose. Sparsero la notizia che l’intelligence …
– chi mamma?
– che i servizi segreti non avevano notizie in merito e questo rese i nemici più miopi.
– come te mamma …
– se mi interrompi ancora chiudo e andiamo a letto – disse guardandolo con occhi finto-severi
– messaggio arrivato
– bene – Anna sorrise e riprese la narrazione con ancora più enfasi – la prima parte dell’azione, prevedeva la conquista della vetta di una collina dalla quale si scorgeva perfettamente il tratto di ferrovia attraverso il quale sarebbe passato il convoglio, la seconda parte, invece, serviva a scoprire il giorno di arrivo e per questo c’era L’I-N-T-E-L-L-I-G-E-N-C-E … ci siamo ora? –
uno sguardo ed un sorriso del piccolo Stefano comunicarono alla madre la voglia di continuare
– Bene! La terza parte era l’attacco al treno attraverso l’uso di un corpo speciale chiamato incursori. Vuoi sapere quante persone vennero impiegate per questa azione? Solo 14. –
il bambino sgranò gli occhi
– Ma in un film ho visto tante persone che combattevano la seconda guerra mondiale
– è vero, solo che non tutte le battaglie si combatterono così; alcune vennero giocate con la forza e sono quelle che tu hai visto ed altre furono giocate sul filo dell’astuzia e dell’intelligenza come quella che ti sto raccontando –
– perché dici giocate, mamma? Io quando gioco così mi sgridi sempre –
– Touchè. È un modo di dire; è ovvio che non fu un gioco anche se qualcuno spesso ci lavora come se lo fosse, ma questa è un’altra storia. Insomma, mio papà, nonno Giuseppe, era un omone, molto ben piazzato e sicuro di sé; un soldato semplice ma che tutti rispettavano per la forza fisica e morale. Quando furono lì, purtroppo, non tutto filò liscio ed il treno ebbe un ritardo. Loro avevano previsto tempi più stretti ed anche il loro cibo, stava scarseggiando e qualcuno doveva fare rifornimento nel paese nemico, vicino alla cima da loro conquistata, ma senza che essi se ne accorgessero. Un po’ come fai tu quando non ti viene dato il permesso per mangiare la nutella e invece ci vai lo stesso sperando che noi non ce ne accorgiamo. –
Stefano fu contento di sapere che nonostante lo sapessero gli era comunque permesso. Mandò per ringraziamento un bacio con schiocco alla mamma che continuò ridendo a fior di labbra.
– uno di loro doveva andare e fecero cadere la scelta su tuo nonno, tra tutti. Lui era emozionato nel partecipare a questa azione, semplice nella modalità, ma piena di complicazioni e rischi, e forse fu proprio per questo che la preferenza cadde su nonno. Si preparò con la freddezza del guerriero, poi scese, e fu lì che si evidenziarono le sue virtù. Devi sapere che nel paese quella sera c’era una festa e tutto era illuminato a giorno e la gente era per le strade, cosicché Giuseppe dovette cambiare il programma e rubando i vestiti ad un ubriaco si intrufolò nel paese. Nonno conosceva un po’ di arabo e questo gli fu d’aiuto nel mescolarsi tra la gente, finché, scoprì il posto che faceva al caso suo, una specie di piccolo negozio d’alimentari. A quel punto non gli rimaneva che spostare l’attenzione della gente verso l’altra parte della piazzetta. Fabbricò un piccolo ordigno rudimentale. Lo piazzò nel punto scelto e lo fece esplodere dopodiché, approfittando della confusione e mostrando una freddezza notevole, andò a compiere la sua missione: prendere i viveri per rifornire il gruppo –
– insomma mamma mi stai dicendo che a nonno gli hanno dato la medaglia perché è andato a fare la spesa? –
– Anna rise di cuore, abbracciò il figlio per poi continuare – in qualche modo, sì. Ora però viene il bello. Mentre scappava senza voltarsi, arrivò al punto dove aveva lasciato i vestiti militari. L’ubriaco che aveva colpito…, ti ricordi? – il bambino annuì – era lì ad attenderlo e lo aggredì. Tuo nonno fu un eroe anche perché seppe valutare, con sacrificio e in pochi attimi, la situazione mettendo il nemico fuori gioco. Sapeva che la guerra era una cosa dura e che portava anche dispiaceri, ma aveva pur sempre chiaro nel cuore quale era il suo obiettivo: l’operazione Cugnot.
Tornato al campo, attesero ancora altri quattro giorni dopodiché arrivarono gli incursori che, preso il loro posto, si diressero verso la stazione e fecero saltare il treno. Ancora si racconta di lampi e botti sentiti a km e km di distanza. L’operazione fu un successo e nonno fu dichiarato eroe di guerra; eroe senza macchia e senza paura… ma a proposito, non dovevi andare a prendere il the un po’ di tempo fa? … Ho capito, ho capito, vado a vedere io –
– Grazie mamma.
Anna si alzò lasciando intravedere l’interno del diario che custodiva gelosamente. Stefano si sporse per essere sicuro di non essere visto, per poi dirigersi con lo sguardo verso le pagine interne del libretto. Scorse così una serie di segni rossi che gli catturarono l’attenzione. Erano parole sottolineate, “paura, orco, pregare e odio” e gli bastarono per capire che c’era altro in quel nonno di acciaio. Allora lesse velocemente qualche frase e le piccole sopracciglia gli si aggrottarono, infine, mentre era immerso totalmente nella lettura, sentì distintamente una voce
– allora cosa aspetti a chiedermelo, pensavi che un eroe non avesse paura?
– ma chi è?
– chi vuoi che sia; sono il nonno e non chiedermi altro. Devi sapere solo una cosa: mia figlia, tua madre, è una cara ragazza e capisco, ed è normale che voglia ricordarmi in maniera altisonante, ma non è necessario. Sappi che io ebbi molta paura, caro nipote, e fu solo quella la mia fortuna, perché la paura mi permise di scegliere e di non essere avventato, mi permise di reagire prontamente senza permettermi di sentirmi mai al sicuro.
– Ma tu sei un eroe o no? Chiese Stefano con la paura di chi stava per assistere alla fine del suo mito, mentre con tono sorridente la voce, che si spandeva magicamente nell’aria, assunse un’aria smitizzante.
– Ogni vita ha la sua missione, anche la tua. Ascolta bene queste regole, nipote; applicati con costanza e impara a reagire con lucidità. Il resto è… come dite voi ragazzi, oggi? … questione di culo? Ma non dire alla mamma che te l’ho insegnato io.