Mi svegliai nel cuore della notte tutto sudato. Non riuscivo a respirare. Pensavo fosse il raffreddore ed, invece, ero perfettamente in salute. Per modo di dire. Mi girai tra le lenzuola per un paio di minuti, poi, sopraffatto dalla nausea, mi mummificai guardando il soffitto. Respiravo a fatica, respiravo con la bocca. Tutto quello che avevo mangiato era dentro di me, ricordi, emozioni, sensazioni di un quotidiano fatto a mostro. Il sonno era svanito, la pesantezza mi opprimeva. Avevo voglia di urlare. Ci provai, ma non uscì niente dalla mia bocca. Un bruciore saliva dallo stomaco fino alla gola. Annaspavo nel mio stesso pensiero. Un toc continuo batteva nella mia mente. Urla, rumori, macchine e treni che ripetevano il loro squallido rumore nel mio cervello. Non ne potevo più. Volevo urlare, volevo girarmi, chiudere gli occhi e dormire. Così feci. Fu allora che vidi la sua faccia brancolare nel buio. Un breve riflesso della luna illuminava il suo sporco volto. Non aveva lineamenti. Semplici occhi, così come tutto il resto del suo volto. Quasi pareva un manichino, un manichino che fissava i miei occhi, che fissa quello che io non potevo vedere dentro di me. Ebbi paura, lo ammetto, ma non fu solo quello a terrorizzarmi. Una presenza sembrava avvolgermi tra le coperte. Non ero più padrone del mio corpo. Non riuscivo a muovermi. Solo lo sguardo fisso in quegli occhi da manichino. La luna splendeva fuori e il vento fischiava. Ho pensato sul serio di morire. Così sarebbe stata la mia fine, strozzato dai miei sterili pensieri, ucciso tra le bianche lenzuola nel cuore buio della notte mentre un manichino mi teneva compagnia. Poi qualcosa cambiò. Di preciso non so cosa, forse una chiave che finalmente trova il suo lucchetto. Sì, era una chiave, una chiave che gira e si spezza. Tutto il peso della giornata sul mio stomaco. Non riesco a respirare, sto per morire, questo pensai. Di nuovo quel toc, di nuovo quel martellante frastuono del quotidiano che si schiantava nella mie mente. Il manichino, sorretto dal chiaro della luna, mi sorrideva e con una fredda mano, mi accarezzava il volto madido di sudore. Avevo freddo pur se le temperature degli ultimi giorni registravano quasi i venticinque gradi. Io ero nel letto, tra le mie bianche lenzuola, che venivo affogato dall’oscurità. Che la vita non me ne voglia, ma avrei sul serio preferito essere ucciso in altro modo, avrei voluto che la mia mano mi avesse tolto la vita, non quello stupido burattino sorridente.
Il giorno dopo mi svegliai un po’ appesantito dal cibo e dalla stanchezza. Bevvi un caffè e trascorsi come al solito la mia cupa giornata. Quando venne la sera tornai nel mio letto, tra le mie bianche lenzuola. Quel letto era lì che mi attendeva. Gli occhi, gonfi dalle ore passate al lavoro, imploravano il riposo. Un peso accarezzava il mio stomaco. Mi misi nel letto, guardai un po’ di televisione. Dopo una decina di minuti spensi l’affare malefico e mi girai su un fianco. La stanza era così silenziosa. Non riuscivo a prendere sonno. Era come se mancasse qualcosa, qualcuno. Sì, mancava decisamente qualcuno. Sentivo scorrere qualcosa dietro le mie spalle. Una presenza, una viscida presenza. Avevo paura. Paura perché non capivo cosa potesse essere, da dove saltasse fuori quell’intera storia. Chiariamo subito un punto: non credo ai fantasmi, alle anime e a tutto il resto. Quella che mi accarezzava le spalle era la mia subdola paura. Già, l’avreste mai detto? La paura era lì che mi teneva compagnia. Quella sera non c’era la luna a coprirmi le spalle, così la paura poteva tranquillamente sgattaiolare tra le lenzuola e farmi sua. Mi girai di scatto prendendo il telecomando. Fuori pioveva e tirava vento. Non faceva più caldo. Era diventato tutto così assurdo. Assurdo, sì, è proprio la parola più adatta. Il cambiamento che avviene così, da un giorno all’altro, e io non me ne ero accorto. E ancora questo peso sullo stomaco, ancora la nausea e il respiro affannoso. Cercavo con una mano il telecomando a terra ma non riuscivo a trovarlo. La presenza incalzava tra le lenzuola. Io urlavo un suono morto mentre cercavo il telecomando. Vomitai. Tutto a terra. Vomitai l’intero giorno sul pavimento della mia camera da letto. L’avreste mai detto? Vedere i pezzi del vostro quotidiano fare pan-dan con le mattonelle? Beh, finì così. Rivolsi lo sguardo al soffitto cercando di prender fiato. Qualche minuto dopo mi alzai per raccogliere la mia vita a terra. Pulii tutto per bene. Lavai il pavimento dov’era sporco e tornai a dormire. Sognai. Del resto tutti lo facciamo. Sognai di un morto e che questo morto centrava in qualche modo con me. Venivo aggredito da tre piccoli cani neri. Mi mordevano le braccia. Mille morsi eppure non perdevo un goccio di sangue. Ricordo che trovai una mazza da golf in un portaombrelli, la presi e stavo per colpire i cani… poi mi svegliai.
Presi il mio solito caffè e tornai al mio stupido lavoro. Vedevo i pedoni attraversare la strada ignari di se stessi. Tanti piccoli manichini che vanno da qualche stupida parte. Io ero uno di loro? Anche io, in fondo, stavo andando da qualche stupida parte. La giornata proseguì come al solito. Lavoro, casa, altro lavoro. Era sempre il solito banale quotidiano. Non avrei saputo fare di meglio. Questa è la mia impostazione. Bevvi un sorso di latte perché mi bruciava lo stomaco e mi recai a letto. Fuori era una bella giornata. L’avvolgibile era tutta su. Fuori la luna splendeva nel suo massimo. Non c’era vento, non c’era niente là fuori, perché a quell’ora i manichini dormono. Mi distesi sul letto a guardare fisso il soffitto. Faceva caldo, ma di quel caldo bello, secco, che ti permette di vestire in tutta libertà, spoglio da tutti quegli “accessori” inutili. Mi girai su un fianco, per la precisione sul fianco sinistro a guardare la porta. Vedevo quella grossa voragine pronta ad inghiottirmi. Sorrisi, sì perché non potevo fare altrimenti. Il respiro era calmo, lo stomaco rilassato. Cominciai ad avere un po’ di freddo, così mi misi sotto le bianche coperte nel buio della notte. Ruttai e finalmente mi addormentai senza che alcun burattino mi tenesse compagnia.
I fantasmi che abbiamo dentro, le nostre paure, le nostre frustrazioni, tutto descritto in modo perfetto come un attacco d’ansia o di panico, che vengono fuori la notte, quando siamo abbandonati al sonno e quindi, senza difese, ma come hai scritto alla fine, la nostra volontà riesce a tenere a bada le nostre paure, e a farci superare “la notte”. Mi è piaciuto molto, scritto molto bene, capace di proporre tante interpretazioni, questa è la mia, non so se intendevi questo, ma è questo che mi è arrivato. Molto bravo, complimenti. Ciao da Betta
Mi è piaciuto molto il tuo modo di descrivere l’ansia, la malattia del nostro secolo, con un linguaggio molto prosaico e corporale… l’ansia è in noi, nel nostro corpo, è una funzione del nostro corpo e, se a volte diventa più forte della volontà, allora siamo noi a diventare dei manichini con gli occhi fissi e inespressivi. Basta allora riappropriarsi di se stessi, mani, piedi, gambe incluse, per smettere di aver paura della paura… un sorriso è il primo passo e poi un respiro… siamo vivi!
Complimenti, molto ben scritto e ideato!
rosatea.
Complimenti! Mi è piaciuto molto.
(Non sono molto bravo nei commenti)
Le paure si manifestano come ansia e ci svelano completamete a noi stessi, bel racconto!
Abbiamo uno stile molto simile, e qualche fantasma in comune.
Non amo commentare, questa volta mi sono sentito di farlo. Mi piacerebbe scambiare qualche racconto, sottopormi i miei e leggere ancora del tuo.
Puoi contattarmi su destaz(at)libero.it, mi chiamo Antonio.
Saluti.