Lei: “Adesso basta! Non posso continuare a preoccuparmi di amichi e nemichi!”
Io, con pazienza: “Amici, si dice amici”.
Lei, sempre più concitata: “Uffa, amici e nemichi, tu sempre il professore fai”.
Io, con molta calma: “Nemici, si dice nemici”.
Lei, incazzata: “Basta! Vieni affanculo”
Io, con flemma olimpica: “Amore si dice vai affanculo…”
Lei, incazzata nera, ma sempre terribilmente sexy: “Stronzo!”
Io, completando la frase: “…si dice, si infatti”.
Ecco, questi erano i nostri discorsi e i nostri litigi: non eravamo semplicemente in grado di litigare.
Non riuscivo ad avere un rapporto normale con lei.
A volte era piena di fobie e paure, secondo me ingiustificate, che purtroppo prendevano il sopravvento su di lei e su di noi. Diventavano una presenza quasi costante nei nostri discorsi. Trovavo irritante essere costretto ad occuparmi, mio malgrado, di queste cose inutili. Si, consideravo decisamente inutili le sue paure. Non la paura in quanto tale, anzi ero certo che su un individuo normale la paura avesse una funzione protettrice. Ritenevo invece assolutamente inutili le sue paure. Erano troppe, statisticamente troppe per un solo individuo e per questo qualcuna, per forza di cose, doveva essere superflua.
In auto, ad esempio, era insopportabile. Per anni credo di essere stato l’unico automobilista modello a guidare ben al di sotto dei limiti di velocità. Io e forse l’autista della papamobile. Ho dei ricordi di gare memorabili con pensionati ottuagenari occhialuti a bordo delle loro famigerate 124 sport e 850 sprint. Ma l’ironia sardonica degli arzilli piloti era ampiamente compensata dallo spettacolo che mi offriva la mia compagna quando si rilassava seduta al mio fianco. Pur volendo, non sarei stato in grado di dedicare maggiore attenzione alla guida, lei mi catturava quasi completamente. Tranne quella volta che un’auto bianca, targata C.V.D. 1, mi aveva lampeggiato insistentemente e il guidatore mi aveva fatto il medio con l’occhietto malefico. Stavo per ingranare la marcia e buttarmi all’inseguimento di quello zuccotto bianco su dentiera luccicante ma lei seppe farmi cambiare idea.
Per non parlare dell’acqua. Non ero mai riuscito a portarla al mare. Il terrore che aveva delle grandi quantità d’acqua era perlomeno inspiegabile. Almeno per me. Ero perfettamente consapevole che la spiegazione avrei potuto trovarla ben oltre il groviglio impenetrabile di snodi celebrali non completamente connessi che il suo delizioso cranio color miele ospitava. Avevo sempre provato un certo disagio all’idea di avventurarmi al suo interno e mi accontentavo di contemplarlo: me lo immaginavo come un garbuglio a metà tra un rovo di spine ed un albero di Natale. Con le more e le palline colorate. Quando si arrabbiava e strepitava ci vedevo anche le lucine colorate. Quelle intermittenti.
Solo una volta ero riuscito a condurla sulla piscina di uno degli alberghi in cui eravamo stati: si era sempre tenuta ad almeno due metri dal bordo. Curiosamente invece adorava innaffiare il mio giardino. Era capace di spargere una quantità d’acqua equivalente a quella contenuta in una piscina olimpionica senza che ciò le provocasse la minima ansia. Affogava il mio prato in una palude senza avvertire nessuna angoscia. Al contrario, era felice come una bambina.
Una volta mi chiese “Come si dice quando faccio così con il tubo e l’acqua?”
“Stai irrorando d’acqua il mio giardino, Patatina mia” le risposi soprapensiero.
“Mmh… iro… irorare… che parola sensuale!”
“Irrorare, si dice irrorare, con la doppia erre”.
Lei: “La tua doppia erre non rulla, questo la rende estremamente sensuale”. Aveva pronunciato le ultime due parole molto lentamente con lo sguardo fisso di una micia affamata.
Io prontamente: “Il parroco Baldassarre irrorava la terra rincorrendo irritato a tutta birra ramarri irridenti che erravano tra il porro ed il farro correndo sorridenti senza arrendersi all’arrivo dell’arrembante parroco Baldassarre”. Questa volta più delle altre mi chiesi come facevamo a prenderci sul serio. L’aggrovigliamento sinaptico di cui avevo poc’anzi postulato, ma non dimostrato, l’esistenza improvvisamente ora lasciava posto ad un accogliente spazio vuoto sotto i capelli biondi. Per non svegliare il criceto che, ero sicuro ci dormisse, preferii lasciar cadere la cosa. Ancora una volta.
Avevo cercato di affrontare seriamente il discorso, spiegandole la funzione della paura. Almeno come la intendevo io. Parlavo con calma, lei ascoltava in silenzio. Volevo che capisse le ripercussioni che avevano tutte quelle angosce sul nostro rapporto. Continuava ad ascoltare in silenzio. Quel silenzio immobile che somigliava allo standby del mio portatile. Con tutte le difficoltà legate al nostro esiguo vocabolario comune, mi ero messo con impegno e credevo di essermi spiegato bene. Mentre pensavo tra me e me compiaciuto “forse stavolta ne è valsa la pena” le avevo preso la mano. I suoi meravigliosi occhioni blu si erano rianimati improvvisamente e sulla bocca aveva abbozzato uno dei suoi sorrisi asimmetrici ed irresistibili: uguale al mio portatile in standby quando premo un tasto qualunque, a parte il sorriso asimmetrico-irresistibile. Con quella voce che mi faceva vibrare certe parti inconfessabili, fece l’osservazione risolutrice: “Forse allora quindi ho bisogno avere di più protezione, io!”. “Si, hai ragione Patatina mia, forse allora quindi hai bisogno di un protettore” fu la mia risposta. Avevo provato ad essere serio: stavolta non era stata colpa mia.
Tutto sommato però sapevo bene con chi avrei dovuto prendermela. Dal mio punto di vista le colpe e le responsabilità erano chiare. Il misfatto era stato compiuto da Franco e Lina. No, la coppia in questione non erano i suoi genitori. Anzi, loro li ho sempre ringraziati. Anche oggi devo ammettere di averli ringraziati per i momenti di incomprensibile e irresponsabile piacere che mi hanno dato attraverso quella figlia fuori serie. Franco e Lina sono quei due che hanno messo fuorilegge le due sole istituzioni che avrebbero potuto mettermi al riparo da quell’enigma coi tacchi a spillo che mi girava per casa. Parlo di Lina Merlin e Franco Basaglia. Pace all’anima loro. Sono sicuro che case di tolleranza e manicomi se la sarebbero contesa a colpi di provini e di perizie. Ciascuno avrebbe avuto abbondanza di argomenti per pretendere l’esclusiva, nel primo caso, o l’affidamento nel secondo. Ciascuno avrebbe offerto o preteso un contratto oppure il ricovero coatto. Aveva i numeri per essere una star in entrambi i campi. Tournee internazionali o conferenze scientifiche.
Intanto casa mia rappresentava il primo esperimento in tal senso: in quel periodo non mi era mai stato chiaro dove finisse Merlin e quando iniziasse Bisaglia. Oscillavo tra il sacramentare uno e il benedire l’altra. Anche in ordine inverso e sparso.
Devo ammettere, con onestà, che più di una volta segretamente ho ringraziato il cielo. Come quando, scambiando la cannella con il peperoncino, fece violenza gastronomica ad un chilo di vongole scelte. Con quella boccuccia a cuoricino si giustificò dicendo: “Ma sembrano uguali: avere lo stesso colore. Poi, al mio paese noi non mangiare… come dici tu? Piccoli lupi… ah, lupini!”. Da parte mia, è proprio lì che l’avrei mandata: a quel paese, se non avesse aggiunto: “Ma, io adesso farmi perdonare!”. Per mesi ho nascosto il peperoncino e piazzato la cannella in bella vista.
Non è difficile credere che il nostro rapporto abbia avuto dei bassi, molto alti, e degli alti. Decisamente molto alti. Sicuramente le difficoltà linguistiche e le angosce che venivano dall’Est giocavano un ruolo decisivo, ma io tenevo duro anche nei momenti peggiori. Talvolta mi induceva a negare la sottointesa presunzione di intelligenza non solo a lei, ma a chiunque portasse reggicalze e push-up. Neri. Di pizzo.
Dedicavamo intere settimane a domare i nostri sensi. Una volta ingenuamente le chiesi:
“Come mai sono alcuni giorni che non esci?”
“Ho paura che qualcuno possa rapire, me”.
“Stai tranquilla, in Italia l’abigeato non è praticato”.
“L’abbecedario? Scusa, cosa c’entra l’abbecedario?”
“Una cippa, appunto”. Dissi tranquillo. “Era solo per dirti che puoi uscire tranquilla”.
Mentre pronunciavo queste parole mi avvicinai abbracciandola e appoggiando le mani sui fianchi calamitati. Avvicinai le mie labbra alle sue e lasciai scivolare le mani più giù, su quella specie di mandolino.
Lei con gli occhi socchiusi mi fece: “E poi mi piace stare qui con te, mi piace come mi prendi”.
“Anche a me piace come ti prendo per il …” risposi, senza pudore.
In alcuni di quei momenti avrei giurato di sentire addosso degli sguardi, non so se inquisitori o compiacenti. Solo molto tempo dopo ho pensato che potessero essere i fantasmi di Franco e Lina.
Internet è una cosa meravigliosa! Senza troppa fatica, riuscii a trovare le foto dei due miei numi tutelari. Erano in bianco e nero. Le stampai e riciclai due vecchie cornici d’argento regalo di cresima delle mie care zie. Mai avrebbero sospettato l’uso improprio che ne avrei fatto. Sulla scrivania nel mio studio ormai si sono conquistati, ancora oggi, il loro posto. Mi servono per non dimenticare. Non dimenticare cosa sono diventate la mia casa e la mia vita da quando ospito l’irrazionale fatta donna.
Una sera in cui la pioggia veniva giù a secchiate ce ne stavamo felini sul divano a farci le fusa. Mentre le accarezzavo le spalle, che sembravano di avorio, indicandole la fossetta che si forma alla base del collo, le dissi: “Immagina che sia piena d’acqua”.
Mi sussurrò languida: “E che tu hai tanta sete?”
Era capace di inceppare tutti i miei processi mentali sul nascere. Morivano in culla.
“Quanto ti piace se ti sfioro qui, alla base del collo?” le bisbigliai suadente.
“Tanto, amore mio. Mi piace se lo fai anche per l’altezza del collo” sospirò in uno stato di semi ipnosi che adoravo.
“Si, lungo la base del collo… per l’altezza… mmh… diviso due” le dissi pianissimo con la mia voce più sensuale, mentre con le mani le stringevo le natiche di granito.
“Non credi che sia un’area sensibile, gattina mia?” aggiunsi, roteando nel frattempo gli occhi, sospettoso, immaginando le reazioni e le ritorsioni di Franco e Lina.
“Ah, tesoro mio prendimi” fu la sua reazione.
“Lo sto già facendo Patatina mia, ti sto già prendendo per…”.
Avrei aggiunto “Lo faccio continuamente” ma temetti l’ira dei miei numi tutelari.
Un altro giorno, invece, mentre stendeva lo smalto sulle unghie delle mani mi chiese: “Come si dice questo in italiano?” porgendomi il pollice.
“Pollice, amore mio”.
Poi chiese “E questo?” allungando la gamba fuori dell’accappatoio bianco e agitando l’alluce.
“Alluce, tesoro mio”. Non ho mai capito quanto lo facesse apposta, ma la pelle vellutata e il suo profumo avevano scollegato ultima sinapsi attiva. Ancora una volta.
“Vieni qui, siediti sulle mie ginocchia”. Le dissi dolcemente e iniziai a sfiorarle la pelle lungo l’avambraccio fino al gomito. Sapevo che le piaceva e che aveva un effetto molto rilassante su di lei. Non c’era nulla di erotico, semplicemente si lasciava ipnotizzare. In quei momenti sembrava che il tempo si fermasse. Era come se fossimo in un film muto.
“I tuoi polluci mi fanno impazzire” disse con un filo di voce soffiata.
“Sembrano fatti apposta per questo, tesoro mio” le risposi. Serio e impunito.
Quando poi le gambe iniziarono a intorpidirsi, a causa del peso, aggiunsi: “Questo posto deve essere pieno di formiche, hanno assalito i miei piedi e sono arrivate quasi fino alle ginocchia!”
“Fomiche? Quali formiche?” disse lei.
“Sono enormi. Rosse e affamate” dissi.
“Oh, aiuto me!” sobbalzò.
“Ti porto in salvo me, piccola!” e così dicendo mi alzai e portandola in camera l’appoggiai delicatamente sul letto.
“Amore, mi hai salvata dalle terribili formiche rosse, affamate e col polluce gigante, meriti un premio!”.
Mentre lei teneva gli occhi socchiusi e mi porgeva i cuscinetti a forma di labbra, mi guardai intorno con un leggerissimo disagio. Mi pareva di sentire quei due ectoplasmi sghignazzare ironizzando su chi dei due stesse prendendo per il… l’altro. Mi sono sentito palpare con desiderio la natica. Sarà stato un caso, ma in quel momento avevo smesso di sentirmi uno spietato possessore di polluci stimolatori e trovavo ingombranti le lunghe, affusolate e pelose orecchie bicolore che ero quasi certo di avere. Con fare disinvolto, tanto per essere sicuro, mi grattai un lobo. Ero certo di averli sentiti. Si, li avevo sentiti distintamente smascellarsi quei due. Augurai loro un crampo bloccante e definitivo alle mandibole, mentre mi abbandonavo e lasciavo che lei desse ancora una volta un senso a tutto quanto. Come solo lei ha saputo fare.
Divertente anche questo tuo racconto, “esasperata” sottolineatura dell’importanza dell’intesa sessuale nella vita a due…
O no?
Un sorriso
anna
Molto divertente e ironico… quante cose si accettano per “amore”…!
Complimenti!
rosatea
Simpaticissima veramente… e quando la erre non rulla… si commettono anche errori di scrittura… non riconoscendo le doppie!
Caspita, non mi ero accorto che era arrivato il mio turno! Grazie per la lettura e i commenti.
Complimenti, aspettavo con ansia questo nuovo racconto, visto che il primo mi era piaciuto tanto. Bello il particolare della erre anche perchè sono di perte io ho la erre alla frencese ed è bello leggere queste cose molto piacevoli.
Continua così non fermarti hai una dote nello scrivere. Buona vita.