Lo chiamavano l’inglese.
Si intravedeva qua e là, nelle strade di un quartiere di periferia di una cittadina del nord Italia ed i residenti del posto, lo chiamavano così: l’inglese.
Forse per il suo modo impeccabile di vestire: completo grigio ad un petto, camicia bianca, linda di bucato (sembrava passata sotto una pressa per come non si facesse notare neanche la più piccola piega o sgualcitura) un papillon nero a piccolissimi pois grigio chiari guarniva un collo lungo ed esile, e delle scarpe alla Duilio lucidissime si facevano notare ad ogni passo.
Ma c’era dell’altro che portava la gente a soprannominarlo così.
Tutta la sua persona, a partire dal suo aspetto fisico per arrivare al modo di apparire distante, freddo, educato e riservato, direi soprattutto severo, gli aveva fatto appioppare questo sostantivo.
Aveva una folta capigliatura nera, ben ordinata sulla testa, i suoi occhi risultavano alterati dietro gli occhiali dalle spesse lenti e dalla montatura sobria ed essenziale, ed un folto paio di baffi, ingrigiti dall’età, erano lì a camuffare parte della bocca, che ad un occhio attento sarebbe risultata carnosa e ben disegnata.
Camminava con passo rapido, quasi stesse sempre in ritardo per un appuntamento, a qualsiasi ora del giorno, al mattino o alla sera, lo vedevi così con lo sguardo distante e fisso e con il ritmo che sostiene un soldato durante la marcia.
Portava sempre con sé una valigetta nera, tipo ventiquattr’ore, e puoi contarci se c’era lui, c’era anche lei, quasi fosse il prolungamento del suo corpo, quasi fosse la sua amante o il suo più caro amico. Nessuno lo conosceva in città, ma tutti lo conoscevano.
Non parlava mai con nessuno, ma ad ogni incontro regalava un mezzo inchino e un timido sorriso.
Lo conoscevano le vecchie casalinghe del quartiere, quando nelle prime ore della mattina affaccendate nella scelta di frutta e verdura nel mercato rionale, lo vedevano passare in fretta tra un banco e l’altro.
Lo conosceva il proprietario del Bar Antico in piazza, che ogni mattina alla solita ora, gli serviva il solito cappuccino bollente con il solito bicchierino di rhum.
Lo conoscevano i ragazzi delle scuole elementari e delle medie, che spesso con boria e alterigia si prendevano gioco di lui, a causa soprattutto di quel papillon a pois.
Lo conoscevano i maratoneti che marciando al ritmo della musica dei loro walkman tra il verde dell’unico grande parco del quartiere, ne intravedevano l’ombra a riposo, tra le fronde degli alberi e i verdi cespugli, adagiata sulla panchina di fronte alla fontana e sempre li lo trovavi a quell’ora, su quella panchina.
Nessuno conosceva però il suo nome, né il suo indirizzo, nessuno era a conoscenza della sua vita, se avesse famiglia, parenti, se vivesse solo e di che cosa si occupasse durante le sue lunghe giornate.
Era lì nel quartiere, tra la gente, ora in piazza, ora nel più solitario vicolo, a passeggiare, lui e i suoi pensieri lui e chissà quali segreti, era lì ovunque, quasi avesse il dono dell’ubiquità.
Era arrivato in quella tranquilla cittadina mesi prima all’improvviso, spuntando così dal nulla, senza fare rumore, ma già solo dopo qualche giorno la gente del posto parlava di lui, con vaga curiosità ed un alone di mistero, sfrecciando qua e là qualche occhiata maliziosa e fuggitiva…
Così, ogni cosa che ci è lontana, ogni cosa che in qualche modo sembra non appartenerci, ci inquieta, ci mette sulla difensiva e ci fa divagare e chiacchierare a vuoto.
Ogni angolo di mondo è uguale ad un altro angolo di mondo, e la natura dell’uomo e i suoi sentimenti più maligni, riaffiorano ovunque e comunque.
Ogni persona nel quartiere contribuiva a vestire l’inglese di identità diverse: ora forse una spia venuta chissà da dove, ora un serial-killer in attesa di colpire la prima vittima, forse un agente delle tasse, o un evaso da qualche istituto.
Questo il destino dell’inglese, un soprannome e mille identità diverse.
Oggi dopo più di un anno dalla scomparsa di questo discusso personaggio, si svela il mistero di un uomo solo, addormentatosi su quella panchina per sempre, sotto un pallido sole primaverile.
Un uomo che chissà per quale recondito motivo, per quale difficile passato, aveva abbandonato il suo mondo o forse aveva deciso soltanto di chiuderlo e proteggerlo tutto intero nella sua ventiquattrore.
Nel pugno ancora chiuso un flaconcino di pillole e sulle gambe la valigetta aperta e cosparsa di foto e di fogli olografi, poesie e pensieri, la sua vera identità.
Fu Andrea, uno tra i tanti maratoneti del parco, che scoprì il corpo ormai privo di vita dell’Inglese.
Andrea che lo aveva notato tante volte in passato seduto su quella panchina e che mille volte gli aveva rivolto un pensiero, mille volte avrebbe voluto interrompere la corsa, per fermarsi, avvicinarsi e rivolgergli una parola, un saluto, per chiedergli il suo nome e sapere della sua vita. C’era qualcosa in quell’uomo che lo aveva colpito, un’empatia incomprensibile, un sottile ed invisibile filo di unione, come fosse uno specchio a riflettere la sua immagine.
Andrea si vedeva in lui, pur non sapendo chi era, ci si riconosceva. Era solo e fragile Andrea, come l’Inglese.
Fu questa la ragione, una volta risolto il caso di suicidio ed appurata l’identità del morto, che portò il ragazzo a chiedere il contenuto di quella ventiquattrore.
E tra l’intervallare di foto e racconti, poesie e pensieri, schizzi di inchiostro nero su lembi di fogli bianchi, nasce la storia di Saverio Bellanti, professore di lettere, poeta sconosciuto, uomo divorato da un’estrema sensibilità, vissuto in solitudine, figlio di terra napoletana e uomo innamorato di Maddalena.
Ritratta nella sua bellezza ed esuberanza mediterranea, con la massa di riccioli neri sfiorati dal vento, bianco il sorriso tra le labbra di ciliegia, si faceva baciare dal sole d’estate e bagnare dall’acqua di mare. Non avrà avuto più di vent’anni e non era per lui.
La sua allieva, la sua passione, la sua inquietudine, la sua pazzia.
Lei aveva risvegliato desideri e tormenti, paure e disagi, fremiti e brividi addormentati e sopiti da lunghi anni di solitudine e rassegnazione.
Aveva risvegliato l’incubo di anni fatti di rinunce, di rimpianti, di cose non fatte e non dette, di emozioni non vissute e dimenticate, di anni amputati alla vita in nome della più grande delle paure, quella di non essere riconosciuto, accettato, la paura del rifiuto.
Quell’esuberanza, quella freschezza e la giovinezza gli avevano squarciato l’anima e dell’anima sua non era più il padrone.
La più grande debolezza di Saverio fu quella di non aver saputo accettare le sue meravigliose emozioni e viverle dentro di sé, ma di averne subito il peso e le paure e di averle impacchettate e rinchiuse per sempre in quella valigetta nera.
E proprio quella debolezza era il comune denominatore tra Saverio ed Andrea, quell’empatia, quel sottile ed invisibile filo di unione che il ragazzo sentiva, era il vivere una vita spezzata, una vita non pienamente sua.
L’inglese andandosene, aveva lasciato un messaggio doloroso ma indelebile: avere la forza ed il coraggio di vivere ogni giorno la vita, mantenendo integra la cosa più preziosa che ci appartiene, la nostra vera identità ed Andrea ne avrebbe fatto tesoro…
Che bel racconto!
Conserva la suspance fino alla fine.
Ottimo anche il modo in cui descrivi pensieri, sensazioni, modi di rapportarsi della gente a ciò che è nuovo e differente.
Ciao.
anna
Ben tornata, cara Elisa.
Un bel racconto, con un’ampia descrizione di sentimenti ed un bellissimo messaggio finale, che può cambiare la strada ad un giovane “indeciso”.
Brava.
Sandra
Innanzitutto ben tornata! E complimenti per il racconto! E’ stupendo e con un messaggio forte e incoraggiante.
Ciò che conta è avere il coraggio, e sottolineo coraggio, di essere se stessi.
Ciao!