Mi nombre es Pablo, pero todos me llaman Pablito.

I ricordi bisogna rincorrerli affinché restino nostri. Solo correndo dietro le immagini ed i suoni del tempo che ci appartenne saremo capaci di conquistarli, di rinchiuderli nella nostra testa. Solo correndo ci ricorderemo chi siamo. Solo correndo dietro un aquilone che volava nel cielo cobalto vidi per la prima volta il mare. Era così grande da sentirmi perso, da farmi paura lasciando che l’aquilone si allontanasse da solo mentre correndo, con il cuore che chiudeva il respiro, tornavo a casa pensando di trovare mamma già lì e sperando di non dover essere picchiato per essermi allontanato. Solo se mamma è felice le avrei detto di aver visto il mare.

La nostra casa era un piccolo appartamento buio al terzo piano a pochi passi da Valencia. Ero un piccolo bambino impertinente abituato alla vita del barrio. Sotto il sole cocente di un’estate spagnola molto arida il mio unico pensiero era dare calci ad un pallone sognando un giorno il Barça o mal che vada il Valencia. Non parlatemi del Real, por favor!

Sognavo una maglia, un futuro e tanti soldi. Ognuno di noi sogna il meglio per la propria vita senza rendersi conto che è la vita stessa che progetta per noi. Passavo i pomeriggi con i miei amici a rincorrerci per la calle con la mia palla aspettando la sera e la cena che preparava mia nonna per me e mia madre. Non tutti i pomeriggi trascorrono normalmente. In uno di quelli mentre gridavo con le mani al cielo dopo un mio stupefacente goal mia mamma mi chiamò dal balcone del terzo piano. Le sue urla erano ben distinguibili. Salii le scale palleggiando e cantando ma quando aprii la porta l’atmosfera non era così festosa.

Trovai mia nonna molto nervosa e mia madre nella sua stanza a raccogliere i vestiti. Mi fermai sulla porta e le dissi:

“¿Que pasa, mamà?”

Lei non si fermò, prese dall’armadio tutto e lo mise sul letto raccogliendolo, rispondendomi ansiosamente:

“Nada, prepara tu maleta y recoges tus cosas”.

“¿Dónde vamos?”. A mia madre non piacevano tante domande perché il più delle volte non aveva delle risposte e anche quella volta mi cacciò dalla camera senza dire nient’altro. Spesso non sapeva dirmi perché io non avevo una coppia di genitori, o perché la nonna viveva con noi, oppure perchè certe sere non si reggeva in piedi e puzzava così tanto da dover vomitare. Mai seppe dirmi dove fosse mio padre.

Nel mio piccolo zaino raccolsi sogni, speranze, ricordi e voglia di dimenticare tutto e di scoprire tantissime cose nuove, naturalmente misi anche il mio pallone. Salutai la nonna e scendemmo le scale. Camminammo un po’, finché trovammo un taxi che ci portò alla Estación del norte di Valencia. Aspettavamo un treno che sembrava non arrivare mai e che ci avrebbe portato lontano. Questo lo avevo intuito. La notte la passammo con il rumore del vagone di un intercity che dondolava e acquietava tutto. Cercavo di addormentarmi sulle ginocchia di mia madre che lentamente accarezzava la mia nuca rasata da poco. Fuori era buio e tra gli alberi e le nuvole che correvano assieme a noi nitido era il chiarore della luna alta in cielo.

“Mamà, mira la luna”.

Era grande e tonda quella sfera dorata ma le mie parole servivano piuttosto a capire se mia madre era ancora nervosa.

“Es tan bella”.

Voltai il capo per guardarla e notai che sorrideva. Forse era questo il momento di chiedere qualcosa, di sapere e di cercare risposte a tanti perché.

“Mamà, ¿dónde vamos?”

Ella non distolse il suo sguardo da quel corpo celeste così fermo e distante e mi rispose sospirando come si fa quando si sta per buttare tutto fuori.

“Escuchame bien, Pablito. Voy a decirte un secreto pero recuerdas que a la luna no se cuenten ni mentiras ni secretos. Vamos a buscar tu padre.”

Quella notte passò veloce e così velocemente conobbi il mio passato. Mio padre era un italo-spagnolo di nome Xavier che poco prima della mia nascita sparì nel nulla. La nostra speranza adesso era che fosse tornato in Italia. Quella notte sul treno mi addormentai con la certezza di avere anche io un padre e con il desiderio di poter avere una famiglia normale.

Arrivammo a Roma in una mattinata afosa. La stazione era piena di gente e per paura tenevo stretta la mano di mia madre. Ci fermammo davanti l’ingresso e di fronte a noi; l’Italia. Ma chi conosceva questo Paese? Chi sapeva parlare l’italiano? E poi, dove avremmo trovato mio padre? Nello stesso modo in cui si cerca una stella nel cielo a trovar conforto io guardavo mia mamma per avere certezze. Lei sapeva dove andare. A me rincuorava convincermi di ciò.

Mamà, ¿Tu sabes dónde vive mi padre?”

“Ahora vamos a buscarlo”

Non avevamo niente, nemmeno una cartina della città, né un’informazione e nemmeno la bussola del mio caro amico Juan ci avrebbe potuto aiutare. Tuttavia amavo le avventure e scoprire posti nuovi. Da subito sembrò di giocare come facevo tra le calles ad una caccia al tesoro.

“Bien, ¿y por dónde empezar?”

Salimmo entrambi su un grande autobus scoperto pieno di turisti americani e giapponesi. L’aria di Roma sembrava come quella di casa mia, umida e calda da sembrare assente. In pochi minuti vidi il “Tiber” , “el Choliseo”, “Plaza de España”, fu come vedere tante cartoline reali ma a me interessava di più trovare lui. Quando scendemmo dall’autobus Roma era alle nostre spalle e noi con il sole sulle nostre teste cercavamo uno sconosciuto, in fondo tale era. A quell’età non sentivo le domande che divorano l’anima. Non volevo sapere perchè mi abbandonò, non mi interessava come il desiderio di poterlo conoscere. Non capivo neanche perchè adesso eravamo noi a cercarlo mentre sarebbe stato giusto il contrario. Non seppi mai perchè mia madre volle andare a trovarlo. Una donna gravida abbandonata oltre al rancore non credo abbia altro da dire al suo uomo. Del resto mai capì cosa passava nella testa di mia mamma.

Mentre giocavo con ogni cosa per le strade di Roma lei chideva ad ogni passante informazioni sulla casa di mio padre. Giungemmo nella sera tarda e scura davanti ad un cancello chiuso ricoperto di foglie verdi e piccoli fiori lilla. Suonammo e ci aprì una signora alta ed elegante a cui mamma chiese di Xavier. La donna ci guardava con diffidenza e volle sapere chi fossimo. Mia madre si presentò e presentò anche me.

Quando le sue orecchie udirono il mio nome: “Pablito”, la donna si pietrificò e nel suo italiano comunque comprensibile nominò la Vergine mentre le si gonfiavano gli occhi. Nello stesso istante mia madre mi diceva:

“Pablito, esta señora es tu abuela”.

Avevo dieci anni ma non riuscivo a capire. Non tutto era chiaro nella mia piccola vita. Molte cose fui costrette a lasciarle senza un perchè, molte persone per me non avevano un volto. Non so adesso se ringraziare mia mamma per avermi protetto dal destino di una famiglia che nasce e non cresce come dovrebbe oppure odiarla perchè io in fondo avevo il diritto di sapere. Avevo dieci anni e fra tanta confusione io seguivo lei che nonostante tutto mi accudiva e mi proteggeva o forse ero io a proteggere lei.

Si fece buio mentre mia madre e mia nonna paterna discutevano sul divano di un grande salotto quasi come quello del Palacio Real. Bevvero un tè e si parlarono a distanza. Senza sorrisi, senza emozioni. Io scalciavo per non addormentarmi e perchè credevo che da lì a poco avrei riempito il vuoto della mia vita ma mio padre non c’era. Nemmeno quella sera, neanche a casa sua. Io cedetti al sonno e quella notte la ricordo come la più fredda di tutta la mia vita. Furono sogni di delusione e tristezza.

Mi svegliai all’alba pietrificato dalla fresca brezza mattutina di Roma. Il grigiore di un giorno nuovo era appena sufficiente ad illuminare i volti nei quadri appesi attorno a me. Ero in una camera della grande casa. Sulle pareti tanti volti mai visti. Osservai ogni foto e poi dentro un cuore due volti sorridenti. C’era mia madre abbracciata a Xavier. Mi bloccai e a quel punto volevo piangere e gridare, volevo scappare. Volevo una famiglia sorridente come quelle persone fissate ai muri. Tornai a sedermi sul letto e con i piedi urtai qualcosa sotto il materasso e le coperte. Raccolsi da terra una scatola decorata chiusa con un piccolo lucchetto. Se quella era la stanza di mio padre anche lì dentro ci avrei trovato parte di lui. Ad aprirla ci misi poco, i trucchi per rubare nel barrio erano ormai lezione assimilata. Dentro ci trovai tante buste, tante lettere e tante fotografie. Sulle buste c’era il nome suo: Xavier, nelle lettere scritte in spagnolo c’era l’amore per mia madre e nelle foto c’ero io e la mia vita.

C’erano istantanee che ritraevano me, i miei amici, le finestre del nostro appartamento al terzo piano, mia nonna che mi accompagnava a scuola, i miei goal e le mie esultanze, c’erano le foto della mia comunione, di mia madre al lavoro e tante altre immagini. Ogni fotografia era un frammento della sua vicinanza. Egli scattava da punti nascosti, da dietro i muri e i cassonetti, dalle alte spine del parco alle dune di terra rossa vicino al nostro campetto di calcio. Mio padre mi conosceva e conosceva il mio vivere. Un padre ce l’avevo, spesso molto vicino, ma non lo sapevo e non lo sentivo. Non mi aveva abbandonato; questo è certo! Ma vale di più correre dietro alle persone amate ed amarle di nascosto oppure amare e far sentire l’amore dato?

“¿Por qué te escondes?”

Pensavo a tutte quelle lettere e a quegli scatti mentre andavamo via dopo aver gentilmente salutato la nonna. Le nostre speranze svanivano come la nebbia attorno a Roma mentre si alzava il sole. Di quel cofanetto non dissi nulla. Rivedevamo Roma per un’ultima volta mentre andavamo verso un treno che ci avrebbe riportato a casa. Avremmo ricominciato la vita di sempre, avrei ritrovato Juan e gli altri per continuare a tirar calci ad una “estúpida pelota”, come la chiama mia madre. Per me, quella “estúpida pelota”, rappresentava i miei sogni e il mio futuro. Un giorno mi piacerebbe diventare il più forte calciatore di Spagna e del Mondo. Un giorno, spero non troppo lontano, vorrei vedere mia madre sorridere ed esser fiera di me, del suo amore. Un giorno vorrei conoscere Xavier, presentargli i miei amici, fargli vedere le collezioni di figurine che tengo gelosamente nascoste. Vorrei che un giorno mi portasse al mare per giocare nell’acqua azzurra e, se lo ritrovo, per riprendermi l’aquilone. Per adesso tutti questi desideri erano chiusi in una scatola sotto il letto di mio padre e noi esausti da un viaggio così lungo e quasi inutile tornavamo a casa.
Il treno per Valencia partì tardi ed anche quella notte la grande luna dorata ci riaccompagnava e ci faceva compagnia nella solitudine dei nostri cuori. Mia madre era accanto al finestrino e stavolta era lei a mostrarmi quell’astro brillante:

“Pablito, la misma luna de ayer, mira!”

E mentre incantato l’osservavo lei con le lacrime a tagliarle in viso mi disse:

“Perdoname para haber desilusionado tu sueño”.

In quell’istante sentii il dolore della mia povera mamma che voleva solo rendermi felice e capì che dovevo raccontargli di quelle lettere e di quelle fotografie. Alla fine si trattava di un amore mai finito, alla fine era il grande puzzle disordinato della nostra disordinata vita.

“Mamà quiero decirte un secreto”.

Lei ancora piangendo mi zittì e con amore mi accarezzava i corti capelli ricordami del nostro accordo, di una promessa che fece lei alla nonna molto tempo fa, che chiese a Xavier in una notte fredda: l’ultima insieme, e che chiese adesso a me.

“Recuerda nuesto pacto. A la luna no se cuenten ni mentiras ni secretos”

Decisi quella notte che quel segreto lo avrei tenuto per me e sarebbe stato il mio fedele compagno mentre ogni giorno continuerò a rincorre il mio pallone, i miei sogni, un futuro, un padre e i miei pochi ricordi che ho.

Me llamo Pablo, pero todos me llaman Pablito y un dia te recordarás de este nombre, todavia no lo decir a nadie.

Es mi secreto!

4 pensiero su “Segreto”
  1. Caro Raf, devi perdonare il mio limite. Il raconto é bello e altrettanto triste, in quanto ogni fanciullo ha diritto ad avere una adolescenza serena, vera e una famiglia. Quello che non comprendo é perchè questo padre non si é mai fatto conoscere fisicamente e si é limitato a fotografare pezzi di vita delle persone che amava. Forse non era libero? Per fedeltà ad una promessa fatta?
    Comunque é un bel pezzo. 5 stelle.
    sandra

  2. Ciao Sandra, innanzi tutto grazie per la lettura. Almeno io che ho scritto questa storia dovrei sapere il perchè questo padre amava “a distanza”, eppure non saprei risponderti (almeno per adesso 😉 ). Infatti ho preferito immedesimarmi in un ragazzino che non conosceva quel motivo ma a cui poi non interessava poi così tanto. A Pablito interessava riunire la famiglia, sognare di averne una normale.
    Questa è la storia non di una famiglia poco normale ma di tanti sogni che Pablito ha dentro di se e che spera di realizzare. Molti verranno delusi ma alla fine il piccolo protagonista non perde la speranza per guardare in alto e rincorrere i suoi progetti!
    Comunque posso anticipare che questa storia ha un seguito e forse (“forse”) solo allora capirai il perchè il padre non si è fatto conoscere.
    Un carissimo saluto.
    Raf

  3. Un bel racconto.
    Mi piace anche così, sospeso.
    Nessuno, tranne, l’Autore può sapere come andrà a finire, ovviamente, ma il senso di smarrimento e di incertezza che accompagna il lettore è ben tenuto vivo fino alla ultima parola.
    Riesci a rendere l’animo del ragazzino che senza saperlo va alla ricerca di sé e del mistero che avvolge le sue origini.
    Se ci sarà un seguito, lo leggerò con piacere.
    L’unico consiglio che mi permetto di darti è quel “labor limae” di cui spesso parla Icehotheart, cioè di rifinitura quasi maniacale del testo circa le regole della lingua legate, per esempio, all’uso dell’aggettivo possessivo o all’introduzione di un complemento oggetto di troppo nella costruzione della frase (vedi l’inizio) o ai pleonasmi (vedi piccolo bambino > ovviamente un bambino è piccolo!)
    Se, infatti, ad un bambino nelle vesti di protagonista, si potrebbe concedere un linguaggio familiare, l’aspettativa, creata in chi legge dal tono della narrazione, lascia immaginare una vicenda che può portare ad un lungo viaggio nella memoria e, perchè no?, nel giallo, un racconto comunque, di ampio respiro e di più vasto orizzonte.
    Non so se sono riuscita a spiegare il mio pensiero.
    Ciao
    anna

    5 s.

  4. Grazie Anna per il supporto. Ripeto ancora che ho molto da imparare e i vostri consigli mi aiutano molto quindi li accetto volentieri. Spesso i miei testi sono “sospesi” qualcuno su questo sito li ha definiti “tendenti all’infinito” perchè mi piace giocare con la mia fantasia e con quella del lettore lasciandola libera di “sbizzarrirsi”. Prometto di impegnarmi nel cd Labor limae che a dir la verità non mi piace molto fare (eccetto nei casi “grammaticalmente” necessari). Non ho mai revisionato un mio scritto con molto piacere. Consapevole che sia un grave errore prometto lo stesso di stare più attento. In fine sono sicuro che il seguito che ho già scritto ti piacerà!
    A presto
    Raf

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