Walter era lì e penzolava, appeso all’architrave di rovere della soffitta.

Non era una cosa bella a vedersi.

Il raccapriccio prese il povero Agenore che nella ricerca affannosa del cognato scomparso aveva dato la sua mano, anche se i sentimenti si erano alterati dopo la scazzottata che c’era stata e che sembrava aver chiuso ogni possibilità di rapporto pacifico e civile tra loro.
Ma poi Walter senza dire niente a nessuno non era tornato a casa e sua moglie lo aveva atteso invano e afflitta. E allora come poteva egli, dopo tanti anni che si conoscevano ed erano stati amici e parenti, solo per il fatto che si ritrovavano avversari in amore, non fare la sua parte e non aiutare la cognata, la moglie e la donna amata da entrambi a cercare l’uomo che non si trovava?
Nell’iniziale confusione amorosa che aveva preso i due uomini come una normale influenza, che forse avrebbe potuto passare con una bella sudata e qualche giorno di letto e che, invece, col passare del tempo, si era trasmutata in un male serio e ricco di conseguenze, mai più Agenore avrebbe pensato che la storia sarebbe finita così, con quello che penzolava come un lampadario di Boemia e lui che lo guardava inorridito.
Tratteneva il respiro davanti allo sfacelo e a quella cosa che era stata un gran bell’uomo, ma che ora non sapeva se gli facesse più rabbia, dolore o ribrezzo.
Eppure era una vicenda cominciata da un nulla, come quando il vento di primavera, nascendo dai monti, soffia dapprima leggero sull’acqua placida del lago, ma poi rinforza e diventa possente, gonfia le onde che scendono da Locarno verso il ponte di ferro di Sesto Calende, spazza ogni cosa e causa disastri a prima vista impensabili, ma non impossibili per quel turbine che era iniziato come una piccola bava di vento.
Mentre si precipitava giù dalle scale per chiedere aiuto, dire che l’aveva trovato e che la caccia era finita, si chiedeva cosa avrebbe raccontato alle tre donne, come le avrebbe trattenute dal salire in soffitta e sperò per un attimo che tutto non fosse vero.
A pensarci bene, infatti, se non ci fosse stato quel cadavere a contraddire, sarebbe stata tutta una storia da raccontare a mezza voce, da confidarsela tra pettegole e buontemponi, senza farne una malattia e lasciandola al tempo che passa.
Invece no.
Agenore aveva urlato davanti a tutti che si era innamorato per davvero e si era preso il primo cazzotto sul naso importante che gli dava quell’aria distinta e quasi nobile; così si era sentito costretto a rispondere, a stringere i pugni, a fare la sua parte e a ballonzolare sui due piedi, spostando il peso di qua e di là come un Tyson nostrano, fiero e bellicoso per lavare un’onta che neanche tutta la candeggina di questo mondo avrebbe potuto sbiancare, perché non c’era nulla da lavare, perché la donzella per cui stavano facendo a botte e distruggendo l’affetto di una vita, in realtà non era interessata a nessuno dei due.

La storia era cominciata in sordina.

Il 16 marzo Walter si era presentato in ditta, la stimata
“Consonni Agenore e C. – Uova di giornata fresche e nutrienti”
dove “C.” stava per Corinna, la piacente e scrupolosa moglie che condivideva con lui la fatica di mandare avanti la baracca e gli orari di lavoro faticosissimi, perché le innumerevoli galline nelle loro stie mangiavano in continuazione e facevano uova senza tener troppo conto degli orari degli esseri umani. Un po’ come se dicessero: “Mi costringi a mangiare? Vuoi l’ovetto fresco? E allora io te lo scodello a tutte le ore!”
Walter, dicevamo, arrivò a bordo della sua BMW serie 3, berlina, quattro porte, color canna di fucile, poco prima dell’intervallo di mezzogiorno e in quel momento stesso iniziò la frittata di sentimenti e famiglie, di affetti e di rapporti, come quando un fiammifero si accende e ne consegue un incendio.
Se Agenore e Corinna erano sobri e lavoratori, tutti dediti alle loro galline e alle uova, se il massimo del lusso per loro era la Fiat Argenta, parcheggiata nel box di casa, vero siluro su quattro ruote con cruscotto in radica e sedili in finta pelle, Walter, fratello di Corinna, pavoneggiava il suo benessere di quarantacinquenne ragioniere commercialista locale guidando ogni domenica pomeriggio la sua auto straniera sulle strade del lago.
Filava a velocità sostenuta e rischiava sempre di schiantarsi ad ogni curva della strada che da Sesto porta a Luino, dove all’Hotel Paradiso finivano le sue passeggiate domenicali, discreto ospite con la sua passione del momento e con la quale trascorreva un paio di ore celestiali, mentre la moglie giocava a carte con le amiche di Scala Quaranta.
Agenore sapeva di questa doppia vita festiva del cognato.
Ne avevano parlato velatamente, dopo che lo aveva incrociato in uno di quei pomeriggi in cui con la sua Corinna – galline permettendo – si spingeva fino a Laveno per passeggiare sul lungolago e prendere un caffè in quel bel bar d’angolo, posto alla fine della passeggiata, prima di arrivare alla strada chiusa dallo stabilimento della Richard Ginori che ora non c’è più, ma che è stato una delle glorie dell’industria ceramica lombarda.
Lo aveva visto con una gallinella seduta al fianco, del genere belloccia e speranzosa, una di quelle ragazze che si accontentavano di un pomeriggio di passione e che non miravano a nulla più che a qualche regalo e a qualche ora divertente.
Lo aveva riconosciuto nello specchietto retrovisore, ma aveva fatto finta di niente, anzi,   aveva fatto in modo di distogliere l’attenzione di Corinna che ne era sorella e avrebbe potuto irritarsi, e parecchio, vedendo il fratello nelle vesti di conquistatore, lei che ne aveva una sacra venerazione, che lo ammirava per il suo essersi fatto da solo una bella posizione e una bella clientela, che lo apprezzava per le sue qualità di serio professionista e per la vita agiata che offriva a Carmela, la moglie siciliana che aveva conosciuto durante il servizio militare e che aveva sposato non appena era stato congedato.
Più di venti anni di quel matrimonio non potevano essere messi a rischio.
Allora aveva chiesto a Corinna di cercargli gli occhiali da sole nel cassettino di cortesia dell’auto e la donna si era chinata e non aveva visto suo fratello Walter che in quel momento sfrecciava via, superandoli di gran carriera, diretto alla volta di Luino e di ben altro.
Al chiarimento, tra uomini, che ne era seguito, Walter aveva nicchiato e Agenore aveva capito.
Ecco perché quella mattina Agenore, stupito,andò incontro al cognato che aveva frenato bruscamente sulla ghiaia dello spiazzo che separava l’ufficio dal capannone delle galline e, sceso dall’auto, apriva pomposamente la portiera ad una donna che non era sua moglie.
Era questa una persona di circa trent’anni, decisamente bella, vestita in modo decoroso, bionda e senza alcun dubbio non appartenente alla categoria delle ragazze che potevano rallegrare una domenica pomeriggio.
Il cognato gliela presentò con poche parole: era Aldina Rossetti, la vedova di un suo cliente che era morto lasciandola in guai finanziari e con un bambino piccolo da crescere. Cercava lavoro, uno qualsiasi, ne aveva bisogno. Poteva fare qualcosa?.
Agenore rispose subito di sì.
Non pensò di chiedere parere a Corinna.
Una delle operaie si era licenziata qualche giorno prima, perché si sposava e si trasferiva lontano.
Il posto, quindi, c’era e, come spiegò, fatto salvo un periodo di reciproco affiatamento e di prova, la donna avrebbe potuto essere assunta.
L’Aldina promise di presentarsi l’indomani, perché non aveva tempo da perdere. Ai documenti e a tutte le formalità avrebbe provveduto Walter che era il commercialista di entrambi e sapeva cosa fare.

Ecco come era cominciata.

Aldina scrupolosa e attenta nel lavoro, raccoglieva le uova e le posizionava negli imballi. Lavorava svelta, standosene zitta.
Colpiva quella sua aria riservata e volenterosa.
Col passare dei giorni Agenore la guardava con sempre maggiore interesse, incuriosito, più che altro.
Si chiedeva come ci si sente quando la vita precipita, quando il benessere finisce, quando tutto deve ricominciare da zero e si è una donna sola con un bambino da tirar grande.
Anche Corinna, che all’inizio c’era rimasta male per non essere stata consultata sull’assunzione della nuova lavorante, aveva compreso la posizione del marito posto di fronte all’aut aut di suo fratello e ne conveniva che la poveretta andava aiutata.
Walter si era fatto parte diligente di istruire le pratiche e col passare del tempo, anche per il modo in cui le si rivolgeva quando passava dalla ditta, chiamandola sempre “Signora Rossetti” e mai con  tono confidenziale, i due Consonni si convincevano che avevano fatto una buona azione e si sentivano con la coscienza a posto.
Corinna che lavorava al suo fianco, si sentiva così.
La coscienza di Agenore col passare del tempo, invece, vacillava.
Il muro invalicabile della sua fedeltà coniugale si andava sgretolando.
Aveva scoperto che l’istinto dell’attrazione fisica, nascosta sotto il moggio per anni, poteva tornare a bruciare.
All’inizio aveva sottovalutato la cosa e l’aveva chiamata pietà, poi generosità, quindi altruismo, infine attenzione.

E a quel punto, ormai, era fatta.

Quella donna gli piaceva, se la immaginava sinuosa e accondiscendente.
Pensava a lei quando si faceva la barba ogni mattina, quando passeggiava la domenica pomeriggio sul lungolago di Laveno – galline permettendo -, quando offriva a sua moglie il caffè nella pausa di lavoro delle dieci e mezza, quando, soprattutto, guidava il camioncino delle consegne, sovrappensiero, distratto, passando perfino col rosso e arrivando a provocare un bel tamponamento con uova dappertutto, rovesciate sull’asfalto della strada che da Gavirate va a Varese.
Walter che era suo cognato ed era un galletto, se ne accorse subito.
Faceva la ronda in ditta molto spesso. Talvolta, con la scusa di pratiche burocratiche, arrivava proprio poco prima che Aldina terminasse il turno di lavoro e le offriva un passaggio in macchina per tornare a casa.
Agenore che conosceva il suo pollo, si sentiva sempre più preoccupato e anche geloso.
La donna era gentile con entrambi, ma non dava a vedere, non lasciava trapelare nessun sentimento.
Custodiva se stessa e basta.
Forse, proprio il suo distacco aizzava l’interesse dei due uomini che lustravano creste e bargigli, affilavano speroni e credevano di difendere una proprietà che non intendeva appartenere a nessuno.
Un chiarimento tra i due cognati avrebbe potuto mettere un punto fermo alla vicenda e chiudere tutto, ma la ragione non sente ragioni quando la ragione, appunto, è in vacanza.
Agenore cominciò gli appostamenti.
Passeggiava nei pressi della casa dove abitava la Rossetti con tanto di cane al guinzaglio, un bel barboncino nero che forse nella sua ragionevolezza di cane si chiedeva perché il giretto serale intorno all’isolato fosse stato sostituito da un viaggetto in macchina per andare a lasciare testimonianza di passaggio dove i suoi amici cagnolini di quartiere non sarebbero arrivati mai.
Walter non fu da meno e si inventò problemi di tasse che non stavano né in cielo né in terra, ma motivavano visite continue ai suoi assistiti e passaggi in macchina all’Aldina sempre più frequenti.

E venne, infine, il 20 luglio, giorno del quarantaquattresimo compleanno dell’ignara Carmela che segnò anche l’inizio del patatrak.

Walter invitò a cena  parenti ed amici al ristorante Chiaro di Luna che si affacciava sul lago con la sua bella terrazza all’altezza di Monvalle e che vantava un’accoglienza ospitale, un ricco menu e una romantica orchestrina che accompagnava cena e dopocena nelle serate d’estate.
Tra gli invitati c’era anche la Vedova Rossetti in virtù delle conoscenze comuni nella cerchia di amici di un passato condiviso.
Agenore si sentiva come un adolescente al suo primo appuntamento; Walter, che ospitava ed era concentrato sull’idea di non insospettire la moglie, si sentiva, invece, come un leone in gabbia.
Alle prime note di Un Piccolo Grande Amore che seguivano il valzer che lo aveva impegnato con la moglie, Agenore si fece audace ed invitò Aldina a ballare quel motivo dolce e appassionato su cui generazioni di innamorati hanno percepito i loro cuori battere più velocemente.
Quando le ultime note si spensero nell’aria, Walter, sentendosi un po’ Otello ed un po’ Robin Hood, gli si fece vicino e con tono seccato gli consigliò un comportamento meno disinvolto, aggiungendo con tono di rimprovero e con fare  scocciato di ricordarsi della presenza di Corinna e di andare a fare il marpione da un’altra parte.
Agenore, turbato per essere stato scoperto e sapendo da quale pulpito gli veniva la predica, si mostrò dapprima stupito e scandalizzato.
Cominciò, quindi, a difendersi. Si schermiva e si giustificava, ma finì, clamorosamente, per confessare, come un marmocchio scoperto a rubare marmellata, così, davanti a tutti, di essersi innamorato, mentre Corinna sconvolta fuggiva verso il parcheggio delle auto e Aldina in lacrime, la inseguiva protestando la propria innocenza.
Poi si beccò il pugno sul naso e ne seguì la scazzottata, mentre gli amici ignari guardavano sbigottiti e cercavano di separarli.
Agenore non sapeva come era poi finita la serata, perché non era tornato a casa ed era andato a dormire in albergo, pensando di chiarire tutto con la moglie l’indomani. Al momento, infatti, ogni cosa gli appariva confusa e desiderava soltanto sparire dalla scena per qualche ora, per poter pensare a ciò che era stato e a ciò che lo attendeva.
Al mattino presto le tre donne lo rintracciarono.
Walter era sparito.
Aveva telefonato alla moglie a tarda ora.
In un discorso concitato e farneticante si era dichiarato amareggiato di aver presentato Aldina al cognato. Si sentiva colpevole per aver distrutto la felicità coniugale della sorella, si vergognava di non aver saputo rispettare l’amore di Carmela e di aver gettato fango anche sulla povera Rossetti che non c’entrava niente e che si era sempre comportata in modo irreprensibile.
Aveva chiesto scusa mille volte e pregava di essere perdonato.
Carmela si era spaventata, si era precipitata dalla cognata e aveva cominciato a cercarlo  presso parenti ed amici con Corinna e con Aldina, unite da quella solidarietà femminile che si crea quando il nemico da affrontare è la stupidità maschile.
Avevano cercato Walter dappertutto, tranne nel posto più ovvio e scontato, la soffitta.

Ed ecco come era finita.

Walter, pieno di rimorsi, si era impiccato e ora penzolava come un lampadario di cristallo di Boemia a conclusione di uno strazio d’amore senza senso e senza logica.

 

9 pensiero su “Uno strazio d’amore”
  1. … ovviamente in tutti i miei racconti che hanno collocazione geografica, poichè le vicende sono frutto di fantasia, i riferimenti a fatti o persone sono del tutto casuali.

    anna

  2. Carissima, la gente si fa del male da sola e neanche lo sa….
    La tua fantasia non conose limiti.
    Ho apprezzato il lampadario di Boemia…
    E’ un piacere leggere chi scrive così bene.
    Un abbraccio.
    sandra

  3. Ciao Anna, è davvero un bel racconto! Come sempre non ti smentisci mai. Un abbraccio e 5 stelle.

  4. Non è il solito racconto che letta da subito la conclusione si perde la voglia di continuare. Anzi attira molto leggere tutta la storia e suoi sviluppi. Anche nei racconti così “tragici” non manca lo stile a tratti ironico che allegerisce e coinvolge il lettore.
    Ciao “zietta”
    Raf

  5. Caro Raf,
    ci tengo al tuo parere, perchè sei “spontaneo”, dici ciò che pensi, senza peli sulla lingua.
    il grande Hitchcock, sublime maestro del giallo, dipanava la matassa dei suoi racconti partendo dalle certezze.
    Questo è in effetti un racconto al contrario.
    Parte dal dato di fatto per spiegare l’antefatto e si conclude tornando a quello che era l’inizio della storia.
    Non manca l’ironia nella tragicità, perchè se ci fermiamo a pensare, c’è sempre un sorriso dietro l’angolo di ogni vicenda; c’è sempre la possibilità di considerare che ogni accadimento può essere considerato in almeno due modi, come appare e come potrebbe essere stato se le cose fossero andate appena un pochino in modo differente.
    Le sfaccettature mi appassionano e mi divertono.
    La vita di paese, poi, si presta a mille suggestioni, tante quanti sono i modi di intendere dell’animo umano.
    Ciao, nipotino.
    zia anna

  6. Cara Anna, il tuo racconto mi è piaciuto moltissimo, non si legge, si divora… Mi piace il modo in cui descrivi le situazioni, tutto nei particolari, precisi, a volte ironici, molto bello. Brava. Un abbraccio a cinque stelle. Ciao da Betta

  7. Grazie, Betta.
    Non sempre riesco a scrivere racconti “corti”.
    Ci vuole un po’ di pazienza nel leggermi….
    Un abbraccio.
    anna

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